Siamo abituati a pensare alle migrazioni come fenomeni sociali, piuttosto che naturali. Negli ultimi anni la politica ha promosso una distinzione tra i migranti economici, che si spostano cercano di raggiungere l’Europa (o anche all’interno dell’Europa stessa) – spinti dal desiderio di una vita più soddisfacente e agiata – e quelli che invece si vedono costretti a fuggire a causa di pericoli concreti e situazioni di guerra, una minima percentuale. Questa classificazione ha fatto sì che i migranti economici perdessero il loro diritto di essere accolti e regolarizzati quando se ne presentava il bisogno in quanto nessun pericolo “concreto” giustificava la fuga dal Paese natale. Come se la povertà non fosse già abbastanza. A queste due categorie, poi, se n’è aggiunta una terza, che sta acquistando una sempre maggiore rilevanza e continuerà a farlo nei prossimi anni, quella dei migranti climatici.
Gli esseri umani, così come molte specie animali, sono sempre emigrati alla ricerca di condizioni ambientali più favorevoli alla loro sopravvivenza. Un esempio è quanto successe durante la Piccola Era Glaciale, che l’Europa attraversò tra il 1560 e il 1660 d.C.: la popolazione del vecchio continente ha raggiunto infatti il suo minimo nel 1650 d.C. a causa delle condizioni di vita poco favorevoli. Andando ancora più indietro nel tempo, tra il 536 e il 660 d.C., a causa di un abbassamento della temperatura media che colpì gran parte dell’emisfero boreale, vi furono movimenti che spinsero le popolazioni fuori dalla steppa asiatica e dalla penisola arabica, provocando la diffusione delle lingue di origine slava.
Le migrazioni climatiche non sono solo un fenomeno del passato o del futuro, ma si stanno già verificando. Il grande flusso migratorio dalla Siria, a cui abbiamo assistito negli ultimi tempi, infatti, coincide anche con la peggiore siccità degli ultimi 900 anni, che ha danneggiato la fertilità delle campagne, spingendo i siriani verso le città dove poi sono esplose tensioni, che hanno provocato conflitti che a loro volta hanno incoraggiato ancora di più la fuga della popolazione verso l’Europa.
Per prevedere quale sarà in futuro la tendenza migratoria relativa ai cambiamenti climatici in corso, scienziati e antropologi di tutto il mondo hanno collaborato a uno studio intitolato “Future of the human climate niche”, relativo alla nicchia climatica umana e ai suoi spostamenti nei prossimi anni. La nicchia climatica sta a indicare le condizioni di temperatura necessarie alla sopravvivenza della specie. I ricercatori hanno dimostrato che per millenni la popolazione umana ha vissuto in un habitat naturale caratterizzato da una temperatura media che oscillava tra gli 11 e i 15 °C. Lo studio evidenzia che la posizione geografica di questo intervallo si sposterà di più nei prossimi cinquant’anni di quanto sia successo negli ultimi 8 millenni.
Questo spostamento tanto consistente porterebbe un terzo della popolazione mondiale a sperimentare una temperatura media che supera i 29°C. Per avere un’idea di cosa significhi basta pensare che a oggi solo nello 0.8% della superficie terrestre, che comprende praticamente il deserto del Sahara e poche altre aree, fa così caldo. Lo studio prevede che entro il 2050 da 1 a 3 miliardi di persone si ritroveranno a vivere in un deserto analogo.
Il surriscaldamento globale, che nei prossimi anni porterà la temperatura di tutto il mondo ad alzarsi di ben 2 gradi centigradi, colpirà per la maggior parte il Medio Oriente, l’Africa e l’Asia, regioni già di per sé più calde. E questo significa che mentre le regioni più ricche diventeranno ancora più appetibili, perché più fertili e con più acqua, quelle più povere saranno progressivamente sempre meno vivibili.
