Il Sindacato Autonomo di Polizia (SAP) ha definito le mascherine FFP2 di colore rosa fornite agli agenti di alcune questure – tra cui Siracusa, Bologna, Ferrara, Pavia, Varese e Venezia – “non consone”, “indecorose” e addirittura “in grado di pregiudicare il decoro dell’Istituzione”, scatenando un’enorme bufera mediatica. Gli agenti hanno lamentato l’inopportunità del colore rosa, il quale, a loro dire, toglierebbe autorevolezza al corpo, a differenza di altri colori, come il nero, il blu o il bianco, che sarebbero “più coerenti” con l’uniforme della Polizia di Stato.
Al di là dell’inopportunità della polemica durante il picco della nuova ondata pandemica nel nostro Paese, viene spontaneo chiedersi perché le forze dell’ordine ritengano “indecoroso” e “pregiudizievole” il colore rosa. Forse perché credono che il rosa sia un colore “da femmine”? Anche fosse, perché un colore associato al genere femminile dovrebbe essere motivo di vergogna e imbarazzo? Nel dubbio è bene ripercorrere la storia di questo colore, per scoprire che i significati che ha assunto nel corso del tempo sono innumerevoli, arbitrari e mutevoli.
Il rosa divenne di moda per la prima volta a metà del Settecento in Francia. Madame de Pompadour, storica amante di Luigi XV, amava così tanto questo colore che, nel 1757, la manifattura francese di porcellane Sèvres le dedicò il nome della sua nuova tonalità di rosa, Rose Pompadour. Da quel momento tutta l’aristocrazia europea iniziò a indossare tonalità più tenui e delicate come espressione di lusso e potere. A confermarlo è l’antropologo francese e studioso della simbologia dei colori, Michel Pastoureau che scrive che il rosa ha acquisito la sua simbologia legata alla femminilità e alla dolcezza proprio nel XVIII secolo, spogliando il rosso del suo carattere bellicoso. Fino alla prima metà dell’Ottocento il rosa non veniva però associato automaticamente alla femminilità. Anzi, semmai succedeva il contrario: essendo più vicino al rosso, e quindi a un colore che esprimeva forza, virilità e doti militari, restava comunque raccomandato ai maschi, mentre il blu era il colore del velo con cui veniva raffigurata tradizionalmente la Vergine Maria e per questo era ritenuto più appropriato alle donne.
L’associazione fra rosa e femminilità si consolida intorno alla metà del Diciannovesimo secolo, spiega Valerie Steele – direttrice del Museum at the Fashion Institute of Technology ed curatrice del volume Pink: The History of a Punk, Pretty, Powerful Colour – quando il rosa e il blu furono introdotti nell’abbigliamento per bambini, anche se non esisteva ancora una distinzione netta legata al genere. Una delle prime testimonianze letterarie di questa differenziazione, citata sia da Steele che dalla storica Jo B. Paoletti, si trova nel classico Piccole donne, del 1868, di Louisa May Alcott, quando una delle protagoniste, Amy, distingue i gemelli appena nati di sua sorella regalando alla bambina un nastro rosa e al bambino uno blu. L’usanza era però più che altro una “moda” importata dalla Francia. In generale, da quel momento in poi, sempre secondo Steele, è iniziata la femminilizzazione del rosa. “Gli uomini occidentali hanno cominciato a indossare sempre più spesso colori scuri e sobri”, spiega Steele, mentre le tonalità più chiare e pastello venivano destinate alla controparte femminile. Pian piano il rosa diventava sinonimo di delicatezza, ma anche di eros, poiché alludeva alla nudità: non a caso, il rosa diventò uno dei colori prediletti per la lingerie.
A contribuire ad affermare l’idea del rosa come colore per ragazze, sempre secondo Steele, è stata poi l’acquisizione negli anni Venti del Novecento di due dipinti del Diciottesimo secolo da parte del milionario americano Henry Huntington: “The Blue Boy”, quadro della seconda metà del Settecento del pittore inglese Thomas Gainsborough che raffigurava un ragazzo vestito di blu, e “Pinkie”, un ritratto del 1794 di Thomas Lawrence, che rappresentava invece una bambina in abiti rosa. L’acquisto venne ampiamente pubblicizzato dalla stampa statunitense, portando le persone erroneamente a credere che il blu fosse sempre stato un colore adatto ai ragazzi e il rosa alle ragazze, anche se questo non era vero. I bambini di entrambi i sessi, infatti, al contrario di quello che accade oggi, erano vestiti di bianco fino all’età di circa sei anni. Paoletti, in Pink and Blue: Telling the Girls from the Boys in America, spiega che la motivazione era di tipo pratico: il cotone bianco poteva essere facilmente sbiancato ed era più funzionale per il cambio del pannolino. Nel 1918 anche la rivista specializzata Earnshaw’s Infants’ Department diceva: “La regola generalmente accettata è che il rosa sia per i maschi e il blu per le femmine. Questo perché il rosa, essendo un colore più forte e deciso, è più adatto a un maschio, mentre il blu, che è più delicato e grazioso, è più adatto alle femmine”.
