
C’è una condizione dell’esistenza significante. In cui l’esistere – il pulsare, inalando ed espirando aria dentro e fuori di noi, attivando tutte quelle che sono le nostre funzioni fisiologiche, dal metabolismo cellulare al pensiero astratto, passando per la coltivazione delle nostre colonie di batteri, fino all’inconscio e alla fenomenologia delle nostre emozioni – più ancora del “vivere”, assume peso, densità, significato. Ovvero si tinge di uno spettro di sfumature di senso, che per noi umani si traduce in quelle più o meno segrete corrispondenze di cui parlava Goethe ne Le affinità elettive. È una condizione che può avere a che fare con tutti i sensi, dall’immagine, al tatto, passando per l’udito, e che spesso si mescola in maniera sinestetica, intrecciando input sensibili, neurologici, che compiono salti carpiati, traduzioni infinitesime, da una cellula all’altra, trasformandosi in cognizione.

La condizione dell’esistenza significante è un’epifania, un momento – più o meno dilatato nel tempo; anzi, che deforma in un certo senso il qui ed ora, lasciandoci intuire le infinite stratificazioni della percezione – in cui si acuisce il sentire. Succede in alcune parentesi di grazia della nostra vita, a volte è facilitato da alcuni tipi di amore, o dall’arte. Sono quegli istanti in cui siamo consapevoli che ci sia dell’altro oltre a ciò che percepiamo, e al come lo percepiamo, che il cuore inizi a battere più forte, o che il sangue si ritiri dalle nostre estremità, che le nostre guance cambino colore, che qualcuno ci stia guardando con intenzione da lontano, che l’esperienza si sovrapponga al di là di anni a un dejà-vu, a un sogno, che un certo stimolo ci faccia venire improvvisamente la pelle d’oca. Sono istanti in cui tutto è vero e allo stesso tempo falso. Crinali di Schroedinger, in cui l’ampiezza del possibile si mostra. È il disvelarsi di stimolo ed effetto, quello che la meditazione ci insegna a osservare minuziosamente. Il senso di profonda liberazione che proviamo quando ci rendiamo conto che il reale non esiste, perché non può essere che intimo, soggettivo, eppure miracolosamente condiviso.


È quello che si prova percorrendo le quinte dell’allestimento di Typologien, un’estesa indagine sulla fotografia tedesca del Novecento, curata da Susanne Pfeffer, storica dell’arte e direttrice del Museo di arte moderna di Francoforte, l’MMK. Visitabile fino al 14 luglio, il progetto applica il principio formale della “tipologia” per stabilire analogie inaspettate tra artisti tedeschi di diverse generazioni, diversi approcci alla fotografia, ma anche per indagare determinati aspetti dell’umano, come l’architettura, il rapporto con le altre specie animali e vegetali, con il design e la produzione di oggetti, con la pubblicità e la propaganda, l’abitare, la morte, la politica, il paesaggio, il sapere e l’arte stessa. Per certi aspetti, la messa a terra di questa ricerca sembra dialogare con un’altra grande opera che attinge a piene mani da questo principio formale, il documentario di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, Bestiari, Erbari, Lapidari – proiettato non a caso al Cinema Godard di Fondazione questo autunno.
Il percorso espositivo segue un ordine tipologico – non cronologico – che sistema nello spazio più di seicento opere fotografiche realizzate da venticinque artisti tedeschi, e che emoziona fin dal primo colpo d’occhio, con le sequenze di dettagli vegetali di Karl Blossfeldt (maestro della macro), le aspidiaceae arricciate in spirali logaritmiche perfette, le cui definizioni botaniche si fanno immediatamente poesia – Fronda giovane e ancora arricciata – e le cui forme, oscillano tra geometria ed eros, fino all’architettura utopica delle punte di equiseto, che ricordano le architetture di vetro di un altro grande tedesco suo contemporaneo, Paul Scheerbart, capace di considerare il vetro in maniera edonistica e astrale, di mescolare linguaggi e sensazioni estetiche, natura e tecnica, in maniera del tutto visionaria, nel vero senso della parola, capace, secondo Walter Benjamin, “di mettere a confronto la realtà terrestre con le strane leggi naturali degli altri mondi, tra i quali si trova tanto più a suo agio”. Così stupisce, come ogni volta, e non stupisce al tempo stesso, vedere le opere di Sigmar Polke, altro visionario, che perfettamente si incastrano alle precedenti come il tassello di un puzzle. E così appaiono le palme di diversi materiali, che dettano le fogge di queste riproduzioni artificiali dell’iconica forma arborea: palma di metro pieghevole, palma di pane, palma di palloncini gonfiabili, palma di bottoni, palma di cotone, palma di guanto, palma di bicchieri, Polke come palma; fino ad arrivare a opere che proiettano significati umani su forme organiche, “La defogliazione di un albero”, effetti umani sull’ambiente, “L’albero che è cresciuto cavo a causa mia”, e poi “La correzione delle linee della mano”, come se giocosamente, ma anche disperatamente, potessimo riscrivere il nostro destino, correggere la nostra vita, operare effettivamente sui noi stessi, sui segni che ci danno forma e ci intrappolano come profezie immutabili.

