È da qualche anno ormai che si assiste nel mondo a un rinvigorimento importante degli ideali di estrema destra, che ricordano inevitabilmente quelli nati un secolo fa in Europa. Quello che per certi versi stupisce è che si manifestino anche in nazioni la cui democrazia si pensava potesse avere ormai da tempo i giusti anticorpi. Ci si arriva così a chiedere se si possa correre il rischio di un ritorno dei totalitarismi.
Lo scrittore americano Todd Strasser, con il romanzo L’onda pubblicato nel 1981, ha raccontato di un esperimento sociale attuato dal professore di storia Ron Jones nel 1967, in cui per una settimana gli alunni sono stati sottoposti a una rigida disciplina e un intransigente rispetto per le regole, per dimostrare loro come le masse siano in realtà facilmente manipolabili e come nascono le strutture sociali autoritarie. Il sentirsi parte di una comunità (l’esperimento fu chiamato La Terza Onda, con chiaro riferimento al Terzo Reich) entusiasmò tuttavia molti studenti, tanto che il professore lo dovette interrompere proprio a causa delle dinamiche violente che aveva scatenato.
Da questo libro, nel 2008, in Germania è stato tratto un film bellissimo dal titolo Die Welle (L’onda), con regia di Dennis Gansel. Il diverso contesto geografico e la trasposizione filmica in un Paese come la Germania, che vive ancora oggi la vergogna dell’orrore nazista, ha reso il film crudo e violento agli occhi del pubblico, soprattutto a causa dell’immagine che nonostante tutto la Germania fatica ancora a scrollarsi di dosso. L’esperimento, come del resto il film, ha evidenziato non solo la facilità con cui un gruppo di persone sia facilmente manipolabile da una figura carismatica, e quindi dall’idea di un capo forte che le comanda, ma anche delle corrispondenze consistenti nelle dinamiche tra la nascita dei totalitarismi del secolo scorso e ciò a cui assistiamo oggi in gran parte del mondo occidentale.
Le analogie degli avvenimenti storici del decennio 1920-1930 in Germania, seppur con diverse metodologie e protagonisti, sono evidenti oggi in gran parte del continente europeo, e dovrebbero preoccuparci. Ma, soprattutto, come all’epoca della Repubblica di Weimar, sottovalutate da gran parte dell’intelligencija di sinistra, la cui spaccatura all’interno rifletteva soltanto quella ben più grave dei partiti, lasciando la strada spianata a una destra violenta e, col tempo, sempre più organizzata. Come accade da qualche decennio, anche gli intellettuali di sinistra di allora erano coscienti che il conflitto tra socialdemocrazia e comunismo comprometteva la fermezza dello schieramento contrapposto al conservatorismo e alla “reazione”, e non si stancavano di lanciare appelli insistenti, in proclami e manifesti per l’unità delle sinistre.
Tuttavia la divisione era profonda: i socialdemocratici non perdonarono mai ai comunisti il tentativo del 1919 di rovesciare con una rivolta armata il governo guidato dalla SPD – la cosiddetta Weimarer Koalition, nome dato alla coalizione che governò la repubblica di Weimar dal 1919 al 1920, formata dal Partito Socialdemocratico di Germania, dal Partito di Centro Tedesco e dal Partito Democratico Tedesco. D’altra parte, i comunisti vedevano nei socialdemocratici gli affossatori del socialismo marxista, più pericolosi degli stessi nazisti. E soprattutto il partito comunista era un movimento dinamico, i suoi membri avevano la certezza di essere sulla cresta dell’onda del futuro, in netta antitesi con i socialdemocratici immersi in una sorta di torpore permanente. L’abisso era diventato incolmabile e alla fine anche gli intellettuali di sinistra contribuirono ad aumentare la frammentazione aderendo a una molteplice varietà di piccoli gruppi si che collocavano tra i due partiti maggiori, perdendo la propria voce. In questa desolazione politica, la critica verso le istituzioni diventò la pretesa di affermare contro la democrazia di importazione esterna la validità di qualcosa di integralmente tedesco, di completamente nuovo e giusto in assoluto per il popolo tedesco e per esso soltanto (non lontano dal recente America First di Trump in cui si identificano anche i sovranisti europei). Soprattutto la struggente rinascita nazionalistica trovò la sua più esasperata espressione nel razzismo feroce e intransigente di tutti i profeti della rivoluzione tedesca.