L’avvento dell’industrializzazione e della produzione di massa ha poi contribuito alla diffusione di coloranti economici come il magenta, che hanno permesso la nascita di varianti luminose e sgargianti del rosa. Si è assistito così a una vera e propria “democraticizzazione” del rosa, che arriva alla portata anche delle classi sociale più povere e delle prostitute, che iniziano a indossare sempre più spesso abiti di questo colore, il quale passa così da un’accezione sofisticata a volgare. Ne è una prova una scena de Il grande Gatsby, il romanzo del 1925 di Francis Scott Fitzgerald, in cui il protagonista si presenta a un pranzo vestito di rosa e viene criticato da uno dei presenti, Tom, per questo: “Un uomo di Oxford! Da morire. Indossa un abito rosa”. Tom, però, giudica male il modo di vestire di Gatsby non perché considerato troppo femminile, ma perché di cattivo gusto. In “pink seersucker”, un cotone molto leggero proveniente dall’India, infatti, si confezionavano i vestiti per il personale di servizio. Negli anni Venti diventò di moda fra i giovani dandy americani, che però non erano visti di buon occhio dai ricchi più tradizionalisti.
Nel 1927 il Time realizzò un sondaggio fra tutti i grandi magazzini e i maggiori negozi di vestiti negli Stati Uniti per sapere quali colori associavano ai vestiti per ragazze. I risultati mostrarono che il blu e il rosa erano ancora del tutto interscambiabili, con una lieve preferenza del rosa per i maschi e del blu per le femmine. È nel secondo dopoguerra che il rosa assume definitivamente il significato e l’associazione al genere femminile che conosciamo oggi. Le aziende statunitensi dell’epoca iniziarono a influenzare l’opinione pubblica sul tema con campagne di marketing aggressive, eleggendo questo colore a simbolo di iperfemminilità e consolidando così lo stereotipo ancora presente. “Quando è stata creata quella particolare divisione” scrive Steele, “questa ha rafforzato la percezione del rosa come frivolo, a causa della sua associazione con le donne, tradizionalmente dispregiate”.
Il rosa associato alla femminilità, assieme ai ruoli tradizionali di genere, inizia a essere fortemente criticato dai movimenti femministi degli anni Sessanta e Settanta. Al tema accenna anche Betty Friedan ne La mistica della femminilità, del 1963, che per la prima volta esamina il disagio della casalinga rinchiusa nella sua villetta a schiera. Sarà lei a ridefinire il ruolo della donna e a mettere in discussione il modello marito-casa-figli che le veniva imposto, cancellando tutte le sue aspirazioni personali e professionali. Le proteste delle femministe e le rivolte giovanili contribuirono ad un breve ritorno a colori neutrali per entrambi i sessi e a modelli di abbigliamento unisex, ma già a partire dagli anni Ottanta, un decennio di forte ritorno al consumismo, rosa e azzurro tornarono a connotare rispettivamente il femminile e il maschile in moltissimi prodotti in vendita. In questo processo ha avuto un ruolo importante anche la diffusione della diagnosi prenatale che ha permesso ai genitori di conoscere in anticipo il sesso del bambino e di comprargli/le vestiti e accessori differenziati. Nonostante questa dicotomia a cui siamo abituati, nel resto del mondo il rosa assume significati e valori completamente diversi. In Giappone, ad esempio, il fenomeno del cosplay lo ha reso il colore preferito di un’intera sotto-cultura; e in India gli uomini lo indossano comunemente, in particolare in Rajasthan.
Oggi, grazie all’attivismo dei movimenti femministi e alla diffusione della riflessione sull’identità di genere, questi stereotipi stanno iniziando a sgretolarsi. Stiamo vivendo in un’epoca di grandi cambiamenti dal punto di vista sociale, sessuale e culturale, che stanno ridefinendo modelli, confini e qualità legate al genere. Il significato dei colori non è innato ma è frutto di un processo culturale, arbitrario e influenzato dal contesto sociale. Le nuove generazioni stanno abbandonando i pregiudizi ormai assurdi legati a certi colori, liberandosi da visioni del mondo rigide, sessiste e ormai anacronistiche. Chi non è in grado di comprendere questa cosa, oltre a dimostrare di non conoscere la storia della nostra cultura, diventa schiavo delle proprie stesse erronee convinzioni.