1940, università di Harvard. La gente si interroga sul nuovo arrivato, un russo sulla quarantina a cui è stato affidato il compito di gestire la collezione di farfalle al museo di zoologia comparata. Dicono sia un ottimo entomologo, molto scrupoloso e specializzato nei Polyommatini, una tribù di farfalle). Inoltre, è un fanatico degli scacchi e gira voce che se la cavi anche con la penna. Ha scritto alcune opere in russo, e ora si appresta a cimentarsi con l’inglese. Uno dei classici émigrés con velleità da scrittore e poco talento, mormora la gente senza aver mai letto mezza pagina delle sue opere. Di quelli che si credono Gogol’, si lasciano contaminare da Hemingway e non avranno mai successo. Qualcuno consiglia al diretto interessato di dedicarsi esclusivamente al mondo delle farfalle. Lui non ascolta le malelingue e le voci di corridoio, e continua a scrivere. È convinto che prima o poi il suo nome girerà per l’America. Ha ragione, Vladimir Nabokov.
Il 1917 non è un buon periodo per far parte di una nobile famiglia russa legata agli Zar. Il nonno di Nabokov era il ministro della giustizia sotto Alessandro II, mentre il padre, politico di spicco, viene nominato segretario del governo provvisorio in seguito alla rivoluzione di febbraio. L’ondata rossa costringe la famiglia a fuggire in Crimea. La disfatta dell’Armata Bianca impone, nel 1919, un’ulteriore fuga verso l’Inghilterra, dove il giovane Vladimir completa gli studi nella prestigiosa università di Cambridge. Parte avvantaggiato: in famiglia si è sempre parlato russo, inglese e francese. Poliglotta già in fasce, non trova difficoltà ad adattarsi alla nuova vita europea, nemmeno quando le tribolazioni familiari impongono l’ennesimo trasferimento, stavolta Berlino.
La vita tedesca della famiglia Nabokov inizia nel peggiore dei modi. Il padre, durante una conferenza politica, viene raggiunto da due attivisti russi di estrema destra che lo uccidono a sangue freddo. Vladimir si rifugia nella scrittura per combattere il dolore. Riesce a trovare un accordo con una casa editrice fondata da un emigrato russo e inizia a tradurre Dostoevskij in inglese. La figlia del suo datore di lavoro, Vera Slomin, resta affascinata dai manoscritti non ancora pubblicati da Nabokov. I due si innamorano e si sposano nel 1925. Vera sostiene il marito, diventa la sua dattilografa e traduttrice e lo sprona a pubblicare le sue prime opere. I primi romanzi in russo – Maria, Re, donna, fante, L’occhio, Gloria, Invito a una decapitazione – rispecchiano in pieno la cultura ibrida di Nabokov. All’infarinatura della tradizione russa si aggiungono le ispirazioni alle nuove correnti letterarie che stanno prendendo piede in tutta Europa. C’è Pirandello, c’è Kafka, qualche accenno di Joyce. È una scrittura simbolista che segue pedissequamente l’esperienza individuale di Nabokov, il percorso di una vita ancora giovane ma già intensa. Tra gli emigrati russi inizia a spargersi la voce, ma sopraggiungono ben altri problemi. È la Germania di Hitler, i germi di una nuova era del terrore si stanno diffondendo. E Vera Nabokov è ebrea.
Strano il destino: fuggire dai comunisti in Russia e dai nazisti in Germania, alla continua ricerca di una patria. La nuova vita di Nabokov ricomincia nel 1940 in America da affermato entomologo e scrittore sconosciuto. Vera impara a guidare e porta il marito in giro per le campagne, a caccia di farfalle. Ha sempre con sé una pistola, pronta a estrarla dalla borsetta nel caso qualche fanatico nazista dovesse rintracciare Vladimir. Intanto, da Berlino, giungono notizie sconfortanti. Il fratello di Vladimir, Sergei, è stato arrestato dalla Gestapo perché omosessuale. Sergei ha girato l’Europa entrando a contatto con intellettuali del calibro di Gertrude Stein e Jean Cocteau. È un dandy, eccentrico e stravagante. Quando viene rilasciato, decide di combattere la sua personale guerra contro il regime nazista. Critica pubblicamente Hitler e la Gestapo, rivendica con orgoglio la sua appartenenza al mondo omosessuale e come conseguenza viene deportato in un campo di concentramento. Qui si prodiga per i suoi compagni, cedendo il suo cibo nonostante le precarie condizioni di salute. Denutrito e ormai privo di forze, muore nel 1945, a pochi mesi dalla sconfitta tedesca. Viene tutt’oggi ricordato come un esempio dalle comunità gay di tutto il mondo.
