Elvis Presley, prima dei Beatles, di Michael Jackson o di qualsiasi altro fenomeno culturale che ha cambiato la storia del pop, è stato quello che per primo ha capito l’intersezione tra musica e immagine. O sarebbe meglio dire, più che Elvis, il suo agente, il “Colonnello” Tom Parker, è stato colui che ne ha intuito l’enorme potenziale in un mondo che cominciava a definirsi attraverso i mezzi di comunicazione di massa. Presley, oltre che un ritmo, un sound, un timbro vocale e uno stile perfettamente riconoscibile per la sua commistione inedita tra country e blues, è anche un’icona, nel senso più etimologico del termine: la sua immagine è sacra. Gli abiti che ha indossato, la pettinatura, il modo di muoversi, e tutto ciò che compone l’iconografia del re del rock sono parte integrante del mito che ha creato e che, probabilmente, non si estinguerà mai. Tra le varie intuizioni di marketing che ha avuto Il Colonnello, ce n’è una molto curiosa: oltre a vendere il merchandising ai suoi fan, Elvis lo vendeva anche ai suoi haters, o come li avremmo definiti negli anni Cinquanta, prima che internet sdoganasse questo termine, i suoi detrattori. Una spilla in vendita con su scritto “I Hate Elvis”, infatti, è forse l’oggetto che meglio racchiude l’essenza del vecchio detto There’s no such things as bad publicity.
Oltre al fatto di provenire dal mondo della musica country, Elvis Presley e Taylor Swift condividono diversi punti in comune, uno su tutti quello di essere delle colonne portanti dell’industria musicale americana, e di conseguenza occidentale. Ma c’è un altro filo che lega due personaggi che diventano così famosi dall’essere conosciuti praticamente da tutti, l’odio. Un sentimento che, in modo complementare all’affetto spinto fino al fanatismo ossessivo delle comunità di persone che supportano gli artisti, ciò che oggi definiremmo il fandom, esiste e diventa parte della narrazione e dell’identità di chi ha un pubblico così vasto da non essere quantificabile. Nel caso di Taylor Swift, e del suo Eras Tour, grande al punto di essere definito spesso un evento che “smuove le economie”, o almeno così viene raccontato da quando è in corso, il sentimento di rifiuto e critica che accompagna il consenso e l’adorazione è particolarmente interessante. E lo è per diverse ragioni: sia perché si struttura su più livelli – musicali, estetici, culturali – ma anche perché è diventato un vero e proprio elemento di racconto all’interno della sua già piuttosto lunga carriera.
Il motivo per cui il successo di Taylor Swift, specialmente in Italia, è più complesso da comprendere rispetto a quello di suoi colleghi e colleghe molto famosi ma con un impatto non altrettanto mastodontico, è che la sua musica va di pari passo con un percorso di crescita e di evoluzione del personaggio molto stratificato che se non si conosce nel dettaglio appare piuttosto fumoso. Potremmo dire infatti che quella di Taylor Swift non è solo una saga discografica ma anche cinematografica o letteraria: non è un caso che il suo tour si chiami Eras Tour e che si basi su un’esibizione di oltre tre ore, impostata sulle varie fasi che ha attraversato la sua carriera, o come sarebbe meglio definirle, le sue “ere”. Più di un semplice best of o di un tour celebrativo di un passato ormai tramontato, il senso di questa divisione in epoche per auto-raccontarsi crea una continuità narrativa degna di una serie televisiva. Se poi le ere, non geologiche né storiche ma taylorogiche, corrispondono anche a fasi della sua vita pubblica e privata, alle sue storie sentimentali e alla sua esistenza da giovane donna americana, il racconto diventa un vero e proprio kolossal cucito addosso al suo personaggio. In questa rappresentazione tridimensionale, fatta di abiti, stili diversi, atmosfere, generi, testi, musiche, coreografie e incursioni sul palco del suo attuale fidanzato, un’opera d’arte totale degna di Wagner, anche l’odio ha un ruolo importante.
Facendo un passo indietro di quindici anni, un tempo piuttosto lungo per il mercato musicale, quando Swift aveva solo vent’anni ma era già diventata un idolo del pop femminile, passando dal country a uno stile più cantautorale classico, c’è un episodio che segna uno spartiacque per la sua carriera già più che decollata. Agli MTV Video Music Awards del 2009, Kanye West irrompe sul palco mentre Swift sta ritirando il premio per il miglior video femminile, dando vita non solo a un meme – quello che cita la sua frase “Imma let you finish” – ma anche a una faida che, nel bene e nel male, ridefinisce la sua immagine. Per Kanye, infatti, il premio non spetta a lei ma a Beyoncé, e nel pubblico cominciano a sollevarsi fischi e urla che non è chiaro se siano rivolti al gesto violento del rapper o alla giovane cantante della porta accanto, ancora pienamente ancorata all’estetica della ragazza perbene, con lunghi boccoli biondi e un abito da principessa. Al di là del momento rimasto nella storia della cultura pop americana, il racconto della faida tra i due personaggi coinvolti si protrae per anni. Non solo in termini di tweet e frecciatine – Kim Kardashian, allora moglie di West, scrisse che Taylor era una serpe – ma anche di produzione musicale: “I made that bitch famous” canta Kanye in Famous, e nel video dorme con una copia fedele della cantante senza vestiti. Mentre nel pezzo Look what you made me do, che segna il grande ritorno di una Swift cambiata, più cinica e spietata, più adulta e più sexy, ci sono serpenti ovunque, proprio quelli usati nella metafora per descriverla qualche tempo prima. Da un lato, dunque, il conflitto che la rende vittima di un sopruso pubblico e plateale, dall’altro l’abile utilizzo della stessa narrazione in chiave di rinascita e rivalsa sul passato.
“Haters gonna hate”, cantava sempre Taylor nel 2014, pochi anni prima del suo album reputation, quello in cui è presente Look what you made me do, nonché la frase “I’m sorry, but the old Taylor can’t come to the phone right now. Why? Oh, ‘cause she’s dead”, facendo chiaro riferimento al fatto di essersi lasciata alle spalle l’immagine di ragazza perfetta. Una ragazza che, oltre all’odio di un rapper molto importante, colleziona anche una serie di copertine e di scandali legati alla sua vita sentimentale, a detta di molti troppo variegata. Troppi fidanzati, tutti famosi, troppe canzoni che raccontano la fine di queste storie: un altro appiglio di odio, o di biasimo, viene proprio dalla sua stessa forza, ossia i sentimenti e le emozioni che racconta nella sua musica. Ma anche questo, in un certo senso, ha un valore funzionale nella grande narrazione della sua vita. Taylor, per quanto bella, bianca, ricca, famosa, talentuosa, riesce a includere nel suo immaginario e nella sua estetica anche una serie di elementi di somiglianza e vicinanza al suo pubblico fatto perlopiù di ragazze, diciamo così, normali. È sfortunata in amore, non è così brava a ballare, non fa mistero delle sue crisi depressive, che in alcuni momenti le hanno fatto credere di dover mollare, racconta il rapporto complicato con il cibo e con la percezione che ha del suo corpo, proprio come tantissime persone che la seguono e che vedono in lei più che una divinità, come poteva essere Madonna, un’amica. E a differenza di molte altre pop star, Swift mette in atto un processo di riappropriazione e di rinascita che non ha solo un valore metaforico ma anche letterale. Oggi proprietaria indiscussa della sua musica – tema controverso per quanto riguarda molte artiste che non possono definirsi tali –, ha registrato di nuovo tutti i suoi album del passato dopo non essere riuscita ad acquistare i diritti dei master, in un’operazione di ripubblicazione chiamata Taylor’s version. Da una posizione di svantaggio, quella di subordinazione rispetto alla proprietà della sua arte, la cantante tira fuori un racconto di rivincita materialista: la musica è sua e se la gestisce lei.
Ma tra le critiche più recenti che si muovono a questa artista di fama mondiale, alcune riguardano un altro aspetto decisamente estraneo alla sua produzione musicale o alla sua vita sentimentale. Se infatti da un lato esiste una schiera di persone, famose o non, che si esprimono in modo critico rispetto alle sue doti compositive, ritenute superficiali, poco originali, ripetitive – discorso che in larga parte lascia il tempo che trova, nel momento in cui quella stessa musica e i suoi testi raccolgono un seguito così enorme, forse proprio per la loro semplicità e immediatezza, come spesso succede nella musica pop – c’è anche un altro tema in ballo che è difficile da ignorare in questo momento storico, o come direbbe lei, in questa era. Taylor Swift, per quanto possa esprimersi a favore di valori progressisti, come ha cominciato a fare negli ultimi anni dopo anni di silenzio, è custode di un immaginario statunitense se non conservatore, di sicuro nemmeno rivoluzionario. Non solo per il suo aspetto fisico, che non può essere considerato un elemento secondario per un’artista così legata all’immagine, conforme ai canoni classici di bellezza, proprio quei canoni che anche nel mainstream cominciano a subire colpi. Pur potendo incarnare per sempre la ragazza della porta accanto, è una donna miliardaria e molto potente. Il suo utilizzo del jet privato per distanze ridicole, per quanto sia diventato ormai più un meme che un discorso serio sul privilegio, una parola che nel dibattito del presente ha perso il suo valore essendo applicato spesso a casaccio per qualsiasi cosa, è in realtà il sintomo di un atteggiamento che, nell’ottica di un futuro più egualitario, soprattutto in termini di ecologia, ha senso di essere criticato.
Se da un grande potere derivano grandi responsabilità, come diceva lo zio di Peter Parker, è altrettanto vero che da una grande fama e da un grande seguito derivano anche critiche e odio. Tra braccialetti dell’amicizia, organizzazioni militari per accamparsi fuori dagli stadi, biglietti che arrivano a costare migliaia di euro e altre follie pittoresche che accompagnano l’arrivo di Taylor Swift in una città, è evidente che ridurre la carriera di questa cantante a un mero fenomeno adolescenziale è fuorviante. C’è qualcosa in lei che ha reso possibile una crescita così esponenziale, ed è molto probabile che tra le cause di questa esplosione mondiale ci sia il fatto che abbia saputo utilizzare così bene non solo le narrazioni a suo favore, ma anche, e soprattutto, quelle a suo sfavore. Taylor Swift, in sostanza, catalizza su di sé attenzioni di ogni tipo: uomini incapaci di accettare l’idea di un successo femminile così esorbitante, musicisti che, anche con cognizione di causa, mettono in discussione la sua musica, persone che la odiano perché è la ragazza della porta accanto, un cliché vecchio e piatto, e quelli che la odiano perché finge di essere la ragazza della porta accanto, nonostante non lo sia più. Piuttosto che una spilletta con scritto I Hate Taylor, nel grande racconto di questa artista, frammentato e stratificato, ci vorrebbero centinaia di spille diverse che spiegano a quale filone di odio si appartiene, quello musicale, quello ecologista, quello misogino, quello snob, quello repubblicano, quello democratico. Resta comunque il fatto che, a guadagnare da quelle spillette, sarebbe comunque Taylor Swift.