Per un uomo abituato a girare per il mondo per scoprirlo e raccontarlo, la morte probabilmente rappresenta un altro viaggio. Ci si prepara come quando si riempie una valigia, ma stavolta è più leggera, perché serve poco da portarsi dietro: tutto il necessario è nella testa. Tiziano Terzani, tra i più importanti giornalisti e scrittori italiani del dopoguerra, decise di intraprendere quest’ultima partenza ritrovando le sue radici a Orsigna, tra le montagne toscane. Raccontò al figlio Folco e ai suoi lettori la malattia e l’avvicinarsi della fine associandola a un nuovo inizio. Di fronte al senso di smarrimento interiore e ai timori di chi gli stava accanto, scrisse: “Finirai per trovarla la via, se prima hai il coraggio di perderti”. E nel corso della vita Terzani quel coraggio l’ha trovato parecchie volte.
Nei primi anni Sessanta il giovane Terzani, appena laureato alla Normale di Pisa, iniziò a lavorare per l’Olivetti, dove rimase per cinque anni come manager. Una scelta all’apparenza distante dal suo stile di vita e dalla sua avversione alla logica del commercio sfrenato, funzionale al profitto. Ma come lui stesso ha spiegato all’Olivetti le cose non andavano in questo modo: “[Il profitto] era funzionale a qualcos’altro, un qualcosa che Adriano Olivetti chiamava ‘comunità’, che attraverso l’azienda cresceva in cultura, in comunicazione, in senso di fratellanza; era cioè un progetto culturale e sociale”. Il lavoro all’Olivetti gli aprì le porte del viaggio e della scoperta: fu mandato dapprima in giro per l’Europa, poi in Africa e in Asia, dove nacque la sua infatuazione per l’Oriente. Iniziò a collaborare per le prime riviste, realizzando reportage dai luoghi visitati. Dopo un soggiorno americano, grazie a una prestigiosa borsa di studio, tornò in Italia con le idee chiare: la vita del manager gli stava stretta, voleva fare il giornalista, vedere il mondo con i suoi occhi e raccontarlo.
Lasciò il lavoro all’Olivetti e iniziò a collaborare con Il Giorno. Non riuscì però a convincere la direzione del quotidiano milanese a mandarlo come inviato in Oriente – la sua grande ambizione, che ormai premeva come una necessità. Riuscì allora a trovare lavoro come freelance nel Sud-est asiatico con la rivista tedesca Der Spiegel, e la sua vita cambiò. Realizzò reportage in Cambogia e in Vietnam, raccontò la guerra e la quotidianità di popolazioni lontane, seguì il corso della Storia unendosi all’esasperazione delle persone prima e alle liberazioni poi, scrivendo diari di guerra con uno stile letterario alto ed essenziale. Agli articoli si aggiunsero i libri, le collaborazioni con le principali testate italiane e internazionali, per poi raggiungere, all’alba degli anni Ottanta, il sogno di trasferirsi in Cina, a Pechino. Erano gli anni del post-Mao, Time e Newsweek premevano per diventare i primi magazine occidentali ad avere corrispondenti in Cina, ma alla fine il primo giornalista a varcare quei confini fu proprio Terzani.
Furono anni difficili. Terzani vide un Paese snaturato, si accorse del fallimento del progetto maoista, soffrì per i templi trasformati in fabbriche e per il crollo di quella magia che si era sempre aspettato, e che non aveva trovato. Le autorità cinesi iniziarono a infastidirsi per i suoi scritti, che criticavano il governo, e iniziarono a pressarlo. Inizialmente gli assegnarono un cuoco e un autista, ma Terzani si accorse che erano spie mandate per sorvegliarlo. E quando poi riuscì a entrare in Tibet, per incontrare il Dalai Lama al Potala, il suo nome finì nella lista dei nemici della Cina. Nel 1984 venne arrestato con l’accusa di attività controrivoluzionaria, in quanto personaggio scomodo, e fu espulso dal Paese.
Terzani continuò a girare l’Asia, trasferendosi a Hong Kong, a Tokyo e, a metà anni Novanta, in India con la sua famiglia. Visitò anche la Corea del Nord, e ne dipinse un ritratto non molto diverso dalla realtà attuale. La associò all’incubo della società totalitaria di George Orwell, con i bambini che “non vanno semplicemente a scuola: ci marciano” e la gente che più che lavorare lotta per la perdizione. Descrisse le biblioteche come il cimitero di migliaia di volumi scritti dalla stessa persona e controllati parola per parola. “Per quasi trent’anni i nordcoreani sono vissuti come in una cella d’isolamento, completamente tagliati fuori dal resto del mondo di cui non sanno assolutamente nulla”. Raccontò la dissoluzione dell’Urss, la fine del sogno sovietico e le sue conseguenze. I suoi scritti non temevano l’avversione del potere: la penna di Terzani era libera anche di cambiare idea, come avvenuto con il maoismo in Cina. Negli ultimi anni della sua vita, colpito da un tumore all’intestino, raccontò la sua esperienza con la malattia nel libro Un altro giro di giostra, un viaggio per il mondo alla ricerca di una cura, e allo stesso tempo di quella pace interiore che troverà poi nella sua residenza tra le montagne toscane, a Orsigna.
