Per imparare a vivere dobbiamo prima imparare a morire

Dall’alba dei suoi giorni, l’essere umano ha sempre combattuto una battaglia contro l’unico evento di cui ha certezza: la morte. Vivere portandosi dietro il pensiero di dover morire, o di dover assistere alla dipartita di chi ci sta intorno, è un peso che ci attanaglia sin dalla giovane età, ed è frutto di una formazione tanatofobica. Soprattutto nel mondo occidentale, la concezione della morte – e di conseguenza l’impermanenza delle cose – ci viene imposta quando siamo ancora in una fase simile a quella degli animali: siamo estranei alla mortalità perché non sappiamo di dover morire. Venendolo a sapere, si instilla in noi un marchio di caducità, soprattutto a causa del modo in cui ci viene insegnata la morte. Iniziamo a temerla, a plasmarla quotidianamente nella mente fino a renderla il più grande tabù della nostra esistenza. Questo crea un paradosso che si ripercuote sulla qualità della nostra vita: non sappiamo vivere perché non sappiamo morire.

Secondo lo scrittore polacco Stanislaw Jerzy Lec, il primo sintomo della morte è la nascita. Intendere dunque la morte non solo come il momento finale della vita ma come l’elemento costitutivo della vita stessa, come teorizzato anche da Heidegger, è il primo passo per comprenderne l’essenza. Per il filosofo tedesco, infatti, solo attraverso la morte l’uomo si costituisce come coscienza trascendentale, e l’angoscia scaturita dalla consapevolezza della nostra finitudine ha un’accezione positiva, poiché rende rilevanti le scelte e quindi autentica l’esistenza, mentre in una prospettiva di vita eterna questo non sarebbe possibile. Questo è il suo concetto di “essere per la morte”, ma l’errore di fondo che l’essere umano continua a commettere è quello di intendere quell’angoscia come antipasto della morte stessa. Inevitabilmente va in cerca di uno strumento consolatorio, e qui la filosofia lascia spazio alla religione.

Sin dagli albori l’uomo ha creduto, o sperato, in un’appendice della vita. Il ritrovamento delle sepolture degli uomini di Neanderthal – la cura nel posizionamento dei corpi, la presenza dei fiori e di altre decorazioni – lascia intendere, secondo molti antropologi, che già all’epoca fosse presente la credenza di una sorta di aldilà, di una “vita dopo”.

Gran parte delle religioni si basa proprio sull’interpretazione di quel dopo, creando nei propri fedeli non soltanto una forma di sollievo per la speranza di una nuova vita, ma un incentivo a comportarsi degnamente qui e ora, per determinare la qualità dell’esistenza dopo la morte. Per le religioni abramitiche vi è infatti l’idea di un collocamento in base alla condotta terrena, con la possibilità ad esempio di finire in paradiso, al purgatorio o all’inferno. Nelle culture orientali, di matrice buddista-induista, la morte è un passaggio che si ripete nel processo di reincarnazione e quindi va affrontata diverse volte. L’anima che in vita non è riuscita a ottenere la liberazione dalla ruota del karma quando arriva il momento abbandona il corpo fisico per abitarne uno nuovo. Ma anche in questo caso, attraverso la dottrina del karma, le azioni della vita influiscono sul “dopo”, con la possibilità di reincarnarsi in esseri superiori o inferiori o di raggiungere invece la liberazione e interrompere il processo.

Non tutti però risolvono il problema della morte affidandosi a una fede. Si stima che la popolazione mondiale sia infatti composta al 13% da atei e al 23% da agnostici e, quindi, per una larga fetta degli esseri umani dopo la morte non ci sarebbe assolutamente nulla. Eppure hanno tutti paura di morire. Il Dalai Lama ha affermato che “Gli uomini dell’Occidente vivono come se non dovessero morire mai e muoiono come se non avessero mai vissuto”. Parlando di “uomini dell’Occidente” intendeva porre l’attenzione su uno stile di vita che minimizzando la morte tende a minimizzare anche la vita. Una famosa storia zen racconta di un monaco che un giorno viene minacciato da un guerriero. “Non sai che stai guardando uno che può ucciderti senza battere ciglio?”, tuona il guerriero. “E tu non sai che stai guardando uno che può essere ucciso senza battere ciglio?”, risponde il monaco. A quel punto il guerriero si inchina e abbandona il tempio.

Nessuno di noi è sicuramente un monaco zen. Eppure ampliare la nostra prospettiva in questo senso potrebbe farci stare meglio. Per la nostra società, infatti, la morte veicola molte paure collaterali.  Volendo escludere la morte a tutti i costi ci condanniamo a subirne i suoi effetti più nefasti: il terrore della fine, del cambiamento, l’ansia per il futuro, o per non riuscire a controllare quello che ci succede. Abbiamo trasformato la morte in una nevrosi.

Affrontare la morte vuol dire porsi davanti a un fenomeno totalizzante ed esteso a tutta la civiltà, presente e futura. Gli uomini si sono sempre interrogati sulla morte e sui modi per affrontarla. Uno di questi, ad esempio, è destrutturarla e vederla sospendendo il giudizio. Per Epicuro non c’è niente di temibile nella vita per chi è convinto che non ci sia niente di temibile nel non vivere più. Che la fine sia un inizio, come diceva Terzani riprendendo il pensiero asiatico o semplicemente il sipario in attesa del vuoto, a ben vedere conta il modo in cui si è giunti a essa. Accettare la morte vuol dire anche porre fine a una vita indegna di essere vissuta. In tal senso il cattolicesimo incappa in una contraddizione moderna: se non è tollerata l’eutanasia non viene tollerata nemmeno la morte, e dunque quel che viene dopo. Lasciare in vita un individuo in uno stato vegetativo equivale a considerare l’esistenza una mera questione tra un corpo (l’involucro) e lo spazio (il mondo). È una distorsione del concetto della morte, come se si dicesse: “Non temetela, ma intanto non vogliamo farla arrivare nemmeno se soffrite e non siete più in grado di viverla”.

La morte è la nostra paura più grande probabilmente anche per un altro fattore: c’è un istinto primordiale che ci avvicina a essa, quasi un’attrazione. Freud ne parla in Al di là del principio di piacere, dando all’istinto di morte (thanatos) una valenza poliedrica. Ovvero: da un lato il timore ci pervade, ma allo stesso tempo c’è il desiderio insito nell’essere umano di giungere alla distruzione finale, alla non-vita da cui proveniamo. D’altronde il masochismo e la coazione a ripetere, ovvero l’istinto a perpetrare le azioni che provocano conseguenze negative, non sono altro che un autosabotaggio, un modo per raggiungere più rapidamente la fine. Filosofia, psicologia e religione convergono quindi in un unico nucleo quando evidenziano la stratificazione della morte, il modo in cui l’essere umano la contempla. Può esserci un’attrazione, una paura, la speranza di un nuovo inizio o la tranquilla contemplazione, ma la conclusione sulla morte è sempre la stessa: l’uomo non la conosce. Qualsiasi sforzo o analisi si faccia, non è possibile rintracciare i suoi contorni, conferirle un volto; quindi – come ci hanno suggerito diversi pensatori – tanto vale vivere al meglio il tempo che ci è concesso.

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