Sylvia Plath ha spiegato meglio di tutti cosa significa essere ragazze

Tutti sanno com’è morta Sylvia Plath: ha preparato la colazione per i figli, ha sigillato le finestre della cucina con il nastro adesivo e delle salviette e poi ha respirato il monossido di carbonio infilando la testa nel forno. Esiste anche una fotografia del suo corpo, nonché molte congetture su questo discusso suicidio. Plath si è cristallizzata eternamente in questo gesto iconico, quasi “romantico”, che ha ispirato romanzi, poesie, drammi teatrali e persino fotografie di moda. La morte di Sylvia Plath l’ha fagocitata in un unico destino: quello della ragazza trentenne depressa che scrive che morire è un’arte come un’altra e poi mette in scena una morte scenograficamente perfetta. 

Ma c’è anche un’altra Sylvia Plath meno nota, ed è quella raffigurata in una fotografia degli anni Cinquanta, quando aveva diciannove anni, bellissima, seduta sorridente in spiaggia con un costume bianco. Ricorda Marilyn Monroe con i capelli biondo platino e il rossetto rosso che incornicia un sorriso radioso. Questa Sylvia Plath è quella de La campana di vetro, il romanzo semiautobiografico che pubblicò nel 1963 con lo pseudonimo di Victoria Lucas, un mese prima del suicidio. 

La campana di vetro uscì contemporaneamente a un altro importante testo, La mistica della femminilità di Betty Friedan, un saggio rivoluzionario che descriveva le condizioni di frustrazione e subalternità delle donne, soprattutto casalinghe bianche, nella società americana. Entrambi contribuirono in maniera sensibile alla costruzione del pensiero di quello che oggi viene chiamato “femminismo della seconda ondata” o “femminismo storico”. Se il libro di Friedan colpì l’immaginario delle donne già sposate e con figli, Plath scrisse quello che si può considerare una sorta di Giovane Holden per ragazze. 

La protagonista Esther è una studentessa di diciannove anni originaria di Boston che vince un premio per lavorare come stagista nella rivista Ladies’ Day a New York. Si trova improvvisamente catapultata in una città caotica, frenetica e lavorista che la opprime e la soffoca, e che lei non capisce. Vuole disperatamente scrivere, ma si trova fuori luogo nel bel mondo borghese della moda, i ragazzi la trattano come un oggetto e non riesce a legare con le colleghe che sono mangiate dall’invidia e dalla competizione. Esther crolla e decide di tornare in Massachussets, dove si prefigge prima di iscriversi a un corso di scrittura, da cui verrà rifiutata, e poi di iniziare un romanzo. Questo però non basta a placare la sua insoddisfazione, e anzi la peggiora. Comincia a vedere uno psichiatra e a sottoporsi all’elettroshock, finché non tenta il suicidio chiudendosi in cantina e ingoiando una confezione di sonniferi. L’ultima parte del libro è ambientata in un istituto di salute mentale, dove Esther continua la sua terapia elettroconvulsivante, fino alla sua dimissione. La storia è chiaramente autobiografica: Plath, originaria di Boston, si trasferì a New York per seguire un tirocinio da Mademoiselle, e in seguito ad alcune crisi depressive tornò nella città natale, dove tentò il suicidio per poi trascorrere vari mesi in una clinica psichiatrica.

La campana di vetro del titolo è la metafora con cui Plath descrive il suo stato d’animo: “Dovunque mi fossi trovata, sul ponte di una nave o in un caffè di Parigi o a Bangkok, sarei stata sotto la stessa campana di vetro, a respirare la mia aria mefitica”. Tutte abbiamo provato, almeno una volta nella vita, una sensazione simile, l’incapacità di trovare un nostro posto nel mondo, una condizione che a vent’anni diventa un macigno e che per qualcuno più che per altri può essere insostenibile. La storia di Esther, e di Sylvia, è la storia di migliaia di ragazze cresciute nella convinzione di essere persone di talento e sensibilità straordinarie. Tutti hanno delle aspettative su di loro, ma sono loro in primis a essere più severe con se stesse. 

Esther è perfettamente conscia di avere un’intelligenza sopra la media, ma sbatte continuamente contro il muro della realtà, a cui non può importare meno che lei sia la più brava o la più bella o la più in gamba di tutte. Così, proprio quando dovrebbe essere più libera, quando ha raggiunto l’indipendenza in una grande città, con un lavoro che fa invidia ai più, Esther si sente ancora più in gabbia di quando viveva nei placidi sobborghi borghesi di Boston. Tutto in città le sembra incredibilmente stupido e la costringe a fingere in continuazione di essere a proprio agio: finge che le piaccia la vodka liscia perché si vergogna di dire che le piace col ghiaccio, assume pose e atteggiamenti da donna vissuta, guarda le sue amiche cambiare un fidanzato dietro l’altro, va al ballo del terzo anno di Yale – un evento sociale per cui molte altre matricole avrebbero fatto di tutto per partecipare – senza il minimo entusiasmo, si ubriaca per far passare il tempo per poi ritrovarsi sola sul marciapiede senza sapere come tornare a casa.

Esther è perennemente divisa tra il sé interiore, tormentato e inquieto, e quello che la società si aspetta da lei: che sia una donna in carriera, ma che sia anche una moglie e madre perfetta; che sia bella e intelligente, che sia contemporaneamente santa e puttana. Il guaio è che nemmeno lei sa cosa vuole dalla sua vita: vuole fare la giornalista di moda, diventare una poetessa o scrivere romanzi? La campana di vetro, che Plath pubblicò a trent’anni, potrebbe essere erroneamente letto come un romanzo di formazione in cui una protagonista confusa riesce a far prevalere la sua vita interiore sulle aspettative della società. Questa interpretazione viene naturale quando Esther, poco prima di tornare a Boston, lancia dal tetto del suo hotel a New York tutti i suoi vestiti, come se si liberasse da una delle tante maschere che è costretta a portare. Anche se fa questo gesto plateale e simbolico, Esther non rifiuta mai in toto le convenzioni sociali, ma anzi continua a desiderare una vita che sia al contempo eccezionale e normale. È un suo diritto viverla come vuole. 

