Nella notte del 6 novembre i Måneskin hanno aperto il concerto dei Rolling Stones all’Allegiant Stadium di Las Vegas. La band romana ha portato sul palco mezz’ora di rock puro e potente, raccogliendo gli applausi di 65mila spettatori e il ringraziamento – sul palco e attraverso i social – nientemeno che del frontman Mick Jagger. Questo, però, è soltanto l’ultimo dei tanti successi che il gruppo ha raggiunto nell’ultimo anno. Dopo il primo posto al Festival di Sanremo 2021 sono infatti seguiti in breve tempo la vittoria all’Eurofestival, la collaborazione con la star dell’hard-rock Iggy Pop e il successo agli Mtv Ema, nella categoria Best Rock. Ancora, l’invito a esibirsi in programmi cult della televisione americana come Tonight Show di Jimmy Fallon e The Ellen Show di Ellen Degeneres. La loro versione di “Beggin” è stata certificata disco di platino negli Usa, dove la stampa – e in particolare il New York Times – ne tesse le lodi e si domanda se “conquisteranno il mondo”. Tutto ciò risulta ancor più straordinario se si tiene conto del fatto che appena cinque anni fa Damiano, Victoria, Thomas ed Ethan si esibivano per le strade di Roma. Al tempo non c’erano di certo le luci abbaglianti di Las Vegas, il maxischermo su cui campeggia il nome della band né le tute scintillanti con i colori della bandiera americana, ma soltanto l’amplificatore, la custodia della chitarra aperta per le offerte e un cartello che recitava: “Like us on Facebook”.
Ai numerosi trionfi sono seguite neanche a dirlo numerose discussioni sui motivi del loro successo, alcune delle quali francamente fuori-fuoco o addirittura violente. Massimo Gramellini – nel consueto “Caffè” sul Corriere della Sera – ha scritto che piacciono perché “sono fluidi” e che “Damiano, il cantante, è un maschio che si trucca senza perdere virilità. Victoria, la bassista, è una donna che fa la dura senza perdere femminilità” – portando avanti, dunque, non solo un pensiero piuttosto provinciale ma, soprattutto, dando una definizione di gender fluid completamente ribaltata. C’è chi, poi, come Vittorio Sgarbi, ritiene che siano soltanto una moda e chi, come il chitarrista e co-fondatore dei Cugini di Campagna Ivano Michetti, ha affermato che “sono studiati a tavolino” e che il successo della loro musica non sarà duraturo. Tali critiche, però, non vengono solo da personaggi noti: basta fare una veloce ricerca sui social per leggere affermazioni aggressive e rancorose, postate dal tipo che giura di conoscere un musicista molto più bravo di loro ma che non ha santi in paradiso, o da quello che crede possibile calcare il palco dei Rolling Stones senza avere alcun talento, grazie ad algoritmi e sponsorizzazioni dei discografici.
Quello dei Måneskin è l’ennesimo caso dello scetticismo provinciale tipicamente italiano per cui ogni connazionale vicino a un traguardo importante – a meno che non sia un calciatore – viene disincentivato, screditato o – peggio ancora – accusato di chissà quali colpe. Le cause di questo atteggiamento distruttivo e inquisitorio possono essere molte: fra tutte, però, c’è una sottaciuta invidia, che affonda le sue radici nella frustrazione che il contesto italiano si impegna a regalare a tante persone. Per alcuni, l’oggettiva e riconosciuta bravura della rock-band romana si configura come un grosso pericolo, perché li mette nella scomoda condizione di non poter più rimandare il giudizio su sé stessi, sui propri traguardi e risultati, sulle proprie scelte, sui propri errori, sulle proprie condizioni di partenza.
L’invidia, accompagnata da un forte senso di ingiustizia, invece che a identificarsi porta a desiderare il male dell’altro, cioè che l’altro perda il bene acquisito, magari anche con tanta fatica e impegno e, di conseguenza, sia “abbassato” al proprio livello. In seconda battuta fa adottare poi un comportamento remissivo, giustificato con scuse deterministiche. Anche Jean-Paul Sartre – filosofo francese esistenzialista – parlava di questo comportamento all’interno de L’esistenzialismo è un umanismo, in cui definiva come vili le persone che difendono i propri fallimenti con ragioni come “le circostanze sono state contro di me, io valevo molto di più di quello che sono stato”.
