Nello stesso anno in cui Umberto Eco pubblica Come si fa una tesi di laurea, la zona universitaria di Bologna somiglia più a una trincea che a un luogo in cui si coltiva il sapere. È il 1977: volano le Molotov, un blindato accompagna la polizia per le strade e tra gli studenti caricati dalle forze dell’ordine c’è anche chi perde la vita. Dall’Alma Mater, presso la quale Eco è già docente di Semiotica, si diramano tutti quei movimenti studenteschi e operai che ben presto interesseranno diverse parti d’Italia e che costituiscono, allo stesso tempo, l’occasione per una profonda riflessione sui cambiamenti sociali del Paese.
Già fino agli anni Sessanta, frequentare l’università è un diritto riservato a ben poche persone: solo il ceto medio-alto può permettersi l’investimento necessario all’intero percorso di studi, confermandone il carattere elitario e baronale. A complicare una struttura sostanzialmente antidemocratica, concorre la stessa burocrazia che regola l’accesso alle singola facoltà in base al diploma di scuola superiore. In sostanza, solo chi proviene da un liceo – meglio se classico – può accedere liberamente a ogni facoltà e tutti gli altri tipi di diploma non sono considerati sufficienti per continuare gli studi. Una situazione che di certo non ha le forze per sopravvivere all’onda rivoluzionaria del Sessantotto. Se il coro della nuova generazione di studenti e studentesse urla per le strade “Vogliamo Pensare”, per allontanare il pericolo di ulteriori violenze allo Stato non rimane che concedere una serie di riforme che trasformeranno l’assetto strutturale e ideologico delle università. La legge Codignola del 1969 introduce, infatti, la liberalizzazione degli accessi alle facoltà e ai piani di studio, aprendo le porte a chiunque sia in possesso di diploma, non solo a chi è fresco di studi liceali. Da università d’élite a università di massa il passo è breve: nel giro di soli cinque anni il numero degli studenti aumenta del 45% e alla fine degli anni Settanta gli iscritti arrivano a toccare quasi il milione.
Nel frattempo, Umberto Eco non è rimasto di certo a guardare: sono già molto lucide le riflessioni che l’intellettuale rivolge all’analisi delle trasformazioni dell’Italia alla luce della cosiddetta “cultura di massa”. E alla fine degli anni Settanta, in un momento storico di tensioni, in cui l’università ritorna al centro del dibattito, Eco, coinvolto in prima persona come professore, decide di offrire un aiuto concreto per far fronte a una situazione del tutto nuova che interessa migliaia di giovani.
Come si fa una tesi di laurea potrebbe sembrare a prima vista un saggio accademico normativo, un elenco di regole redazionali utili a rendere felice ogni relatore alle prese con la schiera di studenti in procinto di compiere l’ultimo passo. In teoria è anche questo, ma nella pratica è un vero e proprio manuale di sopravvivenza, un prontuario di ammonimenti, consigli, suggerimenti ed esempi da parte di chi di tesi si intende abbastanza. Il saggio si rivolge a una precisa tipologia di studenti, gli ultimi arrivati nel sistema universitario: chi lavora per mantenersi gli studi, che vive in provincia e che ha bisogno di una laurea per accedere a professioni dignitose; chi non conosce il sistema di funzionamento delle biblioteche e dei prestiti; e, infine, chi si trova a fare i conti con i costi di ogni esame da sostenere, alle prese con aule affollatissime e per cui il docente è solo un personaggio mitico e mistico al quale è impossibile rivolgere parola. Eco non indirizza volutamente il suo saggio a chi proviene da famiglie benestanti, che ha viaggiato per approfondire la sua istruzione o che si è appena diplomato nei migliori licei: studenti con queste caratteristiche, seppure inesperti, avrebbero già tutti gli strumenti culturali necessari per capire come si scrive una tesi di laurea. Ma l’intellettuale parla proprio a quelli che lui stesso definisce “gli altri”, i numerosi giovani ammessi grazie alla legge Codignola, il popolo indistinto che ormai anima la nuova università di massa.
È un’opera molto breve, strutturata in maniera semplice e lineare, un manuale di facile consultazione pronto a calmare ogni eventuale palpitazione generata da ciò che Eco definisce “la nevrosi della tesi”. Il libro si riferisce in primis alle tesi umanistiche, ma, con l’eccezione degli argomenti sperimentali, i concetti analizzati sono facilmente applicabili per ogni campo di studi. Senza dare niente per scontato, l’opera si apre con le nozioni di base, spiegando non solo cosa sia una tesi, ma tracciando anche le differenze generali tra le diverse tipologie. Un primo scoglio da affrontare è la scelta dell’argomento da trattare: considerando che, per Eco, l’intero lavoro deve avere una durata di massimo tre anni e minimo sei mesi, la decisione dovrebbe essere presa con largo anticipo – si suggerisce addirittura alla fine del secondo anno di università, tenendo conto del fatto che nel 1977 non esiste ancora la formula del 3+2. Fermo restando che della tematica scelta bisogna conoscere ogni dettaglio, il consiglio spassionato di Eco è quello di trattare un argomento abbastanza circoscritto, che permetta di parlare davanti a una commissione che probabilmente sarà poco informata a riguardo: questo ci consentirà di non subire un continuo linciaggio intellettuale e uscire dalla discussione il più possibile illesi, se non soddisfatti contenti. Ma ciò che più conta non è tanto la tematica in sé, quanto “l’esperienza del lavoro che essa comporta”.
