Il 7 aprile 1926 Mussolini, nel Campidoglio di Roma, ha appena concluso il suo discorso d’inaugurazione del settimo Congresso Internazionale di Chirurgia. Le immagini d’epoca lo mostrano mentre scende la scalinata di marmo dell’edificio. La macchina d’ordinanza lo attende presso il porticato del Palazzo dei Conservatori. Tra la folla, un gruppo di studenti intona Giovinezza. Il capo del governo si ferma ad ascoltarli. Poco più in là, nessuno nota una donna sulla cinquantina, esile, vestita di nero, con i capelli bianchi raccolti con grazia dietro la nuca. È appoggiata a uno dei lampioni della piazza. Nessuno tanto meno nota che la donna ha estratto dalla tasca del cappotto una rivoltella avvolta in una benda di organza nera. Quando Mussolini le arriva a pochi passi, lei gli punta la pistola alla testa e preme il grilletto. Il colpo parte nell’esatto istante in cui il primo ministro decide di salutare il coro di studenti, tendendo il braccio nel saluto romano. Nel farlo, tira indietro la testa, portandosi fuori mira. Sono solo pochi millimetri, ma gli salvano la vita. Mussolini rimane ferito di striscio al naso. La donna, compreso di aver mancato il bersaglio, preme nuovamente il grilletto, ma dopo un altro paio di colpi andati a vuoto la pistola si inceppa. La folla le è addosso. Viene disarmata. La Polizia interviene per salvarla dal linciaggio, trascinandola via.
Mussolini, soccorso da decine di chirurghi, è trasportato nella sua casa al 155 di via Rasella. Nelle ore successive, riceve la notizia che la sua attentatrice è Violet Albina Gibson, una nobile di origine irlandese, figlia del defunto barone di Ashbourne. The Honourable Violet appartiene a una delle famiglie più influenti di Irlanda e Gran Bretagna. Il padre era stato deputato, Lord Cancelliere d’Irlanda, amico del conservatore Benjamin Disraeli, il potente primo ministro britannico della seconda metà del XIX secolo, e durante la sua carriera era di casa alla corte della regina Vittoria, come la figlia fin dalla tenera età.
Nonostante sia cresciuta nel rigido ambiente culturale della nobiltà protestante e unionista anglo-irlandese, Violet è una donna dotata di vivace intelligenza e profondo spirito d’indipendenza, fin dalla giovinezza in contrasto con la famiglia e le convenzioni sociali imposte alle donne del suo rango. Avrebbe potuto condurre un’esistenza comoda e agiata, ma ha deciso di seguire un’altra strada. Rifiuta la fede protestante, alla quale era stata educata dal padre conservatore, per tutta la vita fedele servitore della Corona inglese, e diventa cattolica e repubblicana, avvicinandosi nel corso degli anni al pensiero del socialismo cristiano.
Lo strappo con la famiglia concorrere insieme ad altre vicissitudini personali a minare la sua salute psicofisica, causandole un esaurimento nervoso che però non piega del tutto la sua personalità combattiva. Si tratta di una donna che viaggia molto, ama profondamente l’Italia, che frequenta fin da bambina, ed è impegnata nelle maggiori campagne progressiste di quel periodo. Nel 1914, a Parigi, si unisce al movimento contro la guerra e aderisce al Congresso Internazionale delle Donne per la Pace, lavorando a fianco della socialista Sylvia Pankhurst, attivista di spicco nelle organizzazioni per il suffragio femminile. É proprio l’attivismo l’elemento predominante della personalità di Violet. Con il tempo, diventa un’ardente militante antifascista e nel periodo dell’ascesa del fascismo in Italia entra in contatto con gruppi di cattolici italiani che si oppongono all’avanzata delle camicie nere.
Con il suo attentato Violet getta in un profondo imbarazzo la leadership fascista – al potere da poco più di quattro anni e ancora in cerca del consenso della comunità internazionale – che non sa come trattare e giudicare una donna, straniera e persino nobile per il suo crimine. Intanto, non appena in Europa si conosce l’identità dell’attentatrice, il presidente del Consiglio irlandese, William Thomas Cosgrave, si affretta a confermare a Mussolini che “l’infame attentato” ha causato profonda indignazione sull’isola. Anche Giorgio V d’Inghilterra gli invia auguri di pronta guarigione, condannando l’atto di Gibson. Al netto delle complicate relazioni diplomatiche post belliche, appare subito evidente che gli establishment britannico e irlandese non hanno nulla a che fare con l’azione di Violet, se non la circostanza, peraltro abbastanza imbarazzante, che la nobile è anglo-irlandese.
