
Classificare il mondo, ordinarlo, dare un nome alle cose, o almeno provarci è un esercizio profondamente antropologico, che attraversa la storia del pensiero umano in ogni spazio e in ogni tempo. Nominare, categorizzare, catalogare infatti significa sottrarre un oggetto o un fenomeno all’indistinto e restituirlo al dominio del pensiero, della cultura, del simbolico. Non a caso l’antropologo Claude Lévi-Strauss scriveva che “classificare le cose è un modo di umanizzarle”, perché ci permette di fare una cosa tanto semplice quanto essenziale per la nostra vita, cioè ordinare il mondo per renderlo comprensibile, tracciando confini semantici, creando opposizioni e stabilendo relazioni tra gli elementi. Sottraendo, soprattutto, ciò con cui interagiamo e con cui ci confrontiamo alla complessità del reale, per dargli un senso. Non si tratta solo di comporre un inventario dell’esistente, per quanto infinito e probabilmente irrealizzabile possa apparire questo compito, ma di una modalità per attribuire significato a ciò che ci circonda, inserendolo in una rete di relazioni che rispecchia anche la nostra storia, la nostra cultura, la nostra identità. È un gesto ambivalente: ha a che fare con la scoperta, ma anche con il controllo, perché permette di orientare lo sguardo altrui decidendo come il sapere debba essere visto, nominato, interpretato. Si tratta di poter scegliere cosa conta e in che modo, cosa no, cosa esiste e cosa viene escluso. Anche la fotografia è stata ed è ancora oggi spesso utilizzata con lo scopo di registrare informazioni: in medicina, criminologia o astronomia, per esempio, un’immagine è la prova che qualcosa è accaduto, ma è anche un mezzo di confronto. Nelle mani di diversi artisti, la macchina fotografica si è fatta così strumento per testimoniare e classificare tipi di soggetti – persone, edifici, oggetti, e così via – raccogliendo evidenze affinché potessero essere visionate e valutate nelle loro similarità e differenze. È su questo solco che si muove la mostra Typologien: Photography in 20th-century Germany, visitabile nella sede milanese di Fondazione Prada fino al 14 luglio 2025.


Con oltre 600 fotografie realizzate dal 1906 agli anni Duemila da circa venticinque autori la cui pratica è accomunata dalla volontà di classificare la realtà attraverso un criterio sistematico e seriale, Typologien è un’estesa indagine dedicata alla fotografia tedesca del Novecento, che si propone di applicare al progetto espositivo proprio il concetto di “tipologia”. Una tipologia è un insieme di immagini realizzate con un soggetto o un’idea comune, ripetuti all’interno della serie. Può includere, per esempio, fotografare ogni porta con il numero 1 nel civico all’interno di ogni quartiere o ogni alimento importato dall’Africa e presente sugli scaffali di un supermercato. Esiste un numero inconcepibile di approcci per creare una serie tipologica. In questo senso, la fotografia come metodo sistematico di classificazione si colloca in un territorio di confine tra la scienza, l’arte e la dimensione archivistica e nel tempo ha finito per assumere un ruolo più complesso, trasformandosi in un mezzo per esplorare criticamente e con sguardo estetico il mondo contemporaneo, mettendo in discussione tanto la realtà quanto le modalità con cui esso viene rappresentato. Lungi dall’essere neutrale, infatti, la tipologia diventa dispositivo critico, che mette in discussione le forme del vedere e del sapere: non ha solo una funzione di divulgazione ma anche di messa in discussione, perché fotografare significa prima di tutto scegliere cosa conservare e quindi porre davanti all’obiettivo, cosa lasciare fuori. Nella sua declinazione tipologica, poi, acquista valore nella capacità di attivare una lettura comparativa, guidando il nostro sguardo verso somiglianze e differenze. “Solo attraverso l’accostamento e il confronto diretto è possibile scoprire cos’è individuale e cos’è universale, normativo o reale. Aspetti finora sconosciuti o ignorati della natura, degli animali o degli oggetti, dei luoghi e del tempo diventano visibili e riconoscibili”, racconta Susanne Pfeffer, storica dell’arte, direttrice del Museum für Moderne Kunst di Francoforte e curatrice della mostra in Fondazione Prada.


