Nel 1950 Adriano Olivetti lanciò sul mercato la moderna e innovativa macchina da scrivere Lettera 22, che rispetto ai precedenti modelli era portatile, in plastica colorata, semplice da utilizzare e da portare con sé, ma soprattutto dal costo contenuto. Il progetto dell’imprenditore di Ivrea, infatti, era quello di rendere una simile invenzione alla portata di tutti. Questo traguardo fu ben presto raggiunto e la Lettera 22 entrò nelle case e negli uffici di milioni di italiani, fra cui scrittori e giornalisti come Enzo Biagi, Pier Paolo Pasolini, Alberto Moravia e Oriana Fallaci, diventando – al pari della Vespa Piaggio e della Fiat 600 – simbolo dell’Italia della ripresa economica del dopoguerra e della modernizzazione. Un successo del genere fu reso possibile anche grazie a una comunicazione vincente e innovativa, fondata sul rapporto pubblicità-poesia, curata dal poeta Franco Fortini.
Fortini non fu l’unico letterato a lavorare presso l’Olivetti. L’ingegner Adriano era convinto, infatti, che umanisti e intellettuali potessero non solo innovare forme e linguaggi stantii, ma anche offrire risposte concrete a quella domanda (retorica) pronunciata davanti agli operai di Pozzuoli in occasione dell’apertura della nuova fabbrica: “Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti?“. Attraverso l’integrazione e la cooperazione fra formazione tecnico-scientifica e umanistica, Olivetti dimostrò come fosse possibile un tipo diverso di fabbrica, attenta oltre che al profitto ai diritti, al benessere e alle emozioni del lavoratore, capace di alimentare la “sua fiamma divina” e di essere uno strumento di “elevazione e riscatto”. Fu quindi istituita una politica di selezione del personale che, ai livelli più alti, si basava sul “principio delle terne”: per ogni nuovo lavoratore tecnico che entrava a far parte dell’azienda ne veniva assunto uno di formazione economico-legale e uno di formazione umanistica. Inoltre, nacquero una biblioteca aziendale, aperta nella pausa pranzo, e un centro culturale dove venivano organizzate mostre d’arte e conferenze con poeti, storici, registi, psicologi.
L’umanesimo aziendale di Adriano Olivetti, nonostante i grandi frutti che portò, oggi purtroppo nella maggior parte delle realtà aziendali assume sfumature utopistiche e irreali se teniamo conto della scarsa considerazione nutrita al giorno d’oggi verso la cultura umanistica e del ridotto tasso occupazionale dei laureati in Lettere e in Filosofia. Secondo il Rapporto AlmaLaurea 2021, a cinque anni dal conseguimento del titolo magistrale soltanto il 77,8% dei laureati nel gruppo disciplinare letterario-umanistico ha un’occupazione – contro le percentuali ben più alte di coloro che decidono di impegnarsi nello studio dell’Informatica e delle tecnologie ICT (97,2%), dell’Ingegneria Industriale e dell’Informazione (96,4%) e dell’Economia (91,8%). Questa grande disparità è confermata anche dalle recenti analisi realizzate da Randstad e LinkedIn, per cui le professioni più richieste dalle aziende nel nuovo anno sono connesse alle lauree cosiddette STEM (science, technology, engineering, mathematics) o, al contrario, non necessitano della laurea.
Ai pochi che con una formazione umanistica riescono ad avere un impiego stabile fra i 25-34 anni, tocca però fare i conti con una retribuzione fra le più basse dei diversi gruppi disciplinari, inferiore del -14% rispetto a quella media dei laureati per stessa classe di età: per un lavoro a tempo pieno, il salario percepito in media è poco più di 1.300 euro al mese, molto meno rispetto al salario percepito da un informatico (sui 1837 euro), da un ingegnere (1841 euro) o da un architetto (1587). A quelli a cui va peggio non resta che rivedere al ribasso le proprie iniziali aspettative, adattandosi a svolgere lavori per i quali non ci si è formati, non si è predisposti o per cui, appunto, basterebbe un titolo di studio inferiore. Una situazione, quest’ultima, triste eppure piuttosto frequente: secondo il Report 2021 dell’Osservatorio JobPricing, infatti, il 33,5% dei laureati è “overeducated”, vale a dire eccessivamente qualificato per il lavoro che ricopre. Questa situazione, poi, non ha certo favorito le iscrizioni universitarie: all’attuale anno accademico mancano all’appello circa 10mila matricole; tuttavia, mentre l’area STEM mostra una buona tenuta, con l’aumento di iscritti per Informatica e Ingegneria civile (rispettivamente +161 e +79 rispetto al 2020), il settore letterario-umanistico presenta una rilevante variazione annuale negativa (-214).
