La moda è al tempo stesso materia e immagine, strumento che racconta il tempo che viviamo - THE VISION

Dopo vent’anni nella Maison di cui sette da direttore creativo, il 23 novembre scorso Alessandro Michele ha lasciato Gucci. Le sue dimissioni sono state seguite con grande interesse, non solo dagli addetti al settore. Grazie alla sua visione ibrida e onirica, ma anche capace di creare capi e accessori concreti e iconici, Michele era infatti riuscito in pochi anni a far incarnare a Gucci lo Zeitgeist non solo della moda, ma anche della pop culture, dell’arte e del discorso contemporaneo. Tanto che ogni campagna, collezione o scelta comunicativa dello stilista ha generato posizionamenti, discussioni e germogli discorsivi che hanno dimostrato, come forse non succedeva da anni, quanto la moda sia culturalmente rilevante e incida sulla realtà.

Di solito abiti e accessori vengono considerati un argomento frivolo e di secondo ordine, specialmente negli ambienti culturali dove vige ancora una separazione netta tra la dimensione dell’intelletto e quella del corpo, anche per quanto riguarda il modo in cui va adornato. Una certa trasandatezza o noncuranza nell’abbigliamento viene vista quasi come un segno di distinzione morale rispetto a chi invece fa scelte più ponderate di fronte all’armadio. Questa insofferenza nei confronti della moda è in realtà molto miope: da un lato, come insegna Miranda Priestly in una celebre scena de Il diavolo veste Prada, un maglioncino ceruleo pescato dal cestone delle offerte è comunque il frutto di una miriade di processi creativi e produttivi interni alla moda da cui non si può sfuggire; dall’altro, il pregiudizio secondo cui la moda sia un argomento di poco conto ha radici misogine molto antiche, che risalgono alla formulazione delle leggi suntuarie, provvedimenti contro l’ostentazione del lusso diffusi in epoca medievale, che limitavano il modo in cui le persone – e in particolare le donne – potevano vestirsi.

Alessandro Michele

Al contrario, l’abbigliamento ha rivestito nella storia un ruolo decisivo nella distinzione fra le classi sociali, nella promozione di determinati valori morali e infine nella costruzione e nell’espressione dell’identità personale. Come ricorda la giornalista Mariella Milani – in dialogo con la make-up artist e artista drag Stephanie Glitter nella Masterclass di Basement Café by Lavazza “La sfida della moda agli stereotipi di genere” – la moda non solo è rappresentativa dell’ethos, cioè dello spirito del tempo, ma è anche uno strumento di immaginazione e sogno. Tra il secondo dopoguerra e gli anni Novanta, c’è stata un’epoca in cui gli stilisti erano delle vere e proprie divinità, che vivevano quasi in una realtà separata, il cui obiettivo principale era quello di creare una sorta di fantasmagoria della donna. Ampliando o riducendo le scollature, accorciando o allungando gli orli delle gonne, scegliendo forme ampie e neutre o strette e allusive, gli stilisti – più che rispondere allo sguardo maschile – creavano di volta in volta un nuovo simulacro di donna. 

Mariella Milani e Stephanie Glitter nella Masterclass di Basement Café by Lavazza

In passato, la moda aveva una forte componente idealistica anche perché poteva in un certo senso permetterselo: i marchi erano pochi e avevano il controllo diretto su ogni fase della produzione del capo, dal disegno al confezionamento, ma soprattutto la domanda di vestiti era di molto inferiore a quella odierna. Oggi, invece, l’impressione è che la componente materialista della moda abbia preso il sopravvento su quella immaginifica e creativa. D’altronde ormai vengono prodotti cento miliardi di capi all’anno, che corrispondono a 92 milioni di tonnellate di rifiuti tessili che finiscono nelle discariche, l’equivalente di un camion al secondo. Se si continuerà a questo ritmo, si stima che il volume di rifiuti tessili arriverà a 134 milioni di tonnellate l’anno entro la fine del decennio. Il problema, poi, non riguarda soltanto il fast fashion o l’ultra fast fashion, che ha un ciclo di vita ancora inferiore, ma anche i marchi più blasonati. Ormai un brand produce almeno sei collezioni l’anno, senza contare le decine di capsule collection, collaborazioni con altri marchi, edizioni limitate, eccetera.

