Arrivati alla gara di bottoni nucleari, anche i più ottimisti hanno dovuto ammettere che abbiamo un problema. Come hanno scritto Michele Masneri e Andrea Minuz sul Foglio, il populismo è maschio – e non dei più evoluti. Siamo arrivati a una gigantesca resa dei conti tra generi, l’ultimo disperato e sconfortante tentativo di salvare il soffitto di vetro che ci proteggeva dall’assalto delle donne. Lo stiamo sostituendo con mattoni di una virilità stereotipata ed esibita fino al ridicolo: ruspe, missili nucleari, soldati ai confini. Lo stesso arsenale di parole dei leader populisti è preso pari pari dalla cesta dei giochi per bambini degli anni Settanta, rigorosamente divisi tra quelli per maschi e quelli per femmine. Facciamo scontrare i nostri giocattoli l’uno contro l’altro, perché il conflitto è ciò che ci caratterizza in quanto veri uomini. Solo che questa volta non c’è un genitore a dividerci.
L’Italia fascista è stata il modello di un potere che ha provato a ricacciare le donne dentro casa, dopo che queste avevano retto il Paese lavorando negli uffici e nelle fabbriche durante la Prima guerra mondiale, mentre i mariti erano al fronte. Da quel tunnel non siamo mai completamente usciti e in certi momenti, come quello attuale, sembra che tutto lo sforzo fatto per allontanarci da quegli anni stia per essere cancellato. Mussolini a torso nudo che falcia il grano, il regime che nega l’omosessualità perché “in Italia sono tutti maschi”, il culto del corpo maschile e la riduzione della donna ad angelo del focolare. Sono stati tutti strumenti del modello ideologico al testosterone di un regime che ha provato, e in parte è riuscito, a frenare l’emancipazione femminile che tanto spaventava i reduci, tornati in un Paese che spesso dava segno di non avere più bisogno di loro. Quando Steve Bannon dice di essere“affascinato” da Mussolini non ne decanta l’astuzia politica, o la capacità retorica e propagandistica. Altri sono i suoi meriti, secondo l’ideologo rinnegato da Trump: “Mussolini era chiaramente amato dalle donne, era apprezzato dagli uomini. Era così virile. Aveva persino un buon gusto nel vestire, basta pensare a quelle uniformi.”
Si può sorridere delle fantasie erotiche di Bannon, ma la verità è che la retorica dell’uomo forte che piace alle donne è una palla che si raccontano solo i maschi tra di loro. Il Trump di “Grab ‘em by the pussy” è apprezzato dal 54% degli uomini e da un molto più misero 32% di donne. Il populismo di destra è una guerra ingaggiata da maschi che si sentono franare il terreno sotto i piedi, e se la prendono con tutti: lo straniero, “il diverso” e le donne. Non è un caso che abbia la sua base tra gli operai che hanno visto il loro lavoro sparire per colpa dei robot mentre le donne, presenti in percentuali più alte nei lavori di cura e relazione, continuano a portare a casa il salario.
In Italia non ci sono segnali, secondo le indagini di Ipsos, di differenze significative nel voto tra i sessi. Ma i dati ci dicono che dall’inizio della crisi a oggi l’occupazione maschile è passata dal 70,4% al 68%, mentre quella femminile è cresciuta dal 47,3% al 49,7%. La frustrazione dei disoccupati è tra i migliori carburanti per il populismo e quest’Italia di senza lavoro è un’Italia di giovani uomini che, nel segreto delle loro stanze, si chiedono se avranno anche loro, un giorno, una Isoardi che gli stiri le camicie mentre guardano la partita in tv.
Non si tratta solo di Trump, Salvini o Putin – di cui taceremo le cavalcate a torso nudo e i bagni nei laghi ghiacciati. Non si tratta, in genere, solo di populismo: c’è un’enorme questione maschile irrisolta che riguarda il modo con cui chi esercita il potere costruisce la sua autorevolezza, puntando sempre sulla forza, sulla coercizione, mai sull’empatia e la condivisione. Ci piace chi rottama, chi passa con la ruspa, chi sbatte i pugni sul tavolo, chi minaccia; ci piace meno chi cerca mediazioni, chi accoglie e chi si prende cura del prossimo. Apprezziamo il nazionalismo muscolare, l’identità del “noi contro di loro” – chiunque “loro” siano. Ci esaltiamo nel vedere Macron che mette in riga Trump stritolandogli la mano al primo incontro pubblico. Facciamo fatica a immaginare un altro modo di essere uomini di potere che non sia l’incutere timore, il prevaricare, l’umiliare. La rottamazione promessa da Matteo Renzi è stata, da questo punto di vista, un modo di rappresentare il conflitto generazionale caricandolo di testosterone: la bicicletta al posto dell’auto blu, la camicia bianca tirata su fino agli avambracci, lo sberleffo a chi viene prima di te come esibizione di una vitalità che l’età anziana ti ha portato via, come in un romanzo di Philip Roth.
Oggi c’è un’unica grande eccezione a questa narrazione tossica di una mascolinità stereotipata da esibire a ogni occasione: il giovane Justin Treaudau, che piange accogliendo una famiglia siriana, che invece di umiliare chiede scusa, che va in ufficio con il figlio di tre anni. Queste sono tutte esibizioni consapevoli di un’altra gerarchia di valori. Se il Canada, Paese tutto sommato poco rilevante sullo scacchiere internazionale, oggi si guadagna le prime pagine dei giornali è perché il suo Primo ministro mette in scena un altro tipo d’identità maschile e quindi un’immagine del potere che prima di lui aveva incarnato solo Barack Obama.
Oggi in Europa i modelli prevalenti sono di tutt’altro segno e, tragicamente, si avvicinano di più a quelli in voga prima della Seconda guerra mondiale che non agli sforzi portati avanti negli ultimi settant’anni per superare un’idea muscolare della politica. C’è un’immagine di 34 anni fa che mi piacerebbe ricordare. È il 1984, siamo a Verdun, teatro di una delle battaglie più sanguinose tra tedeschi e francesi durante la Prima guerra mondiale. Durante una commemorazione, mentre risuonano le note della Marsigliese, il cancelliere tedesco Helmut Kohl allunga la mano fino a stringere quella del presidente francese François Mitterrand, che terrà per lunghi minuti. Mitterand, salito all’Eliseo con lo slogan “La forza tranquilla”, è pallido in volto: due anni prima gli hanno diagnosticato un cancro alla prostata. Kohl è cancelliere da meno di dodici mesi, ancora non sa di essere l’uomo destinato, sei anni dopo, a riunificare la Germania.
Ma Kohl e Mitterand sono soprattutto, in quel giorno, due uomini potenti e popolari che scrivono la storia di un continente con un gesto intimo ed empatico. La cosa più lontana da quell’esibizione di potenza e arroganza che è diventata la caratteristica dei vertici internazionali ed europei di questi anni. Quanto ci mancano, oggi, presidenti che si sappiano tenere per mano in quel modo.