Da qualunque prospettiva si decida di approcciare le vicende della vita, il problema ultimo rimane quello della separazione tra ciò che è reale e ciò che è immaginario, fisico e mentale, conscio e inconscio, salute e malattia. A questo proposito, c’è una diade in particolare la cui separazione sembra più netta e immediata di tante altre, perché percepita come ovvia e incontestabile, su cui non sembra mai incombere l’esigenza di una risoluzione, ed è quella tra corpo umano e ambiente. A causa di un radicato antropocentrismo, si è sempre creduto che l’assimilazione spaziale, ovvero la capacità di rendersi un tutt’uno con lo spazio, fosse qualcosa di esclusivamente appartenente al mondo animale e naturale. Eppure nel 1935 il naturalista Roger Caillois, molto vicino ai surrealisti, osservando il mimetismo morfologico di animali e insetti – quali farfalle e mantidi religiose – si rese conto che esistevano nell’uomo potenzialità psicologiche stranamente corrispondenti a questo peculiare camuffamento mimetico, il cui fine era ben lontano dall’esclusiva volontà di rendersi invisibili per le prede, o viceversa confondere i predatori. Caillois attribuiva questa caratteristica a una percezione dello spazio complessa, alla volontà dell’insetto osservato di auto-cancellarsi e diventare così un punto tra i tanti altri nel suo ambiente, fenomeno che ricollegava a una particolare forma di esperienza psichica nevrotica – la psicastenia – in cui la capacità di connettere la propria coscienza a un punto particolare nello spazio veniva minata.
Per le persone affette da queste nevrosi, scrive Caillois in Mimicry and Legendary Psychasthenia, lo spazio sembra essere una forza divoratrice: le insegue, le circonda, le fagocita finendo per sostituirle e il corpo si separa dal pensiero rompendo il confine che li divide rendendosi spazio a tutti gli effetti, potendo guardare se stesse da qualsiasi punto. Non si può fare a meno quindi di riflettere su quanto questa divisione possa essere per alcuni non solo impensabile come concetto, ma proprio come esperienza.
Nel descrivere alcuni episodi psicologici causati dal suo disturbo dissociativo e intensa ansia, l’artista giapponese Yayoi Kusama ha spesso parlato di “camuffamento psichico”, una sensazione paragonabile alla rottura dei suoi confini corporei in una totale dissoluzione e appiattimento nell’ambiente circostante, in cui sentiva il suo corpo perdersi all’interno di una superficie infinita generata dai brulicanti motivi dei suoi primi quadri. “Soffrivo spesso di episodi di grave nevrosi. Dipingevo le tele e poi continuavo a dipingere sul tavolo, sul pavimento e infine sul mio stesso corpo. Mentre ripetevo questo processo più e più volte, le reti hanno cominciato a espandersi all’infinito. Mi sono dimenticata di me stessa mentre mi avvolgevano, aggrappandosi alle mie braccia, alle mie gambe e ai miei vestiti riempiendo l’intera stanza”.
Sebbene Kusama non abbia mai trattato esplicitamente il tema della malattia, il suo lavoro è sempre riuscito a creare uno spazio psicologicamente carico in cui dimensioni della vita descritte come opposte e inconciliabili potessero sfumare l’una nell’altra, esattamente come avveniva nella sua testa di donna affetta da disturbi dissociativi e ossessivi. Siamo spesso stati abituati a pensare che le malattie mentali funzionino come uno stato di negazione che, una volta superato, fa sorgere il mondo reale e riconquistare un certo controllo di se stessi, ma non si tratta mai davvero di una linea così facilmente delineabile e certamente non lo è stato per Yayoi Kusama. Non stupisce quindi leggere il suo desiderio di auto-obliterazione non come finalizzato al nascondimento, ma alla liberazione personale. Nelle traduzioni fantasiose, ironiche e ripetitive delle proprie paure Kusama ha cercato per tutta la vita di riconquistare un certo senso di realtà, di contatto e fusione con quella sfera culturale e psicologica di cui tutti facciamo parte ma che le è sempre stata, a causa della sua condizione, preclusa.
Nata a Matsumoto nel 1929, in una zona rurale del Giappone, Kusama è cresciuta in una famiglia benestante molto nota per la sua produzione di semi e piante ma profondamente divisa e infelice. La madre era una donna pragmatica e autoritaria, accecata dalla gelosia a tal punto da costringere la figlia a spiare il padre durante i suoi incontri con le geishe per riferirle ogni dettaglio. In quell’atmosfera familiare morbosa e asfittica l’unico conforto era il disegno, a cui si dedicava con totale trasporto raffigurando i fiori che vedeva nei campi e che le “parlavano”, racconta oggi descrivendo la prima di una lunga serie di allucinazioni inquietanti che hanno perseguitato la sua infanzia. I fiori sono stati la prima cura per la sua solitudine e i suoi attacchi d’ansia; e il disegno il primo strumento per esorcizzare quella paura paralizzante che la attanagliava quando questi, nelle sue allucinazioni, la inghiottivano come avrebbero fatto con un insetto. Fu proprio a Georgia O’Keeffe, infatti, molto nota per le sue rappresentazioni floreali, che si rivolse per avere consigli su come farsi strada nel mondo dell’arte newyorkese e fuggire definitivamente dalla madre che continuava a opporsi alla sua volontà di diventare un’artista, come fosse qualcosa di disonorevole.