In uno dei passaggi più famosi del libro, Plath scrive: “Vidi la mia vita diramarsi davanti a me come il verde albero di fico del racconto. Dalla punta di ciascun ramo occhieggiava e ammiccava, come un bel fico maturo, un futuro meraviglioso. Un fico rappresentava un marito e dei figli e una vita domestica felice, un altro fico rappresentava la famosa poetessa, un altro la brillante accademica, un altro ancora era Esther Greenwood, direttrice di una prestigiosa rivista […]. E vidi me stessa seduta alla biforcazione dell’albero, che morivo di fame per non saper decidere quale fico cogliere. Li desideravo tutti allo stesso modo, ma sceglierne uno significava rinunciare per sempre a tutti gli altri, e mentre me ne stavo lì, incapace di decidere, i fichi incominciarono ad avvizzire e annerire, finché uno dopo l’altro si spiaccicarono a terra ai miei piedi”. Il suo dissidio interiore è legato intimamente al suo essere una femmina, per cui i fichi sembrano sempre già preconfezionati. Per Plath, la donna è sempre incastrata in un ruolo, e chi come lei vorrebbe abbracciarli tutti è costretta a vedere tutti i fichi marcire. Per gli uomini questo problema non si pone: per loro l’albero è sempre maturo e rigoglioso, e possono prendere tutti i frutti che vogliono.

Questa differenza si rivela in modo molto chiaro nella sfera affettiva e sessuale. Esther non nasconde di avere un’energia sessuale incontentabile, una cosa molto singolare per un libro dell’inizio degli anni Sessanta scritto da una ragazza. Il fidanzato Buddy, il classico bravo ragazzo studente di medicina, un giorno la porta ad assistere a un parto, una scena che la sconvolge e che la terrorizzerà all’idea di restare incinta. Subito dopo Buddy, nella sua stanza del college, si spoglia nudo. “Di colpo,” racconta la protagonista “l’idea di spogliarmi davanti a Buddy mi parve attraente all’incirca come quella di essere fotografata nell’infermeria del college per il controllo della postura, sapendo che poi la fotografia di me nuda, di fronte e di profilo, sarebbe stata allegata alla mia scheda sanitaria per ricevere il voto, Ottimo, Buono, Sufficiente o Insufficiente”. Subito dopo, il ragazzo le rivela di essere stato a letto più di una volta con una cameriera. “Da quel momento, qualcosa dentro di me diventò di ghiaccio”. Esther comincia a chiedersi perché al ragazzo d’oro Buddy sia permesso di fare sesso e di vantarsene, mentre lei stava preservando la verginità per lui: “Non sopportavo l’idea che la donna debba avere una sola vita, casta, e l’uomo invece può condurre una doppia vita, una casta e una no”. 

Così, a New York decide di concedersi a Costantin, un interprete delle Nazioni Unite, convinta che in questo modo la sua vita avrebbe subìto “un cambiamento spettacolare”. Cerca di sedurlo, ma alla fine si addormenta senza aver fatto nulla. Pur essendo vergine, Esther continua a temere l’idea di rimanere incinta e, una volta ricoverata a Boston, decide di farsi mettere il diaframma per liberarsi del “bambino sospeso come un randello sopra la testa per farmi rigare dritta”. Alla fine del libro, quando è ancora nella clinica psichiatrica, durante il suo giorno libero, Esther conosce un ragazzo al parco, Irwin. Escono insieme per un po’ e una sera, quando Esther è ubriaca, decide di fare sesso con lui. L’esperienza è un disastro: Esther si rende conto di non essere più vergine solo quando al termine del rapporto comincia a sanguinare copiosamente, al punto che è costretta ad andare in ospedale. 

Leggendo i diari di Sylvia Plath, raccolti dal marito Ted Hughes, si capisce che Plath era molto invidiosa della libertà degli uomini, soprattutto quella sessuale: “Sono gelosa degli uomini […]. È un’invidia che nasce dal desiderio di essere attiva e dinamica, non passiva e subalterna. Invidio all’uomo la libertà fisica di condurre una doppia vita: la carriera e la vita sessuale e familiare”. Plath voleva “andare, vedere, fare pensare, sentire, desiderare. Con gli occhi, il cervello, l’intestino, la vagina”. All’età di vent’anni, per lei questa possibilità coincideva con il fortissimo desiderio di avere un rapporto sessuale. Quando finalmente ne ha uno nella finzione del libro, Esther/Sylvia scopre che quel cambiamento spettacolare che si aspettava non può avvenire: perché c’è il terrore di una gravidanza, perché non c’è parità tra lei e il maschio, perché ora si sente in dovere di pensare al matrimonio, perché il sesso tanto decantato dalla società alla fine non le è sembrato granché. Perché la donna non è libera di cogliere tutti i fichi che vuole. 

Questo senso profondo di indecisione, unita alla sensazione di non trovare un posto nel mondo e alla spensieratezza che ci si vuole concedere quando si è giovani, animano La campana di vetro con una delicatezza memorabile, ironica e cupa allo stesso momento. Con quasi vent’anni di anticipo rispetto al femminismo più istituzionale, Sylvia Plath anticipò la liberazione sessuale. E il suo unico romanzo, 56 anni dopo la sua pubblicazione, continua a essere il miglior libro mai scritto su cosa significhi essere una ragazza di vent’anni. 

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