Quello che lo scrittore peruviano Mario Vargas Llosa ha vissuto sulla propria pelle e ciò che ha appreso attraverso la lettura e lo studio hanno contribuito a fargli capire che gli estremismi possono solo fare male e, forse per questo, tutta la sua opera letteraria e politica può essere letta come un tentativo di metterci in guardia da qualunque pericolo di pensiero trasformato in ideologia.
È sempre complicato dare una data di nascita alla propria coscienza storica: è difficile trovare il punto esatto in cui la politica e in generale l’interesse per il sociale entrano nella propria vita. Quasi sempre però, una prima cognizione di queste tematiche si forma in famiglia: è in questo ambiente che nascono i primi confronti e spesso è lì che si iniziano a perorare le proprie idee. Come racconta Natalia Ginzburg in una delle parti più divertenti di Lessico famigliare, è qui che si litiga sulla politica pur avendo in fin dei conti la stessa visione del mondo.
Anche Mario Vargas Llosa scoprì la politica all’interno della famiglia, e molto da vicino, dato che il nonno era un console, ma la sua coscienza si risvegliò a partire da un particolare evento storico che influì profondamente su di lui: il colpo di stato militare con cui il generale Manuel A. Odría rovesciò il governo democratico peruviano e instaurò una breve quanto tragica dittatura di destra. Nel 1948, Vargas Llosa aveva dodici anni e per lui il presidente destituito, l’avvocato José Luis Bustamante, fino a quel momento era stato solo un componente della famiglia. Era infatti un cugino del nonno e quando passava a trovare i parenti a Cochabamba impressionava il bambino con il suo modo di parlare forbito e la sua grande passione per la poesia. La mossa autoritaria di Odría lo toccò quindi da molto vicino, cambiando radicalmente la sua percezione del mondo: il generale stava imprigionando o costringendo alla fuga centinaia di persone a lui care. Com’era possibile? Cosa c’era di giusto in tutto ciò? È stato lo stesso Vargas Llosa a riconoscere come proprio in quei giorni si formò in lui quell’odio per le dittature – a prescindere dal loro colore – che rimane ancora oggi una delle costanti del suo pensiero e della sua poetica.
Durante gli otto anni di regime, nel giovane Mario crebbe gradualmente la consapevolezza sociale dei problemi del Perù: un Paese pieno di ingiustizie, dove una minoranza di privilegiati sfruttava la maggioranza. La lettura, in particolare quella di libri come Fuori dalla notte di Jan Valtin, ebbe un grande peso in questo percorso, tanto da convincere Vargas Llosa che la letteratura non fosse semplicemente uno strumento di evasione, neanche quando si parlava “solo” di romanzi. In un breve saggio lo dice chiaramente: “Niente, meglio dei buoni romanzi, insegna a vedere nelle differenze etniche e culturali la ricchezza del patrimonio umano e ad apprezzarle come una manifestazione della sua molteplice creatività”. Questo pensiero si concretizza nei suoi primi tre libri, in grado di regalare un perfetto spaccato delle difficoltà vissute dalla gente comune durante l’Ochenato di Odría. Sono romanzi pieni di personaggi di diversa estrazione e professione: si va dai militari e dai civili fan dell’ordine ripristinato dall’uomo forte ai giornalisti, passando attraverso a un universo pressoché infinito di prostitute e sconfitti dalla vita. Ma è soprattutto Conversazione nella “Catedral”, il libro che chiude il trittico, a far emergere le difficoltà di un Paese sprofondato a causa della dittatura in una pericolosa apatia: il dialogo tra i due protagonisti, ricongiunti per caso in un locale assurdo, la Catedral, è il pretesto per raccontare un mondo che si accontenta di pensare e agire sul breve termine, un mondo in cui l’obiettivo di tutti si riduce ad arrivare sani e salvi fino al giorno dopo e niente di più.
