È l’8 dicembre 1949. A Rocca Busambra, nella campagna attorno a Corleone, ci sono trenta gradi. Sul ciglio di una caverna, due carabinieri tengono ben salda la fune dell’imbracatura di un loro collega, Notari Orlando, mentre lo calano giù, un metro dopo l’altro. A quaranta metri la corda finisce. Il carabiniere resta sospeso nel vuoto, aspettando che gli occhi si abituino all’oscurità. Accende la torcia e studia quello che c’è dieci metri sotto di lui. Appena capisce cos’è, vomita. All’arrivo dei pompieri, vengono estratti tre cadaveri: due sono sconosciuti, vittime della lupara bianca, che nessun parente ha mai reclamato né identificato; il terzo invece è Placido Rizzotto, il segretario della Camera del lavoro. Quelli del PSI avevano denunciato la sua scomparsa quattro mesi prima. Il delitto fa molto scalpore. Rizzotto aveva trentaquattro anni, era un sindacalista d’assalto che voleva distruggere il latifondismo, quel cartello di proprietari terrieri che facevano lavorare i braccianti a ritmi massacranti e stipendi da fame. I contadini lo ascoltavano perché era uno di loro, tanto che in primavera aveva iniziato a organizzare i primi scioperi e manifestazioni, durante le quali dei picciotti l’avevano avvicinato per minacciarlo. Lui aveva reagito con sdegno e a voce alta, perché tutti sentissero. La gente, a Corleone, simpatizzava con lui. Era uno di quei contadini comunisti vecchia scuola che giravano nei bar, tra i poveri, li conosceva e li ascoltava.
- Nella foto nella mano Placido Rizzotto
Corleone, nel 1948, era un posto difficile in un momento che lo era ancora di più. La polvere della seconda guerra mondiale non si era ancora depositata del tutto. Mussolini, per sconfiggere la mafia, non aveva esitato a mettere a ferro e fuoco interi villaggi, costringendo i mafiosi a scappare negli Stati Uniti. Lì si erano riorganizzati e ambientati. Così, quando gli americani avevano deciso di sbarcare in Sicilia, li avevano usati come appoggio promettendo in cambio posti di prestigio nell’Italia futura. Erano stati di parola, e nel ’48 la mafia siciliana – al tempo detta Onorata società – era diventata intoccabile.
- Foto © Phil Stern
Rizzotto era stato un partigiano e faceva parte dell’Associazione Nazionale Combattenti e Reduci. L’omicidio arriva alle cronache nazionali e indigna l’opinione pubblica. I 25 carabinieri della tenenza di Corleone abbandonano gli altri casi per dedicarsi solo a lui, fanno arrivare dalle città vicine rinforzi, personale esperto del territorio e veterani della guerra alla mafia durante il ventennio. Niente da fare, i mafiosi arrivati dagli Stati Uniti sono nomi nuovi o dimenticati, infiltrati in ogni settore civile e politico all’insaputa dello Stato. È una mafia nuova e terribile, e in paese nessuno sa o vede niente. Rizzotto sembra destinato a finire come l’ennesimo caso di lupara bianca, finché lo Stato decide di mandare dal nord un capitano dell’Arma di 28 anni: si chiama Carlo Alberto Dalla Chiesa.
- Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa
Arrivato a Corleone, Dalla Chiesa ci mette poco a capire che aria tira: prefetti, magistrati, poliziotti, spariscono nel silenzio generale. Dalla Chiesa vuole capire con chi ha a che fare, così spazza via tutto quello che è stato fatto dai colleghi precedenti, si toglie la divisa e gira tra la gente del posto, distribuendo aiuti e favori con il meccanismo del do ut des che racconterà poi a Sciascia durante la commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo.
