L’11 marzo di nove anni fa il Giappone settentrionale fu colpito da un terremoto devastante, che aveva il suo epicentro sul fondo del mare – a 30 km di profondità – e che provocò il più grande tsunami nella storia del Paese. Tra le sue conseguenze ci fu il peggior disastro nucleare della nostra epoca dopo Chernobyl. Nonostante i reattori della centrale nucleare di Fukushima Dai-chi si fossero disattivati automaticamente, come da protocollo nei casi di emergenza, i sistemi di raffreddamento vennero danneggiati, portando la temperatura dei reattori 1, 2 e 3 a crescere in modo incontrollato, abbassando così il livello dell’acqua negli impianti al di sotto dei livelli di guardia.
Subito dopo l’incidente nel reattore 1 si fusero le barre di combustibile, provocando un’esplosione che fece crollare parte delle strutture esterne della centrale, rilasciando in un’ora più radiazioni che nell’arco di un intero anno. Il giorno dopo lo stesso incidente si ripeté nel reattore 3 e la notte del 15 marzo si verificò un’altra esplosione nel reattore 4, anche se al momento dello tsunami era spento perché in manutenzione. Fu evacuata un’area del raggio di oltre 30 km e il governo giapponese si trovò a fare i conti con un Paese sotto shock, danni economici immani e i non meno gravi strascichi dell’incidente sulla salute dei cittadini. A quasi dieci anni di distanza, il governo giapponese programma di riversare nell’oceano Pacifico le acque radioattive del sito, una decisione che potrebbe provocare danni gravissimi all’ecosistema marino e alle attività economiche che dipendono da esso.
A inizio anno era stato annunciato il piano per trasformare Fukushima in un hub per le energie rinnovabili, che dovrebbe essere completato nel 2040: una rete di 80 km collegherà la produzione di energia con l’area metropolitana di Tokyo, con un progetto che dovrebbe generare fino a 600 megawatt di elettricità, equivalenti a due terzi della produzione di una centrale nucleare media, ma questo ambizioso programma non può nascondere il pericolo di quello, più controverso, di riversare oltre un milione di tonnellate di acqua radioattiva negli ecosistemi oceanici della costa giapponese, dopo un procedimento di purificazione e diluizione che però non convince tutti; o, in alternativa, di vaporizzarla nell’atmosfera, o ancora di combinare le due opzioni. La proposta è stata avanzata dal comitato per la gestione delle acque radioattive della TEPCO (Tokyo Electric Power Company), a seguito delle pressioni da parte del governo giapponese, secondo cui lo spazio per il contenimento delle acque contaminate – quelle impiegate per il raffreddamento dell’impianto, a cui si aggiungono le infiltrazioni di pioggia e inondazioni – è sul punto di esaurirsi: a causa della sua posizione, molto bassa sul livello del mare e quindi soggetta ad allagamenti, la centrale Fukushima Dai-ichi è infatti soggetta a una continua contaminazione delle acque sotterranee che TEPCO non è riuscita a fermare. Ogni settimana si aggiungono tra le 2 e le 4mila tonnellate di acqua nei serbatoi di stoccaggio, per cui una soluzione va in ogni caso trovata. Come ritiene anche l’International Atomic Energy Agency, per la quale la capacità di stoccaggio sarà raggiunta a metà del 2022, il problema non può essere ignorato.
Secondo Greenpeace, però, quella proposta dal governo è la via meno costosa nell’immediato – che costerebbe meno di 3 miliardi e mezzo di yen – ma la più dannosa per l’ambiente sul lungo periodo, e non è che il risultato di una lunga serie di decisioni sbagliate, dell’impiego di tecnologie inadatte e di interventi con il risparmio come unico obiettivo, che non giustificano un ulteriore deliberato inquinamento ambientale. Secondo la divisione giapponese dell’organizzazione ambientalista l’opzione meno dannosa di gestione delle acque contaminate sarebbe lo stoccaggio di lungo periodo in robusti serbatoi da costruire al di fuori del perimetro dell’impianto, in combinazione con l’applicazione di moderne tecniche di rimozione dei radionuclidi; questa opzione è però giudicata inattuabile dagli organi governativi, per i quali lo sversamento nell’oceano resta l’unica possibilità, senza considerare gli enormi danni ambientali che provocherebbe.
A essere comprensibilmente preoccupati sono innanzitutto i cittadini. Le cooperative di pescatori della prefettura di Fukushima non nascondono la loro contrarietà al progetto, su cui anche i consumatori sono perplessi: un terzo ha indicato in un sondaggio che scaricare l’acqua contaminata in mare li farebbe pensare due volte prima di acquistare pesce dalla regione, cosa che avrebbe ricadute economiche non indifferenti. Ma la questione non è solo locale: a essere direttamente interessati sono anche gli altri Paesi della regione, che minacciano di bandire le importazioni di frutti di mare dal Giappone. La contrarietà della Corea del Sud al progetto lascia presagire un’ulteriore difficoltà nei rapporti diplomatici, già non facili per via delle dispute commerciali che vanno avanti da decenni; ma anche gli Stati Uniti seguono la vicenda, che potrebbe riguardare la loro costa ovest.