Anche la strada dell’insegnamento – spesso considerata come sbocco principale per chi consegue una laurea umanistica – è tutt’altro che in discesa. Il sistema scolastico italiano, infatti, vive da tempo nel completo immobilismo, con un corpo docente che risulta essere il più vecchio del mondo. Come è stato rivelato dal Rapporto Ocse Education at glance 2021, ben il 58% degli insegnanti italiani ha più di cinquant’anni – contro la media Ocse del 33%, e i dati ben più bassi di Malta e Regno Unito, in cui solo il 20% dei docenti è supera i cinquanta – e soltanto il 3% ha meno di trent’anni. I pochi giovani che riescono a entrare nel mondo della scuola hanno spesso, per di più, un contratto precario: vengono utilizzati come tappabuchi, con contratti per supplenze che possono durare anche solo cinque giorni o, quando va bene, un mese, quasi mai più di un anno. Altre volte può andare anche peggio: molti sono i casi di neolaureati che – al fine di racimolare qualche punto in più per scalare la graduatoria e sperare in un futuro impiego nella scuola pubblica – si sono visti costretti ad accettare retribuzioni fittizie da parte di scuole paritarie. Agli ostacoli dell’età media e della precarietà si affianca infatti il problema della retribuzione. Secondo Eurydice, la paga d’ingresso degli insegnanti italiani è compresa fra i 22 e i 29mila euro annui, contro gli oltre 50mila che si registrano in Danimarca, Svizzera, Germania, Lussemburgo e Liechtenstein. Gli stipendi per i docenti sono fermi da un quinquennio e vedono un aumento sostanzioso soltanto dopo i 35 anni di servizio.
Ma se la strada più ‘facile’ da percorrere per chi ha una laurea umanistica sembra essere – nonostante le sopracitate difficoltà – quella dell’insegnamento, questo è dovuto a un’antica diffidenza che il mondo dell’imprenditoria nutre verso questo tipo di saperi. Non è un caso che l’esperienza di Olivetti sia stata la prima e unica in cui si è cercato di superare in ambito aziendale questo dualismo, considerando la cultura umanistica e quella scientifica come due realtà complementari. La società contemporanea ha sostituito alla visione olistica dei saperi una netta differenziazione, tutta a svantaggio delle discipline umanistiche, accusate di essere improduttive. Al pregiudizio sull’inutile studio del passato si è sovrapposta l’incondizionata fiducia nel futuro, e ci si è lasciati trascinare dal ritmo imposto dal capitalismo, assecondandone gli impulsi peggiori e raccogliendone le conseguenze drammatiche in termini di disuguaglianza economica, lavoro e ambiente con cui oggi ci troviamo a fare i conti.
Davanti a un contesto tanto impoverito, il ruolo del sapere umanistico deve essere centrale quanto quello scientifico, non solo perché in grado di rimettere al centro una cultura umanistica capace di far riscoprire il valore della misura, ma anche perché permette una piena realizzazione delle acquisizioni scientifiche, integrandole con valori etici definiti. Al contrario di quello che molti imprenditori ritengono, la cultura umanistica in ambito lavorativo orienta l’interpretazione dei big data e permette di avere una prospettiva più ampia, più libera e creativa, aiutando ad analizzare e a prevedere la realtà, immaginando strade alternative e trovando soluzione a problemi complessi, grazie all’abitudine all’approccio critico e alla visione laterale a cui sono abituati gli umanisti. Se c’è una cosa che la pandemia ci avrebbe dovuto insegnare è proprio che i vecchi paradigmi sono ormai superati. È soltanto attraverso un osmotico rapporto fra la scienza e l’umanismo che è possibile immaginare una società e un’economia veramente evolute. Adriano Olivetti lo aveva capito oltre settant’anni fa, è ora di riscoprire la sua lezione.