Ogni anno, in Europa sono generati poco meno di 26 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica, secondo le stime riportate dall’Unione europea: di queste, meno del 30% è riciclato, mentre i livelli di messa in discarica e incenerimento sono rispettivamente del 31% e del 39%. La fabbricazione e l’incenerimento della plastica producono globalmente circa 400 milioni di tonnellate di Co2 all’anno. Se tutta la spazzatura costituita da plastica fosse riciclata, ogni anno si risparmierebbe l’equivalente di tre miliardi e mezzo di barili di petrolio, sottolinea ancora l’Europa, che ha chiesto ai Paesi membri di ridurre la distribuzione dei sacchetti in plastica non biodegradabili nei supermercati, fino a vietarne la cessione gratuita ai consumatori nel 2018. L’Italia ha giocato d’anticipo con un programma sperimentale di progressiva riduzione, avviato nel 2011, per poi vietare quelli per l’ortofrutta dal 2018 (con l’introduzione di quelli biodegradabili a pagamento). Che siano iniziative a beneficio dell’ambiente è una delle poche certezze che abbiamo. Ma è falsa. O almeno non completamente vera.
In attesa di vedere i risultati della messa al bando dei prodotti in plastica usa e getta da parte dell’Unione europea, l’uso delle buste di plastica è regolato da direttive che lasciano ampio spazio di manovra ai singoli Paesi. Affermando che la prevenzione è la prima arma nella lotta contro i rifiuti, suggeriscono agli Stati membri l’attuazione di programmi di informazione e sensibilizzazione dei cittadini sul corretto impiego e smaltimento dei prodotti, compresi programmi educativi per i bambini, e la complessiva riduzione del numero di borse di plastica in materiale leggero in circolazione, con l’obiettivo di un utilizzo annuale massimo di 90 borse pro capite entro il 2019 e 40 entro il 2025 (o valori equivalenti in peso). Gli Stati sono liberi di raggiungere questo obiettivo con la strategia che preferiscono, con restrizioni alla commercializzazione o l’imposizione di una tassa.
Alla plastica leggera (di spessore inferiore a 50 micron) è riconosciuto il difetto di essere difficilmente riutilizzabile e meno riciclata di quella più spessa, mentre dalle indicazioni sono escluse le borse ultraleggere, ossia di spessore inferiore a 15 micron, su cui ciascun Paese può regolarsi a piacimento. Queste – usate per motivi di igiene e non per il trasporto (si tratta di quelle a contatto diretto coi cibi sfusi, ossia i sacchetti usati per la prezzatura di frutta e ortaggi) – dal 2018 in Italia devono essere per legge biodegradabili, compostabili e cedute a pagamento. È emerso però il rischio di far aumentare le vendite di frutta già confezionata in vaschette di plastica non biodegradabile, acquistata da parte di quei consumatori che, credendo di compiere un gesto di disobbedienza, non tengono conto che anche sul confezionato si paga un prezzo, già incluso nel costo del prodotto.
Uno studio pubblicato a febbraio 2018 dalla Danish Environmental Protection Agency analizza le migliori alternative – rispetto alle buste in polietilene a bassa densità (Ldpe) – a disposizione nei supermercati danesi, tra la sporta in polipropilene, quella in polietilene tereftalato riciclato (Pet), quella in biopolimeri derivati dall’amido, la busta di carta (sbiancata e non), quella in cotone (organico e convenzionale) e quella in materiale composito (juta, polipropilene, cotone). Analizzando i possibili “fine vita” per ciascuna tipologia di sacchetto – incenerimento, riciclo, riuso come sacchetto per la spazzatura prima dell’incenerimento – la ricerca evidenzia che è proprio la borsa in Ldpe con maniglia rigida quella con il minore impatto ambientale, considerando fattori come tossicità per l’uomo, radiazioni ionizzanti, spreco di risorse terrestri e acqua), seguita da carta e biomateriale. La ricerca danese conclude che, qualsiasi sia il materiale con cui è fatto, un sacchetto va riutilizzato quante più volte possibile per lo scopo per il quale è stato fabbricato (riuso primario), solo in seguito impiegato quando possibile come sacco della spazzatura (riuso secondario) e infine smaltito. Il riuso secondario come borsa della spazzatura sarebbe lo scenario più ecologico per tutte le tipologie di buste, ma è effettivamente praticabile solo per quelle con le stesse proprietà del sacco che sostituiscono, ossia quello in Ldpe.
