Instabilità e dinamismo sono le principali caratteristiche del mondo globalizzato. Anche se di solito tendiamo a parlare di globalizzazione in una prospettiva economica, ormai è possibile osservarne gli effetti anche nelle pratiche artistiche ed estetiche. Le riflessioni su questo nuovo ordine globale condotte da Michael Sandel, Luciano Gallino e la coppia Toni Negri e Michael Hardt esprimono preoccupazione per l’omologazione culturale creata da questo paradigma occidentale, mentre molti si chiedono se questi effetti avranno un impatto di lungo periodo. Inoltre il mondo globalizzato sta diventando sia il luogo delle differenze, dell’individualismo e dell’altro da sé che uno spazio di accesso immediato, che unifica il sistema simbolico, dell’immaginario e della cultura.
Il conflitto tra locale e globale significa per l’arte contemporanea l’abbandono dell’atteggiamento paternalistico verso la diversità culturale – come accadeva all’inizio degli anni Novanta con l’apertura del mercato dell’arte a quella postcoloniale – per diventare una più vaga consapevolezza sul fatto che l’arte non nasce da un giudizio granitico, ma dalla comprensione profonda di come l’interazione tra i soggetti influisca sulla forma finale di un prodotto. Per tutto il Novecento, e a seguito della rivoluzione degli anni Settanta, l’interdisciplinarietà è stata la parola d’ordine degli artisti. Già Umberto Eco nel 1968 vedeva l’incursione dell’arte in territori che non le appartenevano. In questa interazione con l’ambiente, l’artista era colui che osservava le anomalie e riusciva a inserirle e reinterpretarle nel suo processo creativo. L’interattività sempre più pervasiva degli ultimi anni ha cancellato questa idea di artista, puntando su una partecipazione dalle caratteristiche tribali di ricerca di omologazione e adattamento.
In epoca digitale, l’aura di cui parlava Benjamin non appartiene più all’oggetto, ma all’evento e gli artisti riconoscono che la forza di un’opera non sta più nel lavoro in sé quanto nell’insieme di interazioni con il pubblico. Di conseguenza, l’artista tende a definirsi assimilando e adeguandosi alla percezione del pubblico, a sua volta influenzato dalla comunicazione dei brand e da desideri condivisi e omologanti. Il gusto comune tende a conformarsi alle richieste di persone che comprano gli stessi abiti, che hanno le stesse referenze musicali, visive e cinematografiche e che acquistano arte solo se prima è stata metabolizzata attraverso un bagaglio culturale che raramente va oltre quello acquisito durante la scuola dell’obbligo.
L’artista continua a rivestire nell’immaginario comune il ruolo di colui che interpreta la realtà e la sua esperienza per poi trasformarla con il suo lavoro, ma con la rapida globalizzazione le cose sono diventate più complesse. La diffusione dei blog, delle piattaforme di condivisione (come Instagram, Behance, Saatchi ART, Deviantart o Artnet) e dei social network ha abbattuto ogni distinzione di valore tra la fruizione diretta e quella mediata dell’arte. Attraverso questo archivio indisciplinato, polisemico e ricco che è il web, l’attività artistica diventa sempre più una questione di fattori che vanno oltre la sensibilità o la percezione dell’artista. Processi economici, contestuali e politici, o idee su come o cosa un’opera d’arte dovrebbe essere, si sommano alla mancanza di un’opinione diffusa sull’arte contemporanea che eviti un nostro approccio superficiale e facilmente influenzabile alla materia.
Dal mio punto di vista, l’artista è colui che dimostra una capacità di intuire e sintetizzare gli aspetti peculiari di un mondo sempre più difficile da capire, sostenuto da un profondo impegno etico. Al contrario, il mercato sostiene che l’artista sia colui che supera il passaggio obbligato dello statement, ovvero un testo che presenta in poche righe formazione e i suoi temi di ricerca per intrigare il lettore. Lo statement finisce per essere un supplizio per chi non vuole dare una definizione alla propria indagine o non può limitarla a poche righe. Questo strumento si affianca a una serie di corsi, workshop e suggerimenti utili per costruire una carriera di successo dipendente per un alto grado di visibilità da tag, hashtag e gestione dei reblogging.