È attraverso la scelta delle fonti, la ricerca bibliografica e l’organizzazione del piano di lavoro che la tesi diventa un prodotto in cui riversare ed esprimere il proprio carattere: probabilmente la leggerà soltanto il relatore – il che non è scontato – o forse riceverà l’attenzione di qualche studioso, ma l’importante è sentirla propria e condurre l’intero lavoro mossi dalla passione, non dalla costrizione. Per queste ragioni, Eco non parla dall’alto della sua cattedra, elargendo preziose informazioni a chi affolla l’università di massa. L’intellettuale si sveste della toga e si rivolge al suo pubblico da pari, con lo stesso atteggiamento di un amico esperto che vuole aiutare chi si perde tra gli scaffali delle biblioteche in cerca di un’ispirazione, chi scambia la ricerca bibliografica per una caccia al tesoro che sicuro non vincerà e chi annega tra gli infiniti codici delle norme redazionali. Il corpo del saggio, infatti, è costituito da una serie di esempi pratici: come trovare i libri giusti e analizzarli; come strutturare il piano di lavoro prendendo appunti per ogni lettura; come non lasciarsi intimorire dall’utilizzo di colori diversi per sottolineare i testi scelti come fonte. Gli esempi possono sembrare semplici e in apparenza banali, ma oltre a essere utili alla memoria visiva, fanno anche in modo di avvicinare studenti e studentesse alla materia che hanno deciso di trattare e in cui si stanno imbattendo: solo così si può esorcizzare l’ansia del momento, dimostrando come si fa una tesi proprio con la pratica.
Fa sorridere che si dichiari che l’ultimo capitolo sia stato battuto a macchina, dimostrando e applicando visibilmente tutte le infinite norme redazionali, ed effettivamente sono passati più di quaranta anni dall’anno di pubblicazione del saggio. Nel 1977 Eco non prevede ancora la diffusione di internet, né l’utilizzo di strumenti oggi banali come Wikipedia o Google Scholar, ma non per questo dovremmo considerare quest’opera uno scritto datato, bello ma inutile. È superfluo ricordare che scrivere una tesi in passato richiedeva un dispendio di energie maggiore rispetto al presente e che ora la tecnologia è tutta dalla nostra parte. Ma le nozioni che compaiono nel libro non possono essere relegate a quell’era felice in cui l’essere umano non era ancora diventato web-dipendente. Come si fa una tesi di laurea è stato recentemente pubblicato per la prima volta anche in America dalla MIT Press e ha riscosso un generale interesse da parte del mondo accademico e non, semplicemente perché in esso si riscontra un valore universale e atemporale: ogni individuo, per quanto possa essere inesperto, possiede le capacità per compiere un lavoro dignitoso, a patto che glielo si insegni passo per passo. Gli studenti e le studentesse a cui Eco si rivolge sono quelli che fino a pochi anni prima sarebbero stati esclusi a priori dal sistema universitario, costretti di fatto a essere relegati alla loro condizione socio-culturale, senza possibilità di scelta alcuna. In questa prospettiva, oltre che essere un atto di estrema umiltà scientifica da parte dell’autore, quest’opera è l’espressione più tangibile di un profondo principio democratico, per cui se il sapere è un diritto universale, è necessario fornire gli strumenti per conoscere, al fine di accrescere le possibilità di successo di ognuno. Un pensiero simile, che sta alla base dell’intero saggio, è condivisibile in ogni luogo ed epoca storica.
In fin dei conti, non è la tesi in sé a essere importante, ma la disposizione d’animo con cui la si affronta. È necessario lavorare con gusto, divorare ogni lettura animati da un interesse vivo per l’argomento. La scrittura della tesi dovrebbe essere vissuta non tanto come un “rituale senza importanza”, ma piuttosto come un gioco. La ricerca bibliografica diventerà una caccia al tesoro; l’elaborazione delle fonti somiglierà a un enigma da risolvere per trovare risposte a domande che prima non ci saremmo mai posti; la stesura sarà una partita a scacchi perfetta, perché avremo previsto tutte le possibili mosse. Se non c’è nessuna fiamma ad accendersi, se nessuna emozione ci spinge a continuare il lavoro, la tesi diventa solo un peso insostenibile, un documento apatico, sterile e privo di qualsiasi valore culturale, la prova di essere stati già battuti in partenza. E in questi casi, il consiglio spassionato – e illegale – di Eco è: “Fatevela fare, copiatevela, non rovinatevi la vita, non rovinatela a chi dovrà aiutarvi e leggervi”. Ma per tutti gli altri, l’unico rischio – positivo – è quello di attivare il cosiddetto “metabolismo intellettuale”, cioè aver costantemente voglia di ricercare, leggere e documentarsi, approfondire i punti lasciati in sospeso, andare sempre a fondo non accontentandosi mai della superficie. È solo grazie a questa attitudine che ricorderemo ogni sforzo col sorriso e che magari ritorneremo a sfogliarla di tanto in tanto con la stesso sguardo nostalgico di chi pensa al suo primo amore: bello e difficile da dimenticare.