Nel libro La civiltà dello spettacolo, Vargas Llosa utilizza quello stesso periodo buio per spiegare i rischi di una società dove cultura e politica si ibridano in modo sbagliato e drammaticamente attuale: secondo Llosa, gli otto anni di Odría sono un esempio lampante di come la politica possa svuotarsi di idee e ideali per limitarsi a rincorrere la mera pubblicità e l’ossessione per le apparenze. Nelle civiltà dello spettacolo, la popolarità e il successo si conquistano “non tanto con l’intelligenza e la rettitudine quanto attraverso la demagogia e il talento istrionico”. La forte censura imposta dai militari mostrava al popolo solo un uomo forte, forzatamente brillante, che si diceva lontano dalla politica e cercava continuamente di svilirne l’importanza. Durante gli anni della dittatura militare, i peruviani vennero allontanati dalla politica non solo attraverso la soppressione di qualunque altro partito, ma soprattutto grazie a una lunga opera di demonizzazione della “cosa pubblica”, partita dai media: il popolo doveva credere che il confronto politico fosse l’origine di tutti i mali. I buoni cittadini erano invitati ad accontentarsi della cultura svuotata e controllata dalla censura che imperava, in grado di impoverire la mente e lo spirito delle persone e rafforzare una visione della società stilizzata e quasi farsesca. Come in tutte le dittature ideologiche, scrive Vargas Llosa, il regime detta le sue regole e non è più la cultura a influenzare la politica, ma l’esatto contrario.
Al pari di tanti altri colleghi del tempo, anche il ventitreenne Mario Vargas Llosa vide uno spiraglio di luce nella Rivoluzione cubana che portò al potere Fidel Castro. E fu proprio grazie a Castro che conobbe un altro grande della letteratura latinoamericana: Gabriel García Márquez. Nel 1971, Vargas Llosa aveva pubblicato una versione estesa della sua tesi di laurea, dedicata interamente all’amico e mentore colombiano. Il libro si intitola Historia de un deicidio ed è uno dei migliori esempi di come Vargas Llosa sia in grado di analizzare la poetica di altri colleghi. Ma fu sempre a causa del Lider Maximo che il loro rapporto così stretto e proficuo si ruppe per sempre. Nel 1976 la loro separazione venne sancita da un pugno, diretto da Vargas Llosa a Gabo, e i due, pur rispettandosi, non si parlarono mai più, né racconteranno mai davvero i motivi del loro allontanamento ai media. La versione più accreditata è che ci fosse stato un alterco dovuto a una donna amata da entrambi ma in realtà il distacco si era già compiuto anni prima per questioni ben diverse. A sancire la fine della loro amicizia fu quello che nel 1970 venne denominato il “caso Padilla”.
Heberto Padilla era un apprezzatissimo poeta che si era speso in prima persona per la rivoluzione cubana, ricoprendo addirittura incarichi governativi. Nel 1968, dopo il successo della sua raccolta Fuera del juego, Padilla era entrato nel mirino della dittatura: l’intellettuale aveva cominciato a muovere timide critiche alla censura intellettuale imposta da Fidel e per questo era stato prima diffamato e screditato, e poi arrestato con l’accusa di scrivere “letteratura contro-rivoluzionaria” e lavorare per la CIA.
Indignato da quanto accaduto, Llosa aveva convocato nella sua casa di Barcellona cinque intellettuali che come lui conoscevano Padilla e aveva scritto insieme a loro una lettera di protesta diretta a Fidel Castro in persona. Il testo era poi stato firmato da tanti grandi scrittori in giro per il mondo, convinti che l’arresto del poeta fosse un attentato alla libertà: tra gli altri avevano partecipato all’iniziativa Jean-Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Susan Sontag, Alberto Moravia, Umberto Eco, Carlos Fuentes ma non García Márquez, secondo cui, nonostante i chiari errori commessi, la rivoluzione cubana andava comunque appoggiata ed era comunque un progresso rispetto alle dittature di segno opposto. Per Vargas Llosa quella scelta dell’amico fu un’enorme delusione. Per lui qualunque dittatura, di destra o sinistra, era uguale alle altre: le ideologie distruggevano l’uomo e non andavano mai assecondate. Un viaggio del 1966 in Unione sovietica gli era bastato per capire che anche l’illusione di un Paese uguale per tutti, dove tutti avevano le stesse opportunità nascondeva una deriva oppressiva e inaccettabile. Vargas Llosa, che all’inizio aveva sposato con entusiasmo la battaglia di Fidel Castro, dopo la lettera venne bandito da Cuba con il grosso dei suoi firmatari e smise di credere alla favola della rivoluzione comunista come panacea di tutti i mali.