Durante gli interrogatori, Violet non si mostra mai pentita del gesto commesso, risponde lucidamente a tutte le domande, conferma di aver avuto l’intenzione di uccidere Mussolini, nega di avere dei complici. Intorno all’inchiesta si intreccia il gioco delle parti diplomatiche in campo con l’obiettivo di risolvere il caso nella maniera più rapida possibile, tenendo in considerazione le necessità di tutti gli attori in scena: in primo luogo Mussolini, che vuole mostrare magnanimità verso la Gran Bretagna; quest’ultima che intende evidenziare la totale estraneità rispetto all’attentato e cerca di non urtare la sensibilità del regime; la famiglia Gibson, infine, impegnata a ridurre al silenzio lo scandalo che l’ha coinvolta.
In istruttoria testimoniano i rappresentanti della famiglia di Violet, i quali tracciano il ritratto di una donna dalla personalità emotivamente instabile, ne raccontano gli episodi depressivi, causati da dolorose perdite familiari e parlano di un suo tentativo di suicidio. Nel giro di pochi mesi, l’inchiesta perde ogni caratterizzazione politica e Violet finisce per essere giudicata per un gesto causato da una sorta di “lucida follia”: sostanzialmente era consapevole di stare commettendo un delitto, ma restava “una folle”.
Un anno dopo l’attentato, con il consenso delle autorità italiane, Violet è prosciolta in istruttoria ed espulsa dall’Italia verso la Gran Bretagna. Arrivata nel Paese, è immediatamente condotta al St Andrew’s Hospital, una clinica psichiatrica nella città di Northampton. I dottori la visitano e pochi minuti dopo firmano per volontà della famiglia la diagnosi che il 14 maggio 1927 la porta a essere rinchiusa in manicomio. Muore in ospedale il 2 maggio 1956.
Per trent’anni, nessuno eccetto la famiglia sa dove si trovi Violet, che dalla sua stanza in ospedale scrive decine di lucidissime lettere con richieste d’aiuto ai parenti, agli amici, alle istituzioni. Nessuna delle lettere è mai stata inviata dalla dirigenza della struttura e si trovano ancora nell’archivio della clinica di Northampton. Nel corso degli anni, alcuni dei suoi amici tentano di contattarla tramite la famiglia, ma le lettere non le sono mai recapitate. La donna semplicemente scompare, scartata, respinta, privata delle sue libertà più basilari.
Su di lei cala il sipario per quasi un secolo. Solo nel 2021 la città di Dublino ha deciso di renderle omaggio. Il regista, scrittore e consigliere comunale Mannix Flynn è il primo proponente in Consiglio comunale di una mozione per l’apposizione di una targa commemorativa al numero 12 di Merrion Square, l’abitazione dublinese della famiglia Gibson. La mozione è passata all’unanimità il 25 marzo.
La decisione vuole rendere giustizia a Violet e iniziare a raccontare la sua vicenda sotto una prospettiva politica. Sono tante le persone che come Violet si sono opposte ai regimi dittatoriali in tutto il mondo, scomparendo in carcere o in un ospedale psichiatrico per difendere le loro opinioni. Della loro storia si sa però ancora molto poco.
Uno dei motivi della rimozione di Violet dalla società e poi dalla narrazione storica è certamente il fatto che si tratti di una donna. Se l’attentatore fosse stato un uomo, se ne sarebbe parlato e scritto di più, ma si trattava di una donna che aveva commesso un atto inenarrabile: per questo andava dimenticata, cancellata. Fu la famiglia ad assicurarsi in prima battuta che questo accadesse, mettendo un punto definitivo alla sua vita, riportando all’ordine la ribelle, privandola della libertà e rinchiudendola in una struttura psichiatrica. In Irlanda e Gran Bretagna ancora negli anni Trenta del secolo scorso bastava molto meno perché una donna fosse internata. Non era necessario sparare a un dittatore, ma spesso bastava avere un figlio fuori dal matrimonio. In Italia un trattamento simile Mussolini lo riservò a Ida Dalser, madre del figlio Benito Albino Mussolini, di cui si liberò facendola rinchiudere in una clinica psichiatrica. “La rimozione di Violet dalla Storia non è più accettabile – conclude Mannix Flynn – e oggi è importante, mentre il fascismo sta tornando in auge in tutta Europa, ricordare la sofferenza di quelle persone che combatterono contro un sistema che inghiottì milioni di esseri umani. È il momento di dire: ‘Riportate a casa Violet!’”.