Nel famoso film di Ettore Scola del 1970, Dramma della gelosia (tutti i particolari in cronaca), Monica Vitti, una fioraia del Verano, Marcello Mastroianni, un muratore disgraziato e Giancarlo Giannini, un pizzaiolo toscano, mettono in scena un classico della commedia all’italiana: un triangolo amoroso che finisce, come suggerisce il titolo stesso, in una tragedia sanguinolenta. Adelaide e Oreste, interpretati da Vitti e Mastroianni, si innamorano alle giostre e iniziano una relazione che ha come sfondo case popolari, anelli di fidanzamento fatti con i calamari fritti e manifestazioni operaie – “Adelaide, domenica prossima vota comunista!”. Nello, il personaggio di Giannini, caro amico e compagno di lotta di Oreste, si intromette tra i due e riesce a diventare l’amante di Adelaide, seguendo uno dei più classici schemi amorosi che porterà i protagonisti all’esasperazione, per poi sfociare nella follia omicida.
Sono passati cinquant’anni dall’uscita di questo film, ma la pellicola non ha perso nulla della sua verve tragicomica né della sua bellezza, per il semplice motivo che parla di cose vere. Non importa che tu sia una fioraia o un pizzaiolo, una dottoressa o uno scrittore, davanti al dramma della gelosia, alla tragedia dei sentimenti o alla gioia dell’innamoramento siamo tutti uguali. Il punto, semmai, è quanto possiamo rendere chiari ed espliciti questi elementi fondanti del nostro essere affinché il racconto della realtà più universale che esista non solo sia onesto, ma diventi anche uno specchio per renderci conto di quanti errori e storture ci siano nelle nostre relazioni.
Se fino a qualche decennio fa i grandi temi della narrazione popolare dal teatro e dalla letteratura si erano spostati a un cinema che sapeva veicolarli con qualità, nel 2020 ormai sono principalmente i reality a metterci davanti a quello specchio ricco di riflessi mostruosi, contraddittori, spesso repellenti ma veri, comuni e immortali che volenti o nolenti ci rappresentano. Temptation Island, roccaforte del trash televisivo made in Mediaset, sembra essere l’unico luogo rimasto in Italia a dare spazio a tematiche che una volta rappresentavano una delle caratteristiche fondanti della commedia all’italiana.
Questo programma ottiene sempre e comunque un enorme successo di ascolti, senza rinunciare – o forse proprio grazie – all’utilizzo di stilemi televisivi ben codificati che appartengono a una tradizione apertamente trash, come appare chiaro anche solo osservando il set in stile pellicola vanziniana del genere Selvaggi. Questa forma nazionalpopolare ha due conseguenze sul modo in cui il programma viene recepito dagli ascoltatori: da un lato diventa un prodotto di fruizione estremamente semplice, dal momento che risulta strutturato su un piano comunicativo di comprensione immediata; dall’altro questa sua patina emotivo-voyeuristica – la solita pornografia dei sentimenti di tanta tv – genera una forma di repulsione per chi, anche a causa di decenni di egemonia culturale – o meglio, sottoculturale – berlusconiana, non riesce più a tollerare questa forma di intrattenimento. Temptation Island crea dunque un bivio che ci può portare a riflettere sullo stato impigrito della televisione italiana, in termini di innovazione e cura – contenutistica e formale – che si è instaurato da quando ha vinto la strategia de “l’importante è che si venda”, ma non solo.
Temptation Island è palesemente un tripudio di volgarità, un’ode al sentimentalismo elementare, all’istinto becero ed esibizionista di coppie che decidono di “mettersi in gioco” per “affrontare questo percorso” – due espressioni cardine della trasmissione ripetute allo sfinimento – che scelgono la strada dello spettacolo dozzinale per risolvere problemi molto intimi e personali. La trasmissione di Maria De Filippi – regina di questi format che, proprio per quello più audace, sceglie di non apparire in prima persona – è una somma di tutto il peggio che ci si può aspettare dal trash: fidanzate e fidanzati sull’orlo di una rottura che – come in Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto, per citare un’altra commedia all’italiana che parla di sentimenti primordiali – decidono di affrontare le sorti della loro relazione facendosi chiudere per ventun giorni su un’isola in cui tentatori e tentatrici belli, giovani e istruiti a dovere nell’arte della seduzione dovranno mettere alla prova la loro fedeltà, fare da spalla su cui piangere o da semplice divertissement. Una tortura bella e buona, se vista con lo sguardo borghese di chi i panni sporchi preferisce lavarli in famiglia, un’occasione televisiva succulenta e stracolma di spunti narrativi per chi di mestiere crea tronisti e simili. Eppure, superato lo scoglio che di certo non argina il mare della volgarità tardo-berlusconiana in stile festino isolano fatta di tatuaggi, sintassi approssimata, sederi abbronzati e gente che parla di sé in terza persona, c’è una sostanza che non possiamo ignorare. La trasmissione segue infatti un racconto artefatto, condizionato e indotto, certo, ma allo stesso tempo inevitabilmente sincero e spaesante per chi lo vive – perché è vero che ci sono gli autori, ma è anche vero che in una full immersion del genere a un certo punto si perde la cognizione della telecamera, che mette in scena per noi dinamiche tossiche, archetipiche e rivelatorie dei rapporti di coppia.