Lo studio specifica che, nonostante le sue previsioni, molto dipende comunque dalle risposte che verranno date sia all’emergenza climatica sia a varie tematiche sociali nei prossimi anni. Infatti, bisogna sempre considerare che sia i Paesi di emigrazione che quelli di immigrazione tendono a scoraggiare, al limite impedendoli anche con la forza, i flussi migratori. Nonostante però tutte le barriere economiche, sociali, culturali e psicologiche, se non si elaborano velocemente delle risposte efficaci al collasso climatico, per 3 miliardi di persone la migrazione diventerà sempre di più l’unica possibilità di sopravvivenza. E queste pressioni porteranno con molte probabilità a dei conflitti.
Possiamo individuare diversi fattori che stabiliscono un collegamento molto forte tra la temperatura media e la popolazione umana, provando come all’innalzarsi della prima la seconda sia obbligata a mutare la sua distribuzione globale. Attualmente, circa il 50% della popolazione umana dipende dalla piccola agricoltura. Le piccole coltivazioni si basano soprattutto sul lavoro fisico dei contadini, che sarà reso molto più difficile in condizioni di temperatura estreme. A questa prima correlazione se ne aggiunge un’altra di carattere socio-psicologico. Alcuni studi hanno infatti già evidenziato come il caldo abbia effetti sull’umore e sul comportamento delle persone, indebolendo quindi non solo le loro attività fisiche ma anche quelle mentali. Il terzo, e forse più forte, collegamento tra uomini e temperature viene da uno studio del 2015 pubblicato su Nature, che ha evidenziato come il picco della produttività economica corrisponda a una temperatura media di 13°C, mentre diminuisce sensibilmente al surriscaldarsi dell’ambiente.
Uno studio francese ha poi stabilito che in realtà l’innalzamento delle temperature intorno ai 2°C, che l’accordo di Parigi dovrebbe mantenere sotto gli 1,5°C, potrebbe essere una previsione piuttosto ottimistica. Infatti alcuni scienziati hanno previsto un aumento di 7°C entro il 2070, che in questo caso esporrebbe il 19% della Terra a una temperatura media sopra i 29°C. Tutto questo avrà sicuramente un impatto decisivo sul fenomeno migratorio e sull’esplosione di conflitti tra le potenze mondiali per accaparrarsi le risorse più preziose, come acqua, terra coltivabile ed energia.
Un altro modo per inquadrare un’ipotetica redistribuzione della popolazione mondiale è guardare al rapporto tra lo spostamento geografico della nicchia climatica ottimale per gli uomini e la crescita demografica prevista nei prossimi decenni. L’Onu ha calcolato che entro il 2050 sul pianeta ci saranno 9.7 miliardi di persone. La crescita demografica maggiore riguarderà Cina e India, seguiti da Paesi come il Pakistan, l’Indonesia, il Brasile, la Nigeria e il Bangladesh, ossia quegli stessi che sperimenteranno le condizioni climatiche più dure. Questo significa che la popolazione crescerà proprio nelle aree che diventano meno abitabili a causa dell’emergenza climatica. Ci sarà quindi una sproporzione incredibile tra i pochi che continueranno a vivere nella piena disponibilità di risorse, e i molti condannati alla povertà, alla fame, alle guerre e alla clandestinità.
Non è ancora troppo tardi per mitigare gli effetti del collasso climatico e aumentare la possibilità di adattarsi all’innalzamento delle temperature. Le migrazioni climatiche sono l’indizio concreto di un futuro fatto di precarietà politica, tensioni culturali e conflitti armati per le ultime risorse a disposizione. A oggi, solo il 3% della popolazione, ossia appena 250 milioni di persone, vive come migrante, al di fuori del suo Paese di origine. Il dato si è alzato rispetto agli appena 80 milioni del 1960, ma entro il 2050 la prospettiva più ottimistica prevede 1 miliardo di migranti. Si tratta di numeri che inevitabilmente finiranno per avere impatti enormi sulla situazione geopolitica, in particolare in un periodo storico in cui il sovranismo si fa sempre più forte, mentre aumenta la debolezza delle carte e degli organi a tutela dei diritti umani.