Discutere con un troll non è argomentare, è essere bullizzati. Dobbiamo poterci difendere.
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Fare attivismo e divulgazione online è un terreno minato, specie se appartieni a una categoria marginalizzata: gli attacchi sessisti, grassofobici, razzisti e/o omobitransfobici, come sappiamo, sono all’ordine del giorno. Ma a rendere difficile la vita di chi si espone sul web non sono soltanto i prevedibili insulti, relativamente semplici da filtrare e bloccare. A questo quadro desolante, infatti, si aggiunge un’altra piaga particolarmente velenosa: la cosiddetta “weaponizzazione” – ovvero lo sfruttamento, in mala fede e a scopo offensivo, del concetto di confronto, con l’obiettivo di sfiancare l’interlocutore e invalidarne le argomentazioni.

Questa pratica nei paesi anglofoni viene chiamata sealioning, ed è un fenomeno ben noto quanto subdolo, non certo esclusivo delle interazioni online, ma che ha trovato terreno fertile, oltre che una definizione, proprio in rete. Il termine, che letteralmente significa  “fare il leone marino”, nasce da un fumetto del 2014 e ha preso piede non a caso durante il famigerato Gamergate, la campagna di molestie online ai danni di alcune sviluppatrici che avevano introdotto il discorso femminista nel mondo dei videogiochi. La tavola, e la stessa scelta del nome sealioning, sono state criticate per la loro ambiguità (la dinamica mostrata nel fumetto, chiaramente surreale e estremizzata per scopi comici, rischia di confondere i ruoli di “vittima” e “carnefice”), ma le caratteristiche di questa tecnica di trolling sono evidenti e chiaramente definite.

Come spiega l’antropologa del Berkman Klein Center dell’Università di Harvard Amy Johnson, si tratta di una “performance di ingenuità oppositiva e consapevole”, che combina domande insistenti, spesso relative a informazioni facilmente reperibili altrove o già condivise più volte dall’interlocutore, con la ricerca ostinata e molesta di instaurare un dibattito “costruttivo” a prescindere dalla volontà di parteciparvi di chi si ha di fronte. L’obiettivo è drenare la pazienza e l’attenzione del bersaglio, facendolo poi passare per irragionevole e non aperto al dialogo. Il “leone marino”, in altre parole, si serve di domande all’apparenza innocenti e poste in maniera educata – come ad esempio “Potresti chiarire cosa intendi?”, o “Mi forniresti le prove di questa tua affermazione?”, o ancora (e questa arriva dritta dai miei dm) “Mi spiegheresti in modo per quanto possibile dettagliato che cos’è il patriarcato?” – per far perdere tempo e energie alla controparte, deviare la conversazione sul carattere di chi la conduce piuttosto che sugli argomenti e poi autoproclamarsi vincitore del presunto confronto. Un copione che si ripete sempre uguale, per intenderci, sotto i post dei profili social di tanti attivisti, specie se donne con l’ardire di definirsi femministe, o magari vegetariane o vegane.

Stabilendo le regole d’ingaggio a priori, senza riguardo per l’interlocutore e sulla base di preesistenti squilibri di potere, il sealioning sfocia facilmente anche in altre tecniche di manipolazione retorica altrettanto striscianti. Tra queste rientrano il tone policing – ovvero il tentativo di spostare l’attenzione dai temi ai toni del dibattito per minare la credibilità della controparte e invalidarne l’esperienza – e il gaslighting, la strategia di far dubitare in malafede l’interlocutore della sua stessa percezione delle cose. Tornando al sealioning, poi, risulta essere un’evidente forma di molestia, nella misura in cui invade con insistenza lo spazio, seppur virtuale, di un’altra persona, sommergendola di domande anche e soprattutto quando questa non intende rispondere.