Nella stagione che è appena andata in onda e che prevedeva la presenza sia di Nip (Not Important Person) che di Vip, per esempio, ci sono state alcune storie particolarmente turbolente che hanno fatto molto discutere, una su tutte quella dell’ex valletta Antonella Elia, non estranea alla dimensione del reality, ma per la prima volta in scena con un compagno, l’attore Pietro Delle Piane. Nella loro trama sono venuti a galla non pochi esempi di disfunzionalità, nonché di pregiudizi e dinamiche in cui molti, ma soprattutto molte, si possono riconoscere. L’attore, più giovane di Elia, ha infatti più volte fatto riferimento sia alla “data di scadenza” della compagna, sia alla convinzione – a dir poco discutibile – per cui una donna senza figli non si possa dire realizzata, perché non ha lasciato nessun segno sul pianeta Terra, e quindi fondamentalmente non serve a nulla. Un bel quadretto di tossicità che ha fatto sperare tutti in una rottura – dal momento che lui ha anche avuto diversi contatti fisici con le tentatrici, nonostante le telecamere – ma che si è risolto con il più classico dei ritorni: con Antonella Elia che lo giustifica, specificando che non è come sembra, che è un brava persona, che ha straparlato. Nel frattempo, però, un uomo di quaranta e passa anni parla della sua compagna come di un distributore di figli che, superata la data di scadenza, perde qualsiasi utilità sociale.
Elia e Delle Piane non sono stati gli unici a mettere in scena un ritratto di relazioni impregnate di abitudini e convinzioni tanto obsolete quanto deleterie. Ciavy e Valeria, per esempio, durante il falò di confronto, hanno dato un bell’assaggio di ciò che significa un rapporto patologico in cui l’uomo tiene in casa la sua donna perché se la fa uscire “poi guarda che cosa combina”. Una ragazza di ventisette anni viene quindi travolta dalla furia del suo compagno trentacinquenne al punto di dover far intervenire il presentatore, mentre lui le vomita addosso ciò che oggi su internet si chiama slutshaming, ma che alla fine non è che la quintessenza di quella cultura patriarcale per cui la donna non è nient’altro che un oggetto da possedere e dominare e che, in sostanza, se è padrona delle sue abitudini sessuali allora è una facile. Anche le donne, dal canto loro, non sono immuni all’attuare comportamenti deviati. Ne è un esempio il caso di Anna, fidanzata di diversi anni più grande di Andrea, ragazzo giovane e facoltoso che vive nel cliché della vittima della gold digger. Lei gli dice infatti: “A cosa serve che mi vai a prendere le bambine a scuola se non mi compri la fedina di diamanti?”. Da un lato quindi il padrone della serva, dall’altro il materialismo più infimo e desolante, dall’altro ancora la donna adulta che si sente inutile per una società che la vede come scaduta, dall’altro poi la “cornuta” che perdona tutto, o la “poco di buono” che ha commesso il peccato imperdonabile del tradimento, coprendo di vergogna il compagno agli occhi del paese.
Tutte queste sono storie comuni, anzi comunissime, ma non per questo banali o prive di significato, e se anche solo una ragazza – che non si è mai confrontata con qualcuno che potesse farle capire che un uomo che le dice “Tu stai a casa altrimenti fuori chissà che combini” non è amore ma abuso – guardandole cambia idea sulla sua relazione, è comunque una conquista sociale. E se anche chi vive questo tipo di relazione guardandolo in una trasmissione tv non apre gli occhi e continua a prendere per giusti e normali determinati atteggiamenti, resta comunque un gigantesco promemoria per chi magari si è convinto che certi problemi non esistano più e che certe dinamiche siano ormai estinte. Non è così.
La questione non è tanto decretare se Temptation Island sia o meno una trasmissione valida, dal momento che – anche se per quanto riguarda la forma manifesta dei connotati decisamente pacchiani e volutamente di cattivo gusto – riesce comunque a portare sotto i riflettori, e quindi allo sguardo del grande pubblico, degli spaccati di realtà che altrimenti non sembrerebbero trovare spazio. Il punto, al massimo, è chiedersi per quanto tempo ancora dovremmo accettare che questa sia l’unica alternativa al racconto di determinate tematiche, al tempo stesso in grado di essere universale, comprensibile a tutti, e divertente. Un livello di analisi e contestualizzazione delle storie più profondo, però, non guasterebbe, anche per aiutare a smascherare meccanismi di relazione dannosi, che spesso tendono a essere giustificati, considerati innocui o irreversibili, o magari semplicemente non vengono riconosciuti da chi li vive.
In Dramma della gelosia, Adelaide e Oreste fanno un picnic su una spiaggia ricoperta di plastica, una discarica a cielo aperto, un’isola di trash – non come quello di Temptation Island, ma comunque spazzatura – che sembra volerci dire che i sentimenti umani sono spesso pieni di rifiuti, così come la televisione a cui ci siamo abituati; allo stesso tempo, però, nell’immondizia c’è verità, e anche se ha un aspetto repellente non vuol dire che non sia legittimata a esistere. Se la televisione e più in generale la cultura nostrani riuscissero come hanno fatto i registi della commedia all’italiana a non liquidare con snobismo certi temi, né a utilizzarli solo nella loro declinazione più becera e volgare, sarebbe una grande conquista per tutti, e sotto diversi punti di vista. Altrimenti dovremo continuare ad accontentarci di Temptation Island.