Intanto Nabokov decide di immergersi del tutto nella realtà sociale statunitense. Per farlo fino in fondo è necessario cambiare lingua di scrittura e affidarsi all’inglese. Romanzi come La vera vita di Sebastian Knight e I bastardi sono il preludio a qualcosa di più grande, al ponte che collega la Russia, l’Europa e gli Stati Uniti nello stile e nel contesto sociale. È al lavoro su una storia scabrosa, sulla morbosità di uomo nella società e di una società nell’uomo, dove l’impulso sessuale divampa fino a sconfinare nelle terre del proibito, della pedofilia strisciante. Legge e rilegge il manoscritto, è attanagliato dai dubbi, non è pronto a mostrarlo al mondo, e il mondo non è pronto a riceverlo. Decide di bruciarlo e di consegnarlo all’oblio. Vera si oppone: decide di salvare quelle bozze dalle fiamme e convince il marito a inviare il romanzo a diverse case editrici. In questo modo Vera salva Lolita.
Quattro case editrici americane rifiutano con sdegno di pubblicare il romanzo. Roba pornografica, affermano. L’opera vede la luce nel 1955 grazie all’Olympia Press, casa editrice parigina che si occupa di letteratura erotica. Ben presto però il ministro degli Interni francese decide di ritirare le copie dalle librerie: troppe oscenità in un solo libro. Quando arriva la prima edizione americana, nel 1958, il romanzo raggiunge una fama inimmaginabile. Negli anni viene tradotto in 30 lingue e vende più di 50 milioni di copie. È la storia di Humbert Humbert, un figlio del Vecchio Continente che mette in mostra i suoi deliri e quelli dell’America. La sua passione per le ninfette raggiunge l’apice con l’arrivo di Dolores, la sua Lolita, dodicenne maliziosa che gli stravolge l’esistenza. Chi ha letto il romanzo sa che il tema non è la pedofilia, ma un tessuto che ricopre la psiche umana e raggiunge zone inesplorate dell’amore e della malattia, quando un ossimoro diventa sinonimo. Con Lolita Nabokov rompe gli argini della letteratura mondiale e genera un punto di non ritorno, creando un ponte tra letteratura classica e moderna. Nabokov è ciò che infuria tra Dostoevskij e Roth, tra Gogol’ e Delillo, per geografia e stile. L’uomo che insegue le farfalle è diventato il nuovo faro della scrittura.
Da qui, la gloria. Stanley Kubrick porta Lolita al cinema, Nabokov firma contratti di prestigio e viene assunto alla Cornell University di Ithaca. Per parlare di letteratura, e non di farfalle. Tra i suoi allievi c’è un giovane Thomas Pynchon, pronto a regalare al mondo della letteratura i suoi sprazzi di psichedelia e furore astratto. Nabokov non si ferma, arrivano opere mature come Pnin, Fuoco Pallido e Ada o ardore. Qui i temi delle ossessioni vengono reintrodotti seguendo la sua esperienza americana nel mondo dei college, fino a giungere all’ucronia di Ada o ardore e alla creazione di mondi immaginari. Ormai la scrittura di Nabokov è un marchio indelebile, riconoscibile al primo impatto e ammaliante, parola dopo parola. Lo scrittore si cimenta anche in traduzioni, saggi, trattati, si mette a nudo con il memoir Parla, Ricordo e si concede il lusso di passare la sua vecchiaia in Svizzera, protetto tra le montagne neutrali di una non-patria, lontano dai suoi punti cardinali rappresentati da Russia e America.
Eppure Vladimir è conscio di aver raggiunto i suoi traguardi grazie alla moglie Vera, autentica mente della famiglia. Se il marito è geniale ma totalmente privo di ogni senso pratico, Vera si dedica anima e corpo a organizzare ogni dettaglio della vita del compagno, senza mai cadere nella tenaglia della donna dietro il marito – tristemente comune a quei tempi – ma affiancandolo in ogni passo e prendendo le decisioni per lui. Ed è rimasta così nella memoria odierna, come ricorda la canzone de I Cani Come Vera Nabokov: “Mi basta che mi prometti di andare in giro con la pistola per difendermi, e di tagliarmi la carne da mangiare nel piatto come Vera Nabokov”. Lui arriva a dedicarle tutte le opere, e a dichiarare: “Senza Vera non avrei mai scritto una riga”.
Nabokov muore a Montreux nel 1977, quando ormai la sua produzione letteraria ha superato il culto per raggiungere il mito. La sua è la storia di una realtà cosmopolita, di una patria che non trova radici in un singolo appezzamento di terra perché le rintraccia ovunque. Quello che oggi resta di Nabokov non è soltanto l’enorme talento e l’eredità letteraria, bensì la capacità di avere spalancato una porta prima degli altri, cancellando i confini geografici, le barriere linguistiche e l’orrore delle dittature. Nabokov ha attraversato il Novecento affrontando il peggio e regalandoci il meglio, tratteggiando con la sua penna (e le dita di Vera sulla macchina da scrivere) la storia di un secolo tanto flessibile quanto spietato.