Derivato dagli studi botanici del Seicento e Settecento, il principio di tipologia venne applicato alla fotografia a partire dal Novecento, quando in pieno positivismo scientifico il mezzo si fece strumento di conoscenza e controllo, emancipandosi però mano a mano dalla sola funzione scientifica per assumere un valore documentario e sociale. Dopo un vasto e rigoroso compendio vegetale creato da Karl Blossfeldt, che si era ispirato all’approccio sistematico della classificazione botanica, fu inizialmente August Sander a introdurre una dimensione democratica del vedere: nel suo progetto “Uomini del XX secolo” ogni individuo, ripreso con la stessa dignità formale, partecipa a un mosaico umano che ambisce a rappresentare l’intera Germania. È un atlante della società tedesca attraverso ritratti sistematici e neutri, suddivisi in categorie socio-professionali: contadini, artigiani, nazisti, prigionieri politici, le persone che si sono presentate alla sua porta, tutte segnate dalla situazione economica dell’epoca. La sua tipologia è tanto classificatoria quanto umanistica, ed ebbe un’influenza importante su Bernd e Hilla Becher, che rappresentano la svolta concettuale della fotografia tipologica. A partire dagli anni ‘60, i due coniugi realizzano varie serie di strutture dismesse fotografate con luce diffusa, inquadratura frontale e sfondo neutro. Le loro griglie seriali trasformano l’oggetto industriale in forma pura, in tipologia architettonica, studiando al contempo la complessa relazione tra forma e funzione. La coppia definiva i propri soggetti come “edifici in cui l’anonimato è accettato come stile” e il loro intento era quello di registrare un paesaggio in trasformazione, destinato a scomparire sotto i loro occhi. Le tipologie, dunque, non si limitavano a documentare un preciso momento storico, ma spingevano chi guardava anche a interrogarsi sul ruolo e sul significato che quei soggetti avevano all’interno del mondo. La loro pratica ispirerà profondamente la Scuola di Düsseldorf, che nel tempo amplierà la tipologia verso nuove tematiche, dallo spazio pubblico all’immagine digitale. La Germania svolse infatti un ruolo rilevante nello sviluppo della fotografia, sia attraverso la creazione di nuove tecnologie sia per l’attenzione allo studio del medium e al suo insegnamento.



Torri d’acqua, altiforni, silos, facciate di abitazioni, piante, animali, abiti, scarpe, persone in ascensore, persone per strada, biblioteche, lavoratori, famiglie, città desolate, felci, mucche, orecchie, fermate dell’autobus, impianti stereo, musei si alternano negli spazi del Podium, stabilendo analogie e rimandi inaspettati tra artisti tedeschi di diverse generazioni, rivelando al contempo i singoli e specifici approcci alla fotografia. Essendo il principio tipologico uno strumento applicabile anche a intersezioni meno comuni dell’esistenza, la mostra presenta anche delle variazioni più inaspettate, come il ciclo di Hans Peter Feldmann, dedicato alle vittime dei movimenti politici dissidenti della Germania del dopoguerra, tra il 1967 e il 1993, o quello di Marianne Wex sulle posture del corpo, che si disvelano così non più come una predisposizione “naturale” o genetica, ma come il risultato di secoli di strutture sociali e culturali.



Indagando il Novecento tedesco, non poteva mancare in Typologien una riflessione sulla voragine che più di ogni altra ha segnato non solo lo scorso secolo, ma la storia recente tutta, la nostra resistenza e la caducità dei nostri valori democratici: l’Olocausto. Come afferma il pittore tedesco Gerhard Richter, presente nell’esposizione con il suo progetto Atlas, in cui include anche immagini della Shoah come prova documentaria del riconoscimento delle atrocità e della violenza del regime nazista, se si è testimoni di un orrore, non si può dire di esserne estranei. Una riflessione che ci invita alla responsabilità collettiva e storica riguardo alla memoria e alla conoscenza degli eventi traumatici in corso, e che richiama quanto la scrittrice Susan Sontag scriveva nel saggio Davanti al dolore degli altri, “Ogni ricordo è individuale, irriproducibile, e muore insieme all’individuo. Quella che si definisce memoria collettiva non è affatto il risultato di un ricordo ma di un patto, per cui ci si accorda su ciò che è importante e su come sono andate le cose, utilizzando le fotografie per fissare gli eventi nella nostra mente”.


Oggi, che viviamo una fase in cui tutti comunichiamo per immagini e, in larga misura, siamo oggetto di documentazione e analisi attraverso le tecnologie di videocontrollo, esplorare la fotografia tipologica potrebbe apparire quantomeno anacronistico. L’inserimento di una semplice parola su un motore di ricerca può infatti produrne un esempio molto rudimentale e poco pensato. Eppure, proprio in questi tempi veloci e dalla concentrazione quasi nulla, le fotografie ci spingono ad avere un’attenzione lenta e concentrata sui dettagli, per sviluppare riflessioni quasi analogiche. Da strumento scientifico a linguaggio artistico, da catalogo visivo a griglia curatoriale, il principio tipologico ha infatti attraversato epoche e discipline, mantenendo intatta la sua tensione verso l’ordine e il confronto. La sua forza sta nel rendere visibile il sistema, nel trasformare la ripetizione in differenza, e nel restituire al reale una forma interrogabile. In un mondo ipervisivo, continua a offrirci una lente per comprendere, e talvolta mettere in discussione, l’ordine delle cose. Soprattutto, ci accompagna in quell’utopia che, dall’inizio della storia umana, ha sempre costituito parte della tensione del nostro agire, e sempre lo costituirà: riuscire a raccogliere, catalogare e rappresentare la conoscenza tutta, dell’intero universo, mentre ci sfugge tra le mani perché troppo grande, troppo immensa, per noi che in fondo siamo così tanto piccoli.