Il risultato è stato un aumento delle vendite dei sacchetti per la spazzatura fino al 120% negli Stati americani dove i sacchetti di plastica sono stati banditi nei supermercati. Le persone che prima riutilizzavano la sporta della spesa per altri scopi – come la raccolta delle deiezioni del cane o per rivestire il cestino della spazzatura – ora devono acquistarne di nuovi per questi scopi. Il danno ambientale è doppio: da un lato, perché in media i sacchetti per la spazzatura sono più spessi (e quindi contengono più plastica) di quelli della spesa, e dall’altro perché dove è in vigore questo divieto si utilizzano quelli di carta, che non può essere riutilizzata come sacchetto della spazzatura. La carta è biodegradabile risolve molti dei problemi legati alla plastica, ma la sua maggiore diffusione non è necessariamente un bene per l’ambiente. Secondo alcuni studi la carta lo danneggerebbe: una ricerca della Environment Agency britannica sottolinea che il maggiore impatto di un sacchetto – rispetto a trasporto e smaltimento – è causato dallo sfruttamento delle risorse utilizzate per la sua produzione (nel caso della carta, alberi che vengono abbattuti e processati, con vasto impiego di acqua, sostanze chimiche, combustibile e macchinari). Le buste di carta richiederebbero fino a 70 volte più energia e 17 volte più acqua per essere prodotti rispetto a quelle di plastica e anche per riciclarle sarebbe necessaria più energia.
Per quanto riguarda le borse in cotone, la loro fabbricazione è tra le più dispendiose in termini di energia: la ricerca danese ha infatti sottolineato che le borse in cotone organico andrebbero riutilizzate per la precisione almeno 150 volte per azzerare l’impatto della loro produzione sul clima e quelle in cotone convenzionale almeno 50 volte. Le sporte in cotone diventano effettivamente ecologiche se non le si considera per nessun motivo usa e getta e a patto di averle sempre con sé per evitare di usarne altri tipi.
Nemmeno i materiali considerati ecologici, come le bioplastiche, lo sono davvero: Jacqueline McGlade dell’Agenzia Onu per l’Ambiente già qualche anno fa esprimeva perplessità sulle plastiche biodegradabili come mezzi per ridurre l’inquinamento marino. Questi materiali sono facilmente biodegradabili con temperature di almeno 50 gradi, ben lontane da quelle dell’acqua salata dei nostri mari e oceani. L’Unione europea da tempo è all’erta riguardo ai materiali “oxo-degradabili” o “oxo-biodegradabili”, definizione potenzialmente fuorviante dato che la plastica in questi casi è trattata con sostanze che ne permettono la dispersione in microparticelle fino alla degradazione nell’ambiente. In seguito a uno studio che ha concluso che non esiste evidenza documentata della loro completa degradazione né della totale innocuità degli additivi impiegati, questi materiali sono stati inclusi nel divieto sugli usa e getta. Inoltre, le plastiche etichettate come “compostabili” non sempre lo sono nel riciclo casalingo, causando errori inconsapevoli nello smaltimento da parte dei cittadini.
Attribuire l’etichetta di “biodegradabile” anche a materiali non al 100% amici dell’ambiente può tradursi in una minore attenzione da parte dei singoli per le loro azioni e responsabilità: le soluzioni tecnologiche non devono essere un’alternativa a uno stile di vita e di consumo più attento, avverte l’Onu. Il problema non sono tanto i materiali quanto i comportamenti e per questo va ripensato il modo per spingere i consumatori a cambiare abitudini. Dal 2005 gli studiosi sostengono che una tassa sulle sole buste di plastica provoca un aumento dell’uso di quelle di carta, mentre una tassa imposta sui sacchetti di qualsiasi materiale è un reale beneficio per l’ambiente, perché si inducono i cittadini a un atteggiamento più consapevole. Questo è il modo più semplice per far cambiare abitudini ai cittadini, come sottolinea Jonas Eliasson, esperto svedese del sistema dei trasporti, a proposito dei pedaggi imposti per diminuire il traffico nelle aree più congestionate delle città.
Una piccola tassa sui sacchetti – di qualsiasi materiale – da un lato ne incoraggerebbe il riutilizzo e dall’altro eviterebbe che chi ne ha bisogno per un riuso secondario acquisti quelli per la spazzatura. Le soluzioni per combattere davvero la plastica negli oceani, senza aumentare la quantità di altre tipologie di rifiuti, sono una raccolta più efficace, un migliore sistema di riciclo e un cambiamento nelle abitudini di tutti, anche, se necessario, tramite piccole tasse, che sono incentivi laddove i divieti sarebbero delle imposizioni.