Tutta la mostra si sviluppa proprio sul valore e sulla potenza del segno impresso dalla visione umana, prima in termini di composizione dell’immagine e dello spazio. Il dettaglio vegetale, che potrebbe essere rubato a una sfilata di moda o a un organo umano per quanto è decontestualizzato, si fa erbario, poi campo, coltura, dalla pianta di campo, spontanea, invasiva, agli ortaggi nel loro campo, e quindi col loro piccolo intorno, l’orto, e l’affacciarsi del progetto, che è già architettura. Basta una capanna d’altronde, anche un cancello è architettura, un recinto, una forma che delimita lo spazio e crea un ambiente. Un’azione in un certo senso violenta, un appropriarsi, anche se per proteggere. L’orto poi si fa zoo, con le immagini di Candida Höfer. Lo zoo come orto, l’architettura come gabbia. Gli animali appaiono all’interno di architetture costruite per loro, che spesso non imitano nemmeno la natura. Gli animali vengono incorniciati da un’estetica umana, come spuntassero da un libro di Richard Scarry, eppure non sono illustrazioni per bambini, ma la realtà, nata dall’idea di qualcuno, che non ha lasciato nulla al caso, in maniera grottesca. Appaiono così elefanti inseriti in box di cemento minimalisti, giraffe che deambulano all’interno di una sorta di castelluccio steineriano, per il nostro intrattenimento.
Da lì si passa agli zoo per esseri umani: i musei, ironico dato di fatto, dato che siamo immersi a nostra volta in una mostra. Vediamo opere che mostrano persone che come noi stanno guardando opere. E speculari le biblioteche: templi del sapere possibile. Girato l’angolo, un altro caposaldo della storia della fotografia, le serie di Bernd e Hilla Becher, e anche qui nei dettagli tecnologici riemerge l’idea della macchina come corpo, fatto di tendini e ossa e serbatoi e motori – come una sorta di Castello errante di Howl ante litteram – e poi le torri dell’acqua e il social housing tedesco, l’archetipo della casa, riprodotta in serie, al massimo dell’efficienza, la forma che si fa diritto all’abitare. E che pure viene stravolta dalle serie di inizio anni Ottanta (quindi a muro non ancora caduto) di Sibylle Bergemann: una tipica stanza di casa berlinese che continua a cambiare connotati spaziali a seconda degli arredi e della loro disposizione. Non è chiaro se siano tante case diverse o sempre la stessa. A fare da trait-d’union tra le torri dell’acqua e questi spazi sono i luoghi di transito immortalati in Armenia da Ursula Schulz-Dornburg nel 2000, ovvero le pensiline dei bus in mezzo al nulla, spesso con donne e bambini che aspettano, per andarsene o per tornare, anche qui è forte il ricordo di Miyazaki, in questo caso Totoro. Queste figure in attesa del futuro – ma senza fretta, pronte a resistere allo stillicidio del tempo – appaiono come un’apparizione, protette di volta in volta da piccoli e grandi templi dello spostamento, le pensiline degli autobus. E poi ci sono le persone in ascensore, racchiuse nell’architettura che si fa mezzo di spostamento minimale, eppure simbolo del futuro, ritratte da Heinrich Riebesehl alla fine degli anni Sessanta. E le persone invece che se ne vanno in giro per le strade di Düsseldorf di Thomas Struth. Sfuocate, a volte a fuoco, a volte insieme, a volte sole, in movimento, improvvisamente parte di qualcosa, di un’inquadratura ritagliata intorno alla loro sagoma, al loro modo di camminare.