La pretesa che l’interlocutore sia a disposizione, plasmata dalle aspettative riguardo al comportamento e il ruolo sociale dei gruppi marginalizzati, è particolarmente rivelatrice: il “leone marino”, infatti, rivendica spesso una visione del mondo reazionaria. Non è un caso, d’altronde, che il sealioning venga spesso associato al Gish Gallop, una tecnica manipolatoria che prende il nome dal famoso creazionista Duane Gish. L’idea alla base di questa strategia retorica, utilizzata con successo dal biochimico americano durante i dibattiti sull’evoluzionismo degli anni Ottanta e Novanta, è quella di seppelire l’avversario sotto una montagna di presunte “prove” e affermazioni apparentemente ragionevoli, per poi sostenere che l’impossibilità della controparte di rispondere a ogni singola obiezione dimostri la bontà della propria posizione. Questa tecnica spesso funziona perché è molto più facile e veloce fare un’affermazione falsa che smentirla e una volta instillato il dubbio la conversazione rischia di non tornare più sui binari originari.

Queste dinamiche, che possiamo definire a tutti gli effetti trolling, tornano utili soprattutto a chi, trovandosi di fronte a una realtà che nega la propria visione del mondo, si rifiuta di accettarne la legittimità e perfino l’esistenza. Dall’evoluzione della specie al patriarcato, qualunque evidenza può così essere negata ergendo le proprie opinioni, frutto di palese disinformazione e/o riflesso di interessi personali, a contributi teorici di pari ammissibilità all’interno del discorso pubblico, soltanto perché espressi con morbosa tenacia, vittimismo e stucchevole affettazione. Nella più classica delle dinamiche abusanti, il “leone marino” pretende infatti di essere ascoltato anche se le sue prese di posizione svalutano l’esperienza della realtà dell’interlocutore, facendole passare per argomentazioni logiche e super partes. Prese di posizione sessiste e razziste, in questo scenario, diventano legittime interpretazioni del mondo, e decidere di non sottostare più a regole del gioco evidentemente truccate finisce per rappresentare in qualche modo una vittoria morale per l’oppressore. Dovrebbe essere palese come tutto ciò sia quanto di più lontano dal potersi definire un dibattito costruttivo, quando non un ricatto che non dimostra altro che la malafede di chi lo porta avanti e lo inscena.

Isolarlo e riconoscerlo è importante per almeno tre motivi: innanzitutto, come dicevamo, il sealioning rappresenta uno spreco di energie, che vengono potenzialmente sottratte alla pratica socialmente utile dell’attivismo e che sarebbe meglio indirizzare in maniera più costruttiva. Costituisce poi una forma di molestia, con conseguenze dirette sulla vita delle persone. Ma soprattutto, come spiega sempre Johnson, avvelena e danneggia i processi di apprendimento informale tipici delle interazioni online. La persona vittima di sealioning diventa sospettosa di ogni futura interazione: nella sua pratica divulgativa tenderà quindi a focalizzarsi su una comunicazione di massa e a ignorare anche le richieste di confronto in buona fede per tutelarsi. Chi era sinceramente interessato a imparare avrà perciò meno opportunità di farlo attraverso uno scambio realmente costruttivo. Ciò costituisce una perdita significativa per uno spazio di crescita e creazione di valore quale possono essere le comunità online, in cui appunto l’apprendimento informale colma lacune e unisce puntini a vantaggio della più ampia comunità offline.

Non rispondere a chi “fa il leone marino” resta comunque un buon punto di partenza – oltre che una strategia sensata per preservare il proprio benessere psicoemotivo – ma, finché non sarà chiara la sua natura manipolatoria, sottrarsi al ricatto non basterà a contrastare del tutto gli effetti più ampi sul dibattito pubblico. Smascherare queste pratiche oppressive all’apparenza innocue è fondamentale per costruire una cultura del confronto che sia davvero costruttiva, libera dall’urgenza della prevaricazione e attenta alla dimensione del consenso. La creazione di uno spazio sicuro, dove il sea lion di turno viene immediatamente riconosciuto ed eventualmente indirizzato verso altri lidi in cui sfogarsi (Johnson cita ad esempio gli AMA di Reddit) e/o risorse a cui attingere senza disturbare (come suggerisce tra le altre cose Everyday Feminism), favorirebbe un maggiore coinvolgimento nel discorso online sui temi di giustizia sociale di quelle categorie che più hanno da offrire e che, allo stesso tempo, sono maggiormente soggette agli attacchi dei troll. In questo senso, possiamo dire che proprio chi ha a cuore la salute del dibattito pubblico dovrebbe prendere le distanze da pratiche che nulla aggiungono – e anzi tolgono – all’esercizio della libertà di espressione e del confronto.

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