Tornato in Italia, Terzani continuò a schierarsi contro le guerre, appoggiando le battaglie di Gino Strada e rispondendo con una lettera alla “rabbia e all’orgoglio” di Oriana Fallaci, in seguito agli attentati dell’11 settembre. La demonizzazione dell’Islam di Fallaci si contrapponeva a un discorso più ampio di Terzani, che condannando il terrorismo, invitava però a non cadere nell’intolleranza, nella generalizzazione e nell’odio totale verso una religione che contava quasi 2 miliardi di fedeli nel mondo. Si congedò da Fallaci con la frase: “Guarda un filo d’erba e sentiti come lui. Ti passerà anche la rabbia. Ti saluto, Oriana, e ti auguro di tutto cuore di trovare pace. Perché se quella non è dentro di noi non sarà mai da nessuna parte”.
Lo scontro con Fallaci mise in luce una visione di Terzani più ampia sul mondo. Scrisse: “Purtroppo, oggi, sul palcoscenico del mondo noi occidentali siamo i soli protagonisti e i soli spettatori, e così, attraverso le nostre televisioni e i nostri giornali, non ascoltiamo che le nostre ragioni, non proviamo che il nostro dolore. Il mondo degli altri non viene mai rappresentato”. Oggi, nel 2021, le cose non sono cambiate. Di fronte a una pandemia, gli occidentali fanno la corsa alla terza dose del vaccino mentre nei Paesi più poveri ci sono percentuali di vaccinazione sotto il 2%, e le promesse dei grandi Stati di consegnare dosi in quantità sono state tradite. È il soliloquio del capitalismo, la cecità di chi non vede oltre il proprio recinto, e già Terzani ci aveva avvertito con decenni d’anticipo.
Affrontò anche il tema del potere, quello che corrompe e fagocita, anche e soprattutto nel suo lavoro. “Ho fatto questo mio mestiere proprio come una missione religiosa, se vuoi, non cedendo a trappole facili” – le vicinanze pericolose ai politici di turno, ai candidati che promettono anteprime ai giornalisti in cambio di parole d’elogio. “Ho sempre avuto questo senso di orgoglio che io al potere gli stavo di faccia, lo guardavo, e lo mandavo a fanculo. Aprivo la porta, ci mettevo il piede, entravo dentro, ma quando ero nella sua stanza, invece di compiacerlo controllavo che cosa non andava, facevo le domande. Questo è il giornalismo”.
L’ultimo periodo della sua vita è raccontato nel libro postumo La fine è il mio inizio, pubblicato grazie al lavoro del figlio Folco, così come nel film omonimo con protagonisti Bruno Ganz ed Elio Germano. Qui emerge l’essenza di Terzani, l’equilibrio di un uomo alla fine dei suoi giorni, “Sempre più convinto che è un’illusione tipicamente occidentale che il tempo è diritto e che si va avanti, che c’è progresso. Non c’è. Il tempo non è direzionale, non va avanti, sempre avanti. Si ripete, gira intorno a sé. Il tempo è circolare. Lo vedi anche nei fatti, nella banalità dei fatti, nelle guerre che si ripetono”.
È doveroso ricordare la figura di Terzani, anche se negli anni qualcuno ha tentato di infangare la sua memoria. Nel 2019 la giunta leghista di Udine cercò di affossare il festival a lui dedicato, Vicino/Lontano, considerandolo “roba da comunisti”. Il manifesto dell’evento aveva come intenti “bruciare le distanze e avvicinare i mondi, comparare le diversità dei discorsi, siano essi economici o filosofici, sociali o esistenziali”, mentre gli assessori comunali parlavano di “festival come espressione di un pensiero unico, globalista, mondialista”. La vedova Angela Staude Terzani replicò parlando di un “segno di disprezzo”. Ma non ci si stupisce che i leghisti non riescano a comprendere il pensiero di Terzani, sarebbe stato curioso il contrario.
Il percorso durato per tutto l’arco della vita, seguendo quella circolarità che si differenzia dall’immagine di una semplice linea retta, è un inno per i posteri, come gli ultimi insegnamenti al figlio, che salutò dicendogli: “E ricordati, io ci sarò. Ci sarò nell’aria. Allora ogni tanto, se mi vuoi parlare, mettiti da una parte, chiudi gli occhi e cercami. Ci si parla. Ma non nel linguaggio delle parole. Nel silenzio”.