E poi il concorde in volo, che ricorda una foglia di gingko, o la coda di una balena, all’inizio della sequenza non lo si distingue da un uccello inquadrato insieme all’altro estremo dell’immagine, solo che il primo ha il carburante. E la tecnica audio mostrata attraverso la pubblicità, si torna al dettaglio, lo stesso che troviamo negli oggetti perfettamente organizzati e impilati dei supermercati, la riproduzione dell’opulenza che si fa ordinata ma insignificante, indistinta. Da qui in poi si fa strada l’oggetto, e l’oggetto assume tinte di morte, il cadavere in fondo è il trasformarsi in cosa dell’umano, le tinte si fanno drammatiche. La morte fa capolino. A volte occupa spudoratamente la scena. Pfeffer dopo averci presi per mano, averci fatto correre in mezzo ai filari di tulipani, nascosto in orti segreti, averci accompagnato a osservare le tigri in gabbia allo zoo di Berlino, e averci fatto vedere opere indimenticabili al Louvre, ci allontana dal centro, ci strattona, ci porta a vedere l’innominabile, ci invita a fare i conti col dolore, come in una camera ardente, ci chiede di stare fermi a osservare, a convivere con l’orrore del mondo e della storia, che è anche poi quella del presente, dell’umano, la sua maledizione. È impossibile non essere interessati alle storie dei volti, dalle pose che i loro corpi assumono nello spazio, dai loro sguardi che, per quello strano miracolo che ogni tanto sa compiere la fotografia, come la luce delle stelle ci perforano a distanza di un secolo e più di distanza, intatti, lucidi, trasparenti. E lo stesso vale per l’espressione degli animali, per le splendide mucche di Ursula Böhmer (che non a caso vediamo ritratta proprio sulla copertina del catalogo della mostra). Ma anche degli uccelli e dei cani. In tutta la loro commovente presenza. E ancora le foto d’archivio dei campi di concentramento, madri e padri che stringono i loro bambini, vivi (ancora, forse per poco), e morti (e dunque che senso ha continuare a vivere), e pure il fantasma della vita, ancora vibrante, nei corpi di due giovani ragazzi, un maschio e una femmina, immacolati, impiccati. Le cataste di cadaveri. E poi la pace delle montagne, di Sils Maria in diverse stagioni.

Non capita spesso di fare un viaggio senza spostarsi dalla città, non capita spesso di fare un lungo viaggio in poco più di un’ora. Eppure è ciò che accade con le mostre di Fondazione Prada, è ciò che accade all’interno di questo dedalo di pareti sospese che suggeriscono spartizioni e connessioni di senso, input visivi, mentre sotto alle immagini il visitatore scorge i piedi e le gambe degli altri sguardi presenti, come se i piedi ci legassero a un sostrato terreno, e le menti a un’altra dimensione, a volte impossibile da vedere, imperscrutabile, eppure attiva. Come afferma la curatrice: “Solo attraverso l’accostamento e il confronto diretto è possibile scoprire cos’è individuale e cos’è universale, normativo o reale. Le differenze attestano la ricchezza della natura e dell’immaginazione umana: la felce, la mucca, l’essere umano, l’orecchio, la fermata dell’autobus, il serbatoio dell’acqua, l’impianto stereo, il museo. Il confronto tipologico lascia emergere differenze e somiglianze e coglie le specificità. Aspetti finora sconosciuti o ignorati della natura, degli animali o degli oggetti, dei luoghi e del tempo diventano visibili e riconoscibili”.

