
Il pregiudizio di credere di essere qualcuno, ovvero degli individui, singoli, soggettivi e separati dal mondo, definiti da alcune caratteristiche immutabili che ci identificano, ci porta a numerosi fraintendimenti della realtà e del modo in cui ne facciamo esperienza, ovvero quel meccanismo preverbale che a ben vedere è la nostra vera essenza di enti percettivi. L’illusione di essere dei soggetti, che pure ci è molto utile per funzionare in maniera efficace, almeno a un certo livello della nostra vita, ci impedisce di riconoscere una certa rete che ci collega, pensieri condivisi, immaginari, sogni collettivi, inconscio diffuso, fenomeni che si potrebbero dire “telepatici”, comprensione rizomatica. Un sostrato insomma che ci renderebbe, se solo lo riconoscessimo – o lo riscoprissimo –, molto simili ad altre specie, come per esempio i funghi, o alcuni alberi. Questo è probabilmente il primo metodo che abbiamo a disposizione per capire in prima persona cosa intendono i ricercatori quando parlano di fine dell’antropocene e ci invitano a riconoscere l’interconnessione di tutti gli esseri viventi, e quindi aprono il dominio dell’esistenza a un campo più aperto di quello dell’individuo appunto.

La fisica quantistica è un sistema di relazioni in cui tutti siamo coinvolti, è questo il legante principale che tiene insieme l’ultimo progetto site-specific dell’artista, regista e filosofa tedesca Hito Steyerl, The Island, allestito negli spazi dell’Osservatorio, di Fondazione Prada, a Milano, fino al 30 ottobre 2026. L’esperienza di altri possibili mondi che facciano collassare il nostro sembra accomunare gli autori di fantascienza – altro tema fondante della mostra incarnato dallo scrittore Darko R. Suvin, tra i principali teorici del genere – così come, secondo lo storico statunitense Richard Rhodes, la vita di alcuni di quelli che poi divennero tra i più grandi scienziati del Novecento, se con questo intendiamo persone che hanno scoperto meccanismi in grado di cambiare a loro volta la realtà in cui viviamo – è stato così quantomeno con l’energia nucleare. Il trauma, la spaccatura che fende il presente percepito, si fa porta oltre cui immaginare altro, che a volte significa scoprire, andare oltre, illuminare fenomeni misteriosi, oscuri, fino a prima invisibili, a volte queste porte si socchiudono sulla stessa visione, sulla stessa dimensione, è un fenomeno raro, incredibile, ma può accadere. Assomiglia alla magia. Non a caso secondo la teoria antropologica di Ernesto De Martino la magia è una specifica istituzione culturale che nasce da una crisi esistenziale per difendere la “presenza” umana, garantendo la sicurezza di fronte agli eventi traumatici della vita.


“Viviamo già in una piramide leibniziana fondata su TikTok e fatta di mondi incompatibili. Un multiverso artificiale è la realtà della nostra era multipolare. L’obiettivo è trovare le armoniche superiori dei diversi mondi per cercare di tessere un insieme composito o una composizione,” dichiara Steyerl, definendo così il suo obiettivo. Dare forma all’informe, orientarsi in qualche modo, rivolgersi, comprendere come usare le tecnologie che abbiamo tra le mani, a che scopo, anche per evitare di esserne usati. In questo scenario assume un ruolo fondamentale la deriva autoritaria di un certo uso dell’AI, il controllo monopolizzato dell’intelligenza artificiale, la chiusura del copyright, e al tempo stesso la facile produzione e sovrappopolazione di immagini, come una sorta di carcinoma estetico, immagini volte appunto alla propaganda dell’ideologia di estrema destra. “Ne risulta un’estetica automatizzata, memificata, del genere Midjourney,” dichiara l’artista, “Si potrebbe chiamare ‘stile Musk-olini’, una sorta di reinterpretazione trasgressiva e ironica dello stile fascista alla maniera dei Brainrot italiani, che di per sé richiamano in maniera ironica il genere dell’aeropittura futurista”.

The Island mette in scena tutto questo attraverso un montaggio che assomiglia a un incontro fortuito fra cultura pop, tecnologia, scienza, musica e fisica delle particelle. C’è persino Bombardiro Crocodilo, cameo inatteso in un ecosistema narrativo costruito con la stessa logica dei social. E poi c’è Flash Gordon, riportato in vita non come eroe pulp ma come influencer dalmata, impegnato a documentare la recente scoperta di un’isola artificiale neolitica nelle acque di Curzola. Una storia che sembra uscita da un feed di TikTok, e invece è reale. Qui Steyerl fa un gesto sottile: accosta questo ritrovamento archeologico – rigoroso, complesso, verificabile – alle derive kitsch delle narrazioni fantasy storiciste che oggi proliferano nelle destre culturali. I reperti neolitici recuperati dagli archeosub dell’Università di Zara, trasformati dall’artista tramite effetti sonori quantici, si oppongono simbolicamente ai tour delle location di Game of Thrones a Dubrovnik. Da una parte, l’archeologia come pratica che ricuce il legame col passato attraverso le prove. Dall’altra, il fantasy come macchina di semplificazione identitaria. Due modi diversi di creare mondi: uno che apre e approfondisce, l’altro che chiude, tratteggia, prolifica espandendosi in superficie.


Il lavoro di Hito Steyerl non offre soluzioni, crea un quadro di relazioni, proprio come la fisica quantistica, ricordandoci che la nostra identità è sempre – e forse oggi più che mai – il risultato di un insieme di relazioni invisibili: algoritmi, memorie collettive, fenomeni quantici, miti pop, tecnologie, ricordi, traumi condivisi, eredità culturali, tradizioni, visioni. Quando l’identità si cristallizza, ovvero quando la vita, un flusso mutevole e continuo, viene imprigionata in forme rigide e fisse, non più solo le maschere sociali ma le maschere social che ormai siamo obbligati a indossare se vogliamo avere uno spazio digitale, una presenza virtuale, l’individuo non solo si crede qualcuno ma si scinde ancora più profondamente tra la sua immagine interiore e quella esterna, che dà in pasto a un pubblico più o meno ampio, immaginato (la folla AI generata di corpi intrecciati e deformi che Flash Gordon cerca di fendere per inseguire se stesso, una sua sorta di doppio). Così ci si sente estranei anche a se stessi, sempre più costretti a inscenare una recita inautentica, per resistere alla dissociazione, per paura di frantumarci, di dissolverci, quando invece sarebbe probabilmente l’unico rimedio possibile a questa crisi esistenziale che la nostra società sta attraversando.

Sono passati secoli, millenni, ma non siamo ancora disposti a riconoscere il fatto che non esiste un’identità unica, stabile, coerente, una forma, ma molteplici, coesistenti e contradditorie. L’angoscia che questo ci genera è troppo grande. Il punto allora verso cui la fisica quantistica e The Island ci invitano a guardare è di smettere di credere di essere “qualcuno”, “qualcosa”, e iniziare a riconoscere che siamo una trama rizomatica, una coscienza diffusa, se solo avessimo il coraggio di ampliare la nostra percezione, una vibrazione in un sistema più vasto, proprio come un’armonia musicale, un nodo momentaneo di un racconto che non ci appartiene del tutto, ma che possiamo contribuire a tracciare.