Spesso si dice che gli stilisti non sono più in grado di produrre nulla di nuovo, o che si limitano a riproporre le collezioni del passato con qualche piccola modifica. E se da un lato è vero che la nostalgia sta avendo un ruolo di primo piano nella moda, come osserva Mariella Milani parlando della popolarità del vintage, è anche vero che una produzione così continua e massiva, orientata all’accumulazione, rende sempre più difficile il processo creativo. Non solo perché gli stilisti lavorano sotto pressione e con una continua richiesta di fare qualcosa di nuovo, vendibile e che diventi pure virale sui social media, ma anche perché il rumore di fondo creato dalla competizione fra le stesse case di moda e fra le case di moda e il fast fashion, pronto a copiare la collezione nel giorno stesso in cui viene presentata, schiaccia inevitabilmente l’immaginazione. 

Nel suo importante libro di teoria Vestirsi di sogni, Elizabeth Wilson scrive che la moda è un’esperienza liminale. Entrando in un museo del costume o vedendo un manichino in una vetrina di un negozio, proviamo un certo senso di inquietudine perché la moda “ci costringe a riconoscere che il corpo umano è più di un’entità biologica. È un organismo dentro la cultura, quasi un artefatto culturale, e i suoi confini sono incerti”. Gli abiti sono al tempo stesso materia e immagine, ma nel momento in cui la materia diventa preponderante, quel riconoscimento che il corpo – vestito, ma non solo – è “qualcosa di più” viene meno. Gli abiti si riducono a merce, una merce che ha perso anche la sua funzionalità, o non si spiegherebbe perché una cintura viene venduta come una gonna, o perché nei negozi troviamo top crop di cotone a gennaio. Questa merce diventa significante vuoto, puro assemblaggio di tessuti che fanno tre o quattro volte il giro intorno al mondo, sostano qualche settimana in un grande magazzino e infine finiscono in una discarica.

Se la moda continuerà a perdere la sua componente di sogno a questa velocità, la speranza che diventi il traino per il cambiamento sociale rischia di affievolirsi. La storia del costume insegna che se da un lato l’abbigliamento è stato fondamentale per affermare i ruoli di genere, dall’altro i codici con cui è stata condotta questa operazione sono del tutto arbitrari. Proprio perché la moda conduce il corpo al di là della sua mera dimensione naturale, è lo strumento perfetto per ampliare i confini del genere: ci sono epoche e contesti geografici in cui l’uso del trucco, dei tacchi o della gonna non è stato affatto esclusiva femminile e non c’è alcuna ragione biologica che prescrive un certo tipo di vestito sulla base del genere.

Negli ultimi anni, l’immaginario della moda è molto cambiato. Non solo si è fatto tanto per promuovere la diversità etnica fra le modelle, tanto che nella presentazione delle collezioni autunnali del 2022 si è raggiunta una sostanziale parità nel numero di indossatrici bianche e non bianche, ma si può dire che la moda sta andando sempre più nella direzione di un mescolamento fra i generi. Molti stilisti, per esempio, hanno deciso di non dividere più le collezioni in maschili e femminili o hanno cominciato a proporre capi genderless, seguendo i cambiamenti sociali relativi all’identità sessuale. Sarebbe sbagliato infatti pensare che sia la moda a guidare questi cambiamenti: proprio perché immersa nell’ethos, la moda è uno strumento del progresso sociale, non ciò che lo indirizza.

Questo diverso posizionamento dell’immaginario della moda nei confronti del genere si deve però confrontare con la dimensione produttiva dell’abbigliamento. Il rischio è quello che questa rivoluzione altro non diventi che l’ennesimo trend, o addirittura microtrend, che si spegnerà nel giro di qualche tempo, andando a riempire le discariche di altre tonnellate di vestiti passati di moda. Poiché il genere è una cosa seria, è importante che non venga ridotto a merce e che la moda torni a essere, almeno in parte, quel sogno capace di immaginare qualcosa di veramente diverso. Per questo è necessario un ripensamento totale di questa industria: meno vestiti, maggior qualità, più attenzione a cosa e a chi si vuole rappresentare. Solo così la nostalgia nei confronti dell’epoca d’oro della moda non rischierà di trasformarsi in rimpianto.


Questo articolo è stato realizzato da THE VISION in collaborazione con Basement Café by Lavazza per la prima stagione delle Masterclass, lo spin off dedicato agli approfondimenti di grandi ospiti provenienti da diversi ambiti che, dal mondo giornalistico a quello editoriale, dalla musica all’attualità, parleranno delle loro passioni. Le Masterclass, della durata di unora, sono completamente gratuite. Per partecipare è sufficiente iscriversi sul sito.

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