Questo duplice atteggiamento, di autoassoluzione per sé e distruttivo nei confronti di chi riesce a raggiungere una “vittoria” è molto più diffuso di quanto si creda e si manifesta di riflesso non solo in ambito musicale. Si pensi, nell’ambito letterario, alla feroce discussione che travolse Elsa Morante dopo la pubblicazione de La Storia nel 1974. Il romanzo fu un immediato ed enorme successo popolare: dopo sei mesi si contavano seicentomila copie vendute; a un anno dall’uscita, ben un milione. Il motivo di un tale successo deve essere ricercato nell’esplicito proposito di parlare a tutti, in particolar modo al pubblico incolto. La dedica in apertura è, in questo senso, un’esplicita dichiarazione: “Por el analfabeto a quien escribo”. Se, dunque, i lettori adorarono quest’opera, la maggior parte degli intellettuali ne contestò persino le virgole, classificandolo al pari d’un romanzo d’appendice in virtù di quelle caratteristiche volutamente popolari. Fra questi, nessuno si interrogò criticamente sul motivo per cui Morante avesse raggiunto quel successo plebiscitario che ciascuno di loro, seppur segretamente, desiderava.
Solo sei anni più tardi, al “caso Morante” fece seguito quello di Umberto Eco. Nel 1980, lo scrittore pubblicò Il nome della rosa, suo primo romanzo. L’opera conquistò il Premio Strega e diventò, in poco tempo, un vero e proprio best-seller. Nel 1985, a cinque anni dall’uscita, era ormai da 170 settimane nella classifica dei libri più venduti in Italia. Più cresceva il successo, tuttavia, e più si moltiplicavano le critiche. Come raccontò lo stesso Eco, Il nome della rosa venne sottoposto a una vera e propria doccia scozzese, fra chi ne stigmatizzava il presunto carattere commerciale e popolare e chi, all’opposto, lo criticava perché troppo difficile. Secondo Pietro Citati, per esempio, il romanzo era stato scritto “in assoluta assenza di ogni talento letterario”. Un’idea, questa, che negli ambienti di cultura era molto diffusa, seppur sottaciuta. A tal riguardo, il giornalista Beniamino Placido scriveva: “Gli altri letterati nostrani lo confidano alla moglie, lo borbottano agli amici, lo scribacchiano come possono. E per spiegare questo successo internazionale tirano fuori tutte le ‘ragioni’ del mondo. Siamo dunque in presenza di una società letteraria che soffre. Che soffre per il successo di uno dei suoi membri”.
Una certa forma di discredito è anche quella che si riverbera contro chi, in ambito economico, tenta di sfidare il mercato, avviando percorsi imprenditoriali coraggiosi e rivoluzionari. Il caso di Adriano Olivetti è, in questo senso, paradigmatico. Egli tentò di dar vita a una nuova idea di fabbrica, assai più attenta ai diritti degli operai e al benessere della comunità. Gli ambienti di lavoro furono, perciò, illuminati da grandi vetrate, affinché chi lavorava potesse guardare l’ambiente esterno circostante; gli stipendi delle donne furono equiparati a quelli degli uomini; la maternità retribuita per nove mesi, contro i cinque previsti dalla legge italiana; furono istituiti una serie di benefit, fra cui la presenza di biblioteche e asili aziendali. Alla base di questi interventi c’era l’idea che un’azienda, per funzionare bene, dovesse mettere al centro l’uomo – il che significava non ragionare solo in termini di profitto, ma anche sulla base della felicità e dello sviluppo dei lavoratori. Questo progetto portò Olivetti ad essere riconosciuto come un imprenditore illuminato; al tempo, tuttavia, gli altri industriali e persino i politici – mossi da una malcelata invidia – non si risparmiarono in critiche e ironie, definendolo un sognatore o un “imprenditore rosso”.
Gli esempi citati dimostrano come la nostra società sia incapace di accettare la felicità e le vittorie altrui, soprattutto se vengono da persone vicine. Nello stato di costante competizione in cui viviamo, tutto ciò che non può essere conquistato deve essere annientato: il successo altrui diventa quindi un peccato imperdonabile; l’Altro è sempre e soltanto un imbroglione, che ha indebitamente occupato una posizione altrimenti “nostra”. Questa convinzione, per quanto comoda, è ulteriormente rafforzata dalla fallacia atavica del nostro Paese, in cui il mondo del lavoro sembra muoversi unicamente sulla base di amicizie, conoscenze e rapporti di potere. In uno scenario simile, credere che ci sia chi, pur non potendo contare su tale patrimonio di agevolazioni, riesca a farcela lo stesso ci destabilizza, perché mette in forte discussione quelle soluzioni quietistiche che ci siamo dati per motivare i nostri insuccessi. In questo senso i Måneskin ci stanno dando una dura lezione, costringendoci a fare i conti con le nostre insicurezze e il nostro provincialismo.