Nel 1952 Italo Calvino affrontò in un breve romanzo scritto di getto il tema della duplicità dell’animo umano, influenzato anche dal clima geopolitico dei primi anni della Guerra Fredda. Il visconte dimezzato diventerà la prima parte della trilogia I nostri antenati, completata da Il barone rampante del 1957 e Il cavaliere inesistente del 1959. Come scrisse lo stesso Calvino in una nota della raccolta datata 1960, “Eravamo nel cuore della guerra fredda, nell’aria era una tensione, un dilaniamento sordo, che non si manifestavano in immagini visibili ma dominavano i nostri animi. Ed ecco che scrivendo una storia completamente fantastica, mi trovavo senz’accorgermene a esprimere non solo la sofferenza di quel particolare momento ma anche la spinta a uscirne”.
Questa tensione è evocata dallo scenario con cui si apre il romanzo: un campo di battaglia nella Boemia del Seicento in cui cavalca il visconte Medardo di Terralba, cavaliere cristiano pronto a combattere contro l’esercito turco. Medardo viene descritto come un giovane ancora acerbo e dai sentimenti confusi, un po’ intontito da tutto l’orrore che lo circonda, di cui fatica perfino a rendersi conto.
Tutto cambia nell’attimo in cui un colpo di cannone lo colpisce in pieno petto, ma al posto di ucciderlo sul colpo lo taglia in due metà che assumono ognuna vita e moralità proprie. Una è malvagia, perversa, arrogante, dotata di un humour tagliente, mentre l’altra è buona, gentile, caritatevole, altruista ai limiti della pedanteria. Un contrasto in cui è evidente l’influenza de Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde di R. L. Stevenson, scrittore di cui Calvino si è dichiarato estimatore in diverse occasioni.
Delle due metà del visconte la prima a fare ritorno a Terralba, il suo paese d’origine in Italia, è quella cattiva, che, pur costretta a reggersi su una stampella, si dimostra tanto agile e scattante nel compiere le sue nefandezze da meritarsi il soprannome di “Gramo”. Dopo qualche tempo durante il quale il Gramo esercita il potere con violenza e crudeltà, torna a casa anche il Buono, che cerca di porre rimedio ai danni causati dal suo doppio malvagio. Questo suo slancio umanitario finisce però per generare confusione negli abitanti di Terralba, presi tra due fuochi e stanchi degli eccessi di entrambe le parti di Medardo.
Le doti umoristiche di Calvino riescono a rendere perfettamente credibili entrambe le metà, spingendo il lettore a empatizzare con loro come fossero nostri amici o conoscenti di cui sono stati esasperati in modo caricaturale i tic e le fissazioni: ognuna si intestardisce nel portare avanti la sua lotta incurante del punto di vista altrui; ognuna vuole imporre la sua visione del mondo.
Attraverso questa allegoria venata dei toni tipici della fiaba Calvino mostra la parzialità del punto di vista umano, aprendo uno spiraglio sulle problematiche tanto attuali per lui quanto per i suoi attuali lettori. Sempre nell’introduzione ha scritto “Dimidiato, mutilato, incompleto, nemico a se stesso è l’uomo contemporaneo; Marx lo disse ‘alienato’; Freud ‘represso’; uno stato d’antica armonia è perduto, a una nuovo completezza s’aspira”. Più avanti nella nota aggiunge anche che gli altri personaggi del racconto sono una “esemplificazione dei tipi di mutilazione dell’uomo contemporaneo”.
Al di là di Medardo, spaccato letteralmente in due, tutti vivono oppressi da un senso di dissociazione più o meno latente, ognuno in preda alle proprie personali nevrosi: il dottor Trelawney (nome rubato a un personaggio de L’isola del tesoro di Stevenson), medico stralunato che prova ripugnanza al contatto con i malati, ma che passa intere notti nei cimiteri a caccia di fuochi fatui; il carpentiere Mastro Pietrochiodo, che costruisce ingegnosi strumenti di tortura e patiboli per soddisfare le fantasie più crudeli del Medardo cattivo, rappresentando per Calvino “lo scienziato o il tecnico d’oggi che costruisce bombe atomiche o comunque dispositivi di cui non sa la destinazione sociale”; l’orgiastica comunità dei lebbrosi che rappresentano “l’edonismo, l’irresponsabilità, la felice decadenza, il nesso estetismo – malattia”; gli ugonotti, descritti come una congregazione religiosa bigotta, ma ormai priva di un vero credo.