In seguito provò anche lui a intraprendere la carriera politica, candidato come presidente della coalizione di centro-destra alle elezioni generali peruviane del 1990. Venne però sconfitto, anche a causa di un programma forse troppo liberista e di impostazione tatcheriana – ma d’altronde gli esempi politici che ormai riteneva positivi si allontanavano molto dalla linea di Fidel. Dopo la parentesi politica tornò a dedicarsi alla scrittura, convinto che intellettuali e pensatori avrebbero salvato il mondo più di sedicenti guerriglieri armati di slogan e, ancora una volta, le sue letture si rivelarono importanti tanto quanto la sua storia personale. Non è un caso che un suo recente saggio si intitoli Il richiamo delle tribù: facendo un chiaro rimando a Karl Popper, il filosofo che per primo ammonì sui rischi del ritornare a una società chiusa, esemplificata dalle tribù del passato. Oggi – ci ricorda Vargas Llosa nel capitolo del libro dedicato proprio a Popper – torniamo a cercare l’appartenenza alla tribù per non sentirci diversi, sperando di avere una platea abbastanza entusiasta a cui parlare. Siamo affascinati dalle ideologie perché ci danno certezze inamovibili, dogmi entro cui muoverci e basi dalle quali partire, ma non possiamo far finta di non sapere quanto siano pericolose. Llosa si schiera come Popper contro quella che questo filosofo chiamava l’“orribile eresia”: il nazionalismo, che azzera il dialogo e la cultura della libertà e pregiudica lo scontro-incontro delle culture in grado di arricchirci. In questo senso non sorprende che dedichi ampio spazio, nello stesso volume, a un altro pensatore ingiustamente dimenticato: si tratta del filosofo spagnolo José Ortega y Gasset che, già a inizio Novecento, proponeva di “europeizzare” la Spagna, per sottrarla all’isolamento politico culturale in cui era vissuta fino a quel momento.
Oggi Mario Vargas Llosa definisce il populismo come “la malattia del nostro mondo”, spiegando che “populismo significa sacrificare il futuro per un presente molto effimero”, ma nonostante questo nutre fiducia e ottimismo nel risveglio intellettuale che l’ultimo “richiamo delle tribù” sta provocando. Tutti i suoi libri, d’altronde, nascono per sua stessa ammissione da un continuo bisogno di “vitalità, di capire, di esserci profondamente” che la spinta omologatrice della società chiusa in se stessa vorrebbe stroncare sul nascere. In una recente intervista a La Lettura lo scrittore ha riassunto così la sua visione: “Credo che in me sia inestinguibile l’idea realista che la letteratura riguardi la storia e le realtà che si vivono, senza possibilità di separazione”.
Vargas Llosa ci insegna che le ideologie e gli estremismi, siano essi di destra o di sinistra, ci distruggono: la cultura può salvarci perché ci impedisce di vivere in tribù chiuse e ci spinge a lottare per una società aperta, senza sottovalutarne i pericolosi nemici, di cui scriveva già Popper. Dobbiamo difendere con attenzione la vera cultura, quella che sviluppa la libertà data dal pensiero critico, che ci rende capaci di valutare il mondo e di muoverci consapevolmente in esso, non quella preponderante e svuotata di contenuti proposta dalle ideologie estremiste, che ci trasforma in fantocci che sostengono a priori uno schieramento, anche quando sbaglia, come fossero tifosi e non esseri pensanti.