Dopo essersi trasferita negli Stati Uniti nel 1957, prima a Seattle poi a New York diversi mesi dopo, il lavoro di Kusama subì un profondo cambiamento di scala e composizione diventando estremamente radicale. Ammirata da Andy Warhol, Donald Judd e Claes Oldenburg, Kusama è stata una pioniera della Pop art, del Minimalismo così come del Postmodernismo, trasmutando costantemente il proprio linguaggio artistico tra pittura, scultura, performance e installazioni immersive eludendo qualsiasi classificazione netta, sebbene sia stata associata a numerosi sviluppi dell’arte internazionale del dopoguerra e contemporanei. Lasciando gradualmente il mondo dell’arte per abbracciare la protesta di strada e partecipare attivamente alla rivoluzione culturale e sessuale che interessò gli Stati Uniti negli anni Sessanta, Kusama decise di rientrare in Giappone nel 1973 per poi decidere di trasferirsi stabilmente in un ospedale psichiatrico, in cui risiede ancora oggi. Per molti decenni, almeno fino agli anni Novanta, questo ha significato essere trascurata dal punto di vista commerciale ed estromessa da una storia dell’arte che aveva contribuito a costruire, pagando a caro prezzo la propria estraneità in molti contesti in quanto donna, artista asiatica nel mondo dell’arte occidentale e in quanto affetta da disturbi mentali.
Queste considerazioni ampliano notevolmente l’orizzonte entro cui si è andata definendo la sua identità e la sua particolare condizione. C’è sempre stato infatti qualcosa di decisamente contemporaneo nella collocazione dei suoi traumi personali all’interno delle sue opere e nella sublimazione estetica che è riuscita a ricavarne. Ad esempio, la serie Infinity Nets – composta da quadri ipnotici e ripetitivi di reticoli astratti, pulsanti di un’energia frenetica e ossessiva – non era semplicemente una risposta alternativa alle opere degli esponenti dell’Espressionismo astratto che monopolizzavano all’epoca la scena artistica statunitense, ma una giovane testimonianza di quella spazialità seducente e disorientante che avrebbe definito la sua produzione per i decenni successivi e con cui avrebbe trasformato la propria frattura psichica in energia creativa capace di estendersi all’infinito e travolgere i suoi sensi insieme a quelli dello spettatore.
In quest’ottica, Infinity Mirror Room: Phalli’s Field, del 1965, e tutte le successive evoluzioni quali Kusama’s Peep Show – Endless Love Show, The Obliteration Room e Infinity Mirrored Room, rappresentano l’apoteosi della sua sperimentazione, il cuore delle sue idiosincrasie e delle sue ambizioni come artista. Questa stanza, le cui quattro pareti ricoperte di specchi riflettono un campo fallico, composto da protuberanze in tessuto ricoperte da pois rossi, è il tentativo di Kusama di convertire il suo mondo psicologico privato in un ambiente condiviso, il suo “paese delle meraviglie infinito”, ma è anche uno spazio profondamente ambiguo. Non è un ambiente destabilizzante e segnato da un forte senso di spersonalizzazione più di quanto non sia un luogo di liberazione, surreale e volutamente giocoso. Le fotografie che la ritraggono sdraiata in questo campo di falli, quasi fossero pistilli pronti a sommergerla, o ricoperta di puntini in un lampante sforzo di mimetismo, raccontano di un’attrazione verso uno spazio cosmico che è al contempo conferma e cancellazione della propria esistenza: all’intento terapeutico dell’atto artistico si accompagna una sorta di istinto di rinuncia che non conosce né la coscienza né il sentimento, solo un’inerzia dello slancio vitale per effetto della quale la vita sembra perdere terreno, offuscando nel suo ritiro la frontiera tra corpo e ambiente (reale e irreale).
Anche se la sua sofferenza interiore si è sempre manifestata per lo spettatore attraverso disturbi visivo-spaziali temporanei, la sua opera è in grado di descrivere perfettamente un nuovo modo di “essere insieme”, fisicamente e metaforicamente, un’unione che come una lenta contaminazione passa dalla sua mente alla nostra per superare le esperienze individuali, compresi gli stati psicologici, e affrontare ciò che significa incontrare il mondo in tutte le sue pluralità e molteplici modi di essere. È così che Kusama è riuscita a raggiungere una rilevanza artistica sia storica che contemporanea, incarnando quell’eterna lotta per conciliare le realtà duali delle nostre vite e mantenersi integri di fronte a una contemporaneità che per molte ragioni ci fa sentire sempre più fragili e disuniti. Questa integrità Yayoi Kusama l’ha raggiunta con i mezzi straordinari e fantastici dell’arte, perché nell’impossibilità di quella “fuga” da se stessa e dai suoi disturbi è grazie a essi che è riuscita a distaccarsi dal suo corpo e vedere la sua “anima restaurarsi, restituita all’infinito, al tempo eterno e allo spazio assoluto” che per lei non è mai stato un’illusione, ma la realtà stessa: il luogo della sua tanto anelata libertà.