L’assurdità del mondo degli adulti è ancora più evidente grazie alla scelta di Calvino di affidare la narrazione alla voce del nipote di Medardo, un bambino che non è stato ancora contaminato dalle scissioni della società, e quindi ancora integro, libero, non represso. Il richiamo all’incanto e al mondo fantasmagorico dell’infanzia rafforza anche il carattere picaresco della storia e il tono spensierato che permette anche agli episodi più scabrosi di essere accolti con un accenno di sorriso.
Trattandosi di una “fiaba d’evasione”, la sua conclusione è un lieto fine, con Medardo che torna intero grazie a un amore che riesce a conciliare le sue metà, anche se Calvino avverte con ironia che “non basta un visconte completo perché diventi completo tutto il mondo”.
Il tema dell’incompletezza ritorna molti anni dopo nelle Lezioni americane, in cui Calvino lo usa come sfondo alle sue riflessioni sulle qualità letterarie e i conseguenti valori umani da salvaguardare. Già nella prima lezione sulla Leggerezza mette in luce “il nesso tra levitazione desiderata e privazione sofferta”, tra desiderio e mancanza, nesso che per lui è “una costante antropologica” in grado di alimentare l’immaginazione del poeta.
“La parola”, scrive ancora, “collega la traccia visibile alla cosa invisibile, alla cosa assente, alla cosa desiderata o temuta, come un fragile ponte di fortuna gettato sul vuoto”. Tuttavia, “nel render conto della densità e continuità del mondo che ci circonda il linguaggio si rivela lacunoso, frammentario, dice sempre qualcosa in meno rispetto alla totalità dell’esperibile”.
La mancanza sembra essere il destino della scrittura secondo Calvino, un tentativo di dare all’espressione verbale di idee, emozioni, sensazioni e sfumature di pensiero la massima precisione possibile, facendo sempre i conti con processo di editing e di revisione continua che richiedono questi passaggi.
Ma è chiaro però che tutti, non solo gli scrittori, proviamo questo senso di vuoto. Forse proprio per questo le avventure e i conflitti interiori che lacerano anche fisicamente il visconte Medardo ci appaiono così vicine mentre le leggiamo.
Tra le righe del Visconte dimezzato ognuno può trovare le sue metà inascoltate, che premono per palesarsi. Nello stesso tempo, forse, si sentirà stimolato in senso positivo ad abbracciare un approccio verso il mondo più democratico e dialogante, riconoscendo i propri difetti e diventando più comprensivo nei confronti di quelli degli altri. Qualcuno potrebbe persino sentire nascere dentro di sé, come accade alla parte buona di Medardo, un impeto di solidarietà verso “tutte le mutilazioni e le mancanze del mondo”.
Ma prima di tutto Il visconte dimezzato è una storia allegra e dal tono fanciullesco, ed è proprio questo il segreto che lo rende ancora un racconto così amato a oltre 60 anni dalla sua pubblicazione. Calvino non vuole insegnare, ma ricordare con la leggerezza sempre ricercata nel suo percorso letterario che tutti siamo un delicato equilibrio di bontà e cattiveria, cinismo e tenerezza, ed è proprio dall’incontro di questi opposti che il nostro essere al mondo si definisce: “Alla fine Medardo schiuse gli occhi, le labbra; dapprincipio la sua espressione era stravolta: aveva un occhio aggrottato e l’altro supplice, la fronte qua corrugata e là serena, la bocca sorrideva da un angolo e dall’altro digrignava i denti. Poi a poco a poco ritornò simmetrico”.