Questa raffigurazione politica e sociale, tra il 1996 e il 2018, ha preso la forma di una graphic novel grazie a un eccellente illustratore statunitense, Jason Lutes. Il lavoro che ci ha lasciato, La trilogia Berlin, è senza dubbio una delle opere più importanti degli ultimi anni. Nessuno meglio di lui ha saputo infatti raccontare visivamente ciò che è stato, riuscendolo a trasportare emotivamente al contemporaneo. Se dal punto di vista visivo la resa è sontuosa (Lutes ha impiegato due anni di ricerche accurate per illustrare la città nei minimi dettagli), è nella caratterizzazione profonda dei personaggi – attraverso decine di storie di popolo tra loro collegate, che ricordano il grande Will Eisner – che Lutes riesce a dar vita a una città già all’epoca tanto eccessiva e anticonformista, peculiarità queste che ne hanno contraddistinto la storia per tutto il Novecento fino ad oggi.
Si può affermare che l’era di Weimar dette origine a una cultura popolare sui generis, che lasciò la propria impronta sull’intero periodo. Lutes riesce a illustrare in maniera eccellente come Berlino – benché mutilata, impoverita, minacciata da una crisi economica permanente e con scarse speranze di una ripresa – diventò da una parte la capitale del divertimento europeo, dall’altra il centro nevralgico dell’autodistruzione di gran parte delle classi sociali. Pagina dopo pagina la città si infiamma di una febbre in cui esplode la sessualità più libera e sfrenata, l’assunzione di cocaina ed eroina nelle sale da ballo, tutto in città si muove a ritmo di swing e jazz. Questa ricerca ossessiva dell’evasione in realtà, però, non era altro che una fuga alla disperazione.
La crisi economica e la travolgente avanzata del nazionalsocialismo furono il prologo dell’ultima fase di Weimar. La vittoria del partito di Hitler nel settembre del 1930 sorprese non soltanto gli avversari, che avevano chiaramente sottovalutato sia la situazione generale che le voci della popolazione più oppressa, ma gli stessi nazisti. In questa fase particolare, l’appoggio al partito di Hitler fu essenzialmente l’espressione di uno stato d’animo, una protesta diretta contro la situazione esistente più che il consenso a un programma specifico. Il vero significato del voto non era un “sì” al nazismo, ma un “no” al modo in cui il Paese veniva governato.
La depressione economica iniziata col crollo di Wall Street nel 1929 si era diffusa rapidamente in Europa, con ripercussioni gravi in Germania, che dopo essere uscita sconfitta dalla guerra, era economicamente e psicologicamente impreparata a sopportare altri colpi così duri. C’erano sei milioni di disoccupati, i salari diminuirono drasticamente, e l’interno Paese piombò nella miseria, in cui regnava un’atmosfera improntata alla disperazione, che fu la causa essenziale del crollo della democrazia parlamentare e di tutto il sistema politico. A sancire la fine della repubblica furono soprattutto la mancanza di coraggio della sinistra socialdemocratica e comunista, con le sue divisioni interne e la mancanza di volontà politica, oltre agli errori economici. I grandi beneficiari della crisi furono i nazisti, i quali grazie alle promesse di una soluzione immediata a tutti i problemi del Paese trovarono ampio consenso. Esattamente come accade oggi in gran parte dell’occidente.
A distanza di un secolo, il mondo ha vissuto non solo l’orrore dello sterminio nazista ma anche dell’atomica, delle guerre in Corea e in Vietnam, nel Golfo e nei Balcani, dell’undici settembre, dell’Afghanistan e della Siria. Ha vissuto la crisi economica devastante del 2008 e quella che si appresta a venire a causa della pandemia di COVID-19, che ha già lasciato e lascerà milioni di persone senza lavoro e con un futuro ancora più incerto. Non serve un acuto osservatore per vedere che le premesse non sono poi così diverse da quelle del secolo scorso, e per di più sono trasportate in un panorama molto più vasto, che coinvolge ogni Paese del mondo. Questi ritorni di fiamma militaristi, questi rigurgiti neonazisti e nazionalisti sono il risultato di una politica scellerata, non solo di destra, ma anche e soprattutto di sinistra, che tende a dimenticare il passato e ad assolvere i colpevoli, pur di trovare un compromesso, a riabilitare i vecchi miti e a consolidare i vecchi centri di potere.