Typologien allora si pone come il gradino precedente, in termini espositivi, a Diagrams, a Venezia, a Ca’ Corner della Regina. Al pari del diagramma anche la fotografia, e la tipologia in particolar modo, appare come un concetto non solo complesso e stratificato, ma estremamente problematico, che opera in una condizione paradossale, da un lato la documentazione sistematica basata sulla tensione verso la più rigorosa oggettività, dall’altro la scelta individuale e – inutile negarlo – arbitraria, proprio perché portatrice di una discontinuità nel continuum dell’esistere. L’avvicendarsi di immagini e il generarsi di percorsi semantici nell’osservatore ci mostra come l’organizzazione e la classificazione della pluralità delle manifestazioni del visibile rimanga una forza enorme, incontenibile e sovversiva, capace di mettersi in discussione nel suo stesso prodursi, sfuggendo – grazie allo sguardo di alcuni occhi sapienti – alla dittatura che ormai ci governa sempre di più. Si tratta dunque di sviluppare un’ecologia dell’immagine, e un’igiene della stessa. Come sottolinea Pfeffer: “La qualità unica, l’elemento individuale sembrano confluire in una massa globale, nell’onnipresente universalità delle cose. Internet consente di creare tipologie nell’arco di pochi secondi. È proprio il momento chiave, per gli artisti, di osservare questi fenomeni più da vicino. Quando il presente sembra aver abbandonato il futuro, bisogna osservare il passato con maggiore attenzione. Quando tutto sembra gridare e diventare sempre più brutale, è fondamentale prendersi una pausa e usare il silenzio per vedere e pensare con più chiarezza. Quando le differenze non sono più percepite come qualcosa di altro, ma vengono trasformate in elementi di divisione, è necessario riconoscere ciò che abbiamo in comune. Le tipologie ci permettono di individuare innegabili somiglianze e sottili differenze”.

Sia Dio che il Diavolo si nascondono nei dettagli a quanto pare. Nel dettaglio la separazione dall’impasto del mondo della forma individuata e individuale si attenua per farsi qualcosa d’altro; il dettaglio, dal francese “détailler”, derivato di “tailler”, rimanda proprio al tagliare, spezzare, dividere; riporta quindi l’insieme a una condizione di frammento, che pure ci rimanda una fitta rete di proiezioni di possibili ricomposizioni, come una sorta di segnali trasmittenti continui, che ci stimolano a tentare di ritrovare una complementarietà. Il dettaglio, restringendo il campo e separandosi dall’insieme, dal suo intorno, però, al tempo stesso ci confonde, e in questo glitch è facile perdersi, confondersi a nostra volta. Il cervello umano, d’altronde, deve poter sempre dare priorità all’insieme per essere rapido ed efficace. Eppure ci sono anche i cervelli degli artisti – e di tante altre persone che magari, per mancanza di privilegio, artiste non lo sono diventate, si sono limitate e si limitano a soffrire per la loro diversità, perché il loro ambiente non le ha sapute inquadrare, non sa che farsene, non sa dar loro significato. Queste persone possono osservare il mondo con occhi diversi, e in quei dettagli – proprio là dove ci si rischia di perdere, e si rischia di incontrare Dio o il Diavolo – ci sprofondano, per poi trovare il coraggio di riportarci, di restituirci ciò che loro hanno visto.