Le preoccupazioni sono motivate: la TEPCO, dopo aver sostenuto che la tecnologia impiegata per trattare le acque prima di riversarle nel Pacifico ne ridurrebbe la radioattività entro i livelli permessi, nel 2018 avrebbe però ammesso i suoi stessi fallimenti, in particolare per quanto riguarda l’abbattimento dei livelli di stronzio-90, una sostanza molto pericolosa che può provocare cancro alle ossa e leucemie. Secondo Shaun Burnie, specialista nucleare di Greenpeace Germania ed esperto di Fukushima, il governo giapponese è riuscito efficacemente a focalizzare l’attenzione dei media sul trizio, meno dannoso di altri radionuclidi, spostandola da altri elementi radioattivi che invece permangono nell’acqua anche dopo i processi dell’Advanced Liquid Processing System (ALPS) – il sistema impiegato per depurare l’acqua – come emerge da dei documenti interni trapelati dalla TEPCO, per cui gli sforzi per ridurre gli elementi radioattivi a livelli non rilevabili non sono riusciti completamente. Oltre allo stronzio, rimarrebbero tracce di iodio, rutenio, rodio, antimonio, tellurio, cobalto oltre la soglia di guardia: uno studio, in particolare, ha confermato che in 45 degli 84 campioni raccolti nel 2017 i livelli di iodio-129 – che può provocare cancro alla tiroide – e rutenio-106 – tossico in elevate quantità tossico e cancerogeno se ingerito – superavano i livelli accettabili. Alcuni di questi elementi, come l’isotopo radioattivo carbonio-14 – che ha un’emivita (cioè il tempo necessario a raggiungere il decadimento di metà della massa iniziale dell’elemento radioattivo) di 5.370 anni – possono permanere nell’ambiente per migliaia di anni, incorporandosi nella materia organica danneggiandola a livello genetico. Burnie sottolinea quindi che la diluizione delle sostanze pericolose nelle acque non risolve il problema della contaminazione.
Oltre all’ambiente, la cattiva gestione della crisi delle acque di Fukushima danneggia anche la considerazione di un settore, quello dell’energia nucleare, che dopo l’incidente ha subito un nuovo colpo: dopo il disastro di Fukushima, infatti, 54 reattori giapponesi sono stati chiusi e oggi ne restano in funzione solo nove, sottoposti ai severissimi standard di sicurezza introdotti dopo la catastrofe dalla Nuclear Regulation Authority giapponese, istituita nel 2012. In questi anni, anche in diversi Paesi europei – in accordo con un’opinione pubblica preoccupata ma in contrapposizione con una comunità scientifica sempre più favorevole – sono stati portati avanti diversi smantellamenti di centrali nucleari. Il nucleare in realtà rappresenta una delle fonti di energia più pulite ed efficienti, oltre che quella con minore impatto in termini di emissioni e di conseguenze sulla salute, a patto però che gli impianti siano gestiti al meglio e nella massima sicurezza; questa deve essere garantita da standard rigorosi, controlli costanti e manutenzione regolare, i cui costi sono notevoli. Il prezzo di una manutenzione non ottimale, però, è molto più elevato, come hanno dimostrato Chernobyl e Fukushima. Le fonti rinnovabili, su cui si investe di più, in questi anni si sono dimostrate insufficienti, oltre a porre una serie di problemi: dal consumo di suolo causato dai campi di pannelli solari (problematico per la conservazione degli habitat), all’imprevedibilità dell’irraggiamento solare, fino ai limiti di geotermico e idroelettrico che, dipendendo da conformazione e caratteristiche della regione, non sono esportabili a tutti i territori.
Nonostante ciò, gli investimenti per la costruzione di nuovi impianti per la produzione di energia nucleare sono in calo in tutto il mondo e se, come teme Greenpeace, il piano del governo giapponese non venisse fermato, i problemi ecologici che ne deriveranno non faranno che peggiorare la posizione dell’opinione pubblica a riguardo. I danni che questo piano sconsiderato causerà inficeranno ulteriormente la già minata reputazione dell’energia nucleare. Il governo giapponese in questo modo – da un lato con il danno ambientale e dall’altro con il ritorno d’immagine negativo per l’energia nucleare – contribuirà ad allontanare la nascita di una posizione benevola e condivisa nei confronti del nucleare, oltre a provocare alla popolazione giapponese e all’ambiente danni che remano contro le potenzialità ecologiche di questa forma di produzione energetica. Le necessarie premesse per sfruttare il nucleare come fonte pulita sono, infatti, un’accorta manutenzione degli impianti e un prudente stoccaggio delle scorie: l’esatto opposto di quello che potrebbe presto verificarsi a Fukushima.