La tattica funziona, e dopo qualche mese gli arriva all’orecchio la strana morte di un ragazzino di tredici anni, Giuseppe Letizia, un pastorello che il giorno della scomparsa di Rizzotto era stato ricoverato nell’ambulatorio del dottor Michele Navarra, e poche ore dopo era morto. Sul certificato di morte, il medico legale Ignazio Dell’Aira aveva scritto “decesso dovuto a tossicosi”. Dalla Chiesa ordina l’autopsia, che rivela una bolla d’aria nelle vene. Navarra dice che è stato un suo tragico errore; ma allora perché il medico legale ha scritto “tossicosi”? Non si saprà mai, perché Ignazio Dell’Aira prenderà una nave diretta in Australia e non farà più ritorno. C’è qualcosa che non va, così Dalla Chiesa indaga sul dottor Navarra, che tutti sembrano rispettare e venerare tanto da chiamarlo “Padre nostro”. Scopre che nel 1945 il dottore era stato caporeparto di medicina interna all’ospedale di Corleone, ma dopo l’omicidio – mai risolto – del direttore dell’ospedale, lo aveva sostituito come reggente, per poi diventarne titolare nel 1948. Aveva anche cercato di entrare nell’Associazione Nazionale Combattenti e Reduci, e solo grazie a Rizzotto non ci era riuscito, perché durante la guerra Navarra non aveva combattuto, aveva fatto da ponte con gli americani, poi aveva contrabbandato i mezzi abbandonati dall’Amgot (fornendoli anche a Sindona), era un simpatizzante del Movimento per l’Indipendenza della Sicilia (che esiste ancora oggi) e apparteneva all’antica borghesia siciliana.
Il capitano va dal padre del pastorello e gli domanda cos’è successo. Il padre racconta di aver fatto ricoverare il figlio perché l’aveva visto tornare dai campi che delirava, sudato e pallido, aveva pensato che avesse la febbre, dato che raccontava di avere visto degli uomini picchiare a sangue una persona e gettarla in una caverna. Il piccolo Giuseppe pascolava le pecore proprio nei paraggi della foiba dove è stato trovato il corpo di Rizzotto. È una pista, ma servono più elementi. Dalla Chiesa mette sotto sorveglianza il dottor Navarra e ci mette poco a scoprire che non solo è un mafioso, ma è proprio il boss di Corleone e al suo servizio ha sicari del calibro di Salvatore Riina, Leoluca Bagarella e Bernardo Provenzano. Se l’Arma non sapeva nemmeno questo, come poteva sperare di risolvere il delitto di Rizzotto?
- Titò Riina
- Leoluca Bagarella
- Bernardo Provenzano
Dalla Chiesa capisce che è necessario ricostruire la genealogia di tutta la mafia corleonese. Nasce così il Rapporto dei 114, che mette nero su bianco i vecchi e i nuovi capimafia, le loro famiglie, che posizioni occupano e in che settore lavorano. Il luogotenente del dottor Navarra è Luciano Liggio detto “cocciu de focu” perché assassina le sue vittime a coltellate e poi gli dà fuoco a sfregio. C’è Vincenzo Collura, detto “Mr. Vincent”, che durante la liberazione faceva da ponte tra italoamericani e siciliani, il più ambizioso della cosca, che vorrebbe spodestare Navarra. I pezzi da novanta, però, sono intoccabili, così Collura sceglie di mettersi agli ordini di Liggio e aspettare che sia lui a farlo fuori. Ma la chiave è un altro mafioso: Pasquale Criscione, amico e vicino di casa di Placido Rizzotto. A Dalla Chiesa basta unire le poche testimonianze degli amici del Psi per fare il resto. Stando alle loro dichiarazioni, Liggio era stato visto alle dieci di sera davanti al caffè Alaimo mentre chiamava Criscione a voce alta, dopo averlo visto camminare con Rizzotto. Si vengono incontro, parlottano e se ne vanno. Qualcuno vedrà unirsi a loro anche Vincenzo Collura. Ci sono troppi mafiosi sul luogo del delitto, e Dalla Chiesa capisce che non si è trattato di un raptus omicida di qualcuno, ma di un’azione premeditata. Quando manda a chiamare i sospettati, sono già latitanti. Grazie al surplus di uomini, però, riesce a mettere sotto sorveglianza decine di case dei loro parenti e in pochi mesi li arresta e li interroga di persona uno a uno. Criscione ammette di essere stato presente all’omicidio, ma solo perché aveva paura di Liggio. Collura invece è una tomba, così Dalla Chiesa, come in ogni poliziesco che si rispetti, gli mente; gli dice che Criscione ha confessato scaricando la colpa su di lui. A quel punto Collura racconta come sono andati i fatti.
- Luciano Liggio
Placido era uscito dall’ufficio alle 22, la sera del 10 