Instagram e Behance sono in questo momento sia strumenti per la scoperta di artisti, sia vetrina per gallerie d’arte e case editrici che assegnano valore al numero dei follower: Oggi i social sono portfolio online che testimoniano il processo creativo in tempo reale e alterano il modo di guadagnarsi influenza. In questo modo cambiano la comunicazione, ma anche le regole di vendita: l’artista crea e si concentra sulla promozione, accettando modalità, strumenti e sistemi valoriali tipici del sistema di vendita dei prodotti industriali di largo consumo
Negli ultimi vent’anni la cultura è diventato un prodotto sempre più sensibile alle contaminazioni di altri campi. La comune tendenza tra gli studiosi, primo tra tutti il sociologo Zygmunt Bauman, è quella di focalizzarsi sui risvolti economici ed etici generati dalla diffusione sempre più massiccia e gratuita di immagini online e dall’impoverimento dell’identità soggettiva. Altri cercano di descrivere il campo culturale globalizzato come uno spazio instabile, dove il precario, il transitorio e l’ibrido sono i nuovi punti fermi. Il consumo di arte sui social ci dimostra che cerchiamo le immagini sui social alla ricerca di intrattenimento e svago, indicando anche come i prodotti di grandi aziende influenzano il modo in cui vediamo il lavoro dei creativi. Stiamo perdendo l’idea di arte visiva come una forma di lavoro basata sull’apporto umano, perché non riusciamo a definire l’impatto che l’ideologia edonistica del consumo sta esercitando nel campo creativo. Il risultato è una repressione mascherata da uguaglianza che – come suggerisce il volume L’arte della sovversione di Marco Baravalle (2009) – punta verso una riproducibilità dell’artista nell’epoca della “singolarità qualunque”, mettendo a tacere l’autenticità la concretezza delle idee plasmate come azioni.
Non è più possibile parlare di virtuale e reale come dimensioni distinte e separate. Internet ha generato una trasformazione antropologica, dal forte impatto sull’economia e sulla nostra vita sociale, politica e culturale. Ora le esperienze vissute online sono reali, così come ciò che viene creato, vissuto e scambiato. Andrea Balzola e Paolo Rosa, i due autori del manifesto dell’arte post tecnologica nel volume L’arte fuori di sé, riflettevano già nel 2011 sulle potenzialità della creazione di reti gratuite e partecipate nel web. Questa fruizione mediata della realtà ha però un impatto tale nella nostra esistenza da condizionare il nostro essere nel mondo, come dimostra la pubblicazione continua di manuali di strategie di social media marketing e di crescita personale.
L’utente non assomiglia al pubblico del secolo scorso perché non ricava la propria esperienza artistica da riviste, mostre, libri e conversazioni. L’utente non conosce e non è attratto dai progetti artistici – specie se complessi – ma il suo interesse è in grado di far diventare un artista e la sua produzione virali. Questo pubblico condivide immagini e video senza alcuna preoccupazione per paternità o contesto. Molti utenti di arte “per caso” non sanno valutare un artista se non è riconosciuto dall’influencer di turno o è l’oggetto di un pesante investimento di marketing da parte di un’azienda.
Viviamo la condizione di soggetti always on, connessi al reale in maniera virtuale. Joseph Firth, uno degli studiosi sulle alterazioni delle aree cognitive del cervello ad opera degli strumenti digitali, ha sostenuto in un articolo pubblicato sulla rivista World Psychiatry che non solo abbiamo alterato il modo in cui il nostro cervello memorizza, ma anche quello in cui valuta i contenuti. Davanti a contenuti visivi siamo spesso incapaci di definire differenze tra oggetto artistico e strumento interattivo. A questo si affianca la priorità di adattarsi alle ricerche artistiche di “chi ce l’ha fatta”, mettendo in mostra sui social l’ispirazione e la propria vita quotidiana per mantenere alto l’interesse dei follower sul proprio brand artistico e personale.
L’artista moderno è ormai un prigioniero dentro una scatola dalle pareti di vetro, per proteggerlo da qualunque momento di debolezza o dubbio creativo che però non lo sottragga mai all’attenzione costante del suo pubblico. Questo lo costringe a fare della sua stessa persona una sorta di area espositiva sempre aperta dove mettere in mostra i propri successi e aver l’ultimo argomento di tendenza a portata di mano. L’attività umana che per secoli ci ha liberato dalle catene del mondo reale è diventata in pochi anni schiava del codice binario che regola un algoritmo.