Molto meno rumoroso dei teppisti violenti che hanno rotto vetrine e attaccato la polizia e molto meno folkloristico dei tanti gruppi di negazionisti, il popolo dei lavoratori dello spettacolo, della cultura, del cinema e della musica è sceso in campo, in piazza e sui social, per manifestare la sua disperazione. Non sembra rilevante agli occhi della stampa o del governo la disperazione di un intero settore troppo spesso considerato come non necessario, che anche in questa pandemia è stato il primo a fare le spese dei decreti di chiusura, pur essendo quello che meno crea assembramento, viste le rigide regole da rispettare e i numeri, molto contenuti, degli spettatori coinvolti.
Già il giorno successivo al Dpcm del 24 ottobre è arrivato l’accorato appello di artisti e lavoratori di settore: “Presidente non chiuda teatri e cinema”. “Sono luoghi sicuri dove il pubblico è seduto con mascherina e non parla durante la rappresentazione. L’uscita e l’entrata sono regolati e rispettano il distanziamento”, spiega la petizione. Ma non solo di soldi e di stipendi si tratta, anche se hanno un peso specifico non da poco: “Chi opera nel settore della cultura è consapevole dell’importanza che essa ricopre soprattutto in momenti difficili come quello che ci troviamo ad affrontare. Sarebbe un grave danno per i cittadini privarli della possibilità di sognare e di farsi trasportare lontano oltre i confini della propria quotidianità”.
Uno studio circolato in questi giorni rileva che sui 350.000 spettatori presenti agli spettacoli dal vivo tra giugno e ottobre ci sarebbe stato un solo positivo. Lo studio si basava sui dati di Immuni, e vista la scarsa efficacia dell’applicazione di tracciamento in molti hanno sollevato dubbi riguardo l’esattezza di questi dati. Ma è fuori di dubbio che, indipendentemente dalla statistica per i contagi, e tenendo conto dei tanti eventi annullati, della paura che ha comunque serpeggiato durante l’estate e che ogni evento era a numero chiuso, il totale degli spettatori è comunque molto basso. Cosa che effettivamente fa pensare che non sia stato proprio il teatro il principale veicolo di contagio nella lotta al Covid-19. Le notizie di contagi relativi ai teatri hanno riguardato piuttosto i lavoratori, come nel caso della Scala. Questo però, più che un motivo per decidere la chiusura di un luogo di Cultura, dovrebbe essere un’ulteriore prova della necessità di controlli rigorosi e tutele per i lavoratori anche del settore dello spettacolo.
Le attività culturali hanno un ruolo sociale fondamentale, eppure quando ci si trova di fronte a una crisi, sia essa sanitaria o economica, sono sempre le prime a essere considerate non essenziali. Sono le prime della lista nei tagli al bilancio nazionali, le prime in quelli regionali o comunali, le prime da interrompere quando si tratta di servizi non essenziali, quando al contrario luoghi di aggregazione come quelli religiosi restano tranquillamente aperti. Per cui alle sette di sera è giusto pregare tutti insieme in una chiesa, per circa un’ora e più, ma non lo è mangiare una pizza correttamente distanziati o assistere a uno spettacolo che dura quanto una messa, seduti in 200 in un teatro da 800 posti, o guardare un film occupando una poltroncina ogni tre.
Per capire quanto poco sia centrale la cultura per i piani governativi, e non solo di questo governo, basta seguire la scia dei soldi, che non ci sono. Per approfondire meglio il tema bisogna guardare indietro nel tempo, a ben prima dell’emergenza Covid. A delineare il quadro della situazione è il quindicesimo rapporto annuale di Federculture del 2018, un documento che analizza il trend di investimenti nel settore dell’ultimo decennio – quello che va dalla crisi economica del 2008 a un paio di anni fa – che vede un calo di finanziamenti pubblici di 700 milioni. Si tratta di una finestra di tempo importante per due motivi: il primo è che fa capire come il taglio dei finanziamenti pubblici sia sistematico e ripetuto nel tempo, una modalità che non consente di capirne davvero la portata se non analizzandola in lunghi lassi temporali; il secondo è che mette in luce una tendenza politica diversa da quella sociale.
Quando bisogna tagliare le spese lo Stato guarda nella stessa direzione, e parte quasi sempre dalla cultura, considerata, allora come oggi, non essenziale, semplicemente accessoria. La politica, negli ultimi vent’anni, si è talmente abituata a non considerarla, che ora non saprebbe neanche come ricominciare a investire sul sapere e sull’arte, o come valorizzarli in modo meritocratico. Al contrario, la società civile – che ha subìto anche privatamente le conseguenze della crisi del 2008 – dopo un iniziale periodo di crollo vertiginoso (2012/2013) è tornata a investire nei consumi culturali, nella cui categoria sono inseriti anche concerti, musei, teatri e cinema, con una crescita di più del 3% negli anni a seguire (con una netta differenza regionale di spesa tra Nord e Sud, determinata anche dal livello socio economico del campione). Questo vuol dire che chi ha già a che fare con l’offerta culturale anche in tempi di crisi non la considera un servizio superfluo.
Esiste un altro dato allarmante che emerge dal report di Federculture: il tasso di adulti culturalmente inattivi in Italia è davvero molto alto, e corrisponde quasi al 40% della popolazione. E questo dato peggiora se si guarda al singolo settore: circa l’80% degli adulti non va mai a teatro e solo il 10% si avvicina alla musica classica. In alcune aree del Paese ben 9 adulti su 10 non hanno alcun rapporto con la cultura attiva. Per anni si è chiesto al Parlamento di recepire la Convenzione di Faro, ratificata poi finalmente in settembre di quest’anno. Questo documento impegna i venti Paesi firmatari a considerare il patrimonio culturale come un diritto e come un elemento fondamentale “per lo sviluppo umano e per la qualità della vita”. Nella carta, pubblicata in Gazzetta ufficiale, si legge: “La partecipazione dei cittadini rappresenta un elemento imprescindibile per accrescere in Europa la consapevolezza del valore del patrimonio culturale e del suo contributo al benessere e alla qualità della vita. In questo contesto, gli Stati sono chiamati a promuovere un processo di valorizzazione partecipativo, fondato sulla sinergia tra pubbliche istituzioni, cittadini privati, associazioni”. Questa è la teoria. In pratica, però, a distanza di pochissimi giorni, la cultura è stata tra le prime a fare le spese del nuovo Dpcm. Accompagnata come al solito dall’etichetta di servizio non essenziale. Quando si parla di palestre, per esempio, si punta il dito sulla pericolosità del luogo come mezzo di contagio, non sulla loro inutilità: teatri e cinema sono invece considerati extra di cui si può fare a meno, quasi un capriccio in un momento così difficile.
Ma quando il mondo della cultura è passato dall’essere un baluardo educativo per la formazione della coscienza individuale e collettiva a essere qualcosa di superfluo? Non c’è un momento specifico, però si possono individuare delle tendenze e degli attori che ne hanno propagato gli effetti: gli anni del “berlusconismo”, con il diffondersi di un nuovo modello televisivo, umano e sociale; e gli inizi del populismo, con un attacco diretto agli intellettuali, diventati “professoroni”, con una svalutazione di tutto ciò che era cultura, studio e preparazione. La tv spazzatura ha abbassato la soglia di attenzione e la capacità di analisi e critica del pubblico. Lo ha portato a spegnere il cervello in momenti diversi e prolungati della propria giornata, un fattore che non è andato solo a discapito del pensiero critico, ma anche della capacità di immaginazione e della creatività – cosa ancora più grave quando questa esposizione comincia da bambini. E sì, la tv spazzatura per anni ha garantito alle reti televisive molto più seguito popolare, e di conseguenza più introiti pubblicitari, della tv culturale.
Questa tendenza ha fatto sì che si decidesse di investire sempre meno sui prodotti culturali anche a livello televisivo, anche se in realtà i programmi culturali – su cui ormai anche la tv pubblica investe sempre meno – hanno spesso ottimi ascolti, come dimostrato per esempio dai risultati dei programmi di Benigni (che ha toccato la Divina Commedia e la Costituzione, per esempio, non proprio materia facile) o dal successo di audience di Ulisse, o praticamente di qualunque programma presentato da Alberto Angela, che pur parlando di cultura a 360 gradi batte programmi trash come Temptation Island.
Allora perché il settore della cultura è così indispensabile, non soltanto per il singolo individuo, ma per la collettività in generale e la democrazia in particolare? Perché è l’ultimo baluardo contro i populismi, le derive nazionaliste e quelle violente. “La cultura è il superfluo indispensabile” diceva lo storico antifascista Gaetano Salvemini: non risponde a uno scopo preciso eppure è ciò che ci permette di essere individui formati e pensanti, e non solo una macchina esecutiva specializzata in qualche settore lavorativo. Non serve alla sopravvivenza, ma senza non possiamo vivere; al massimo tirare avanti; ed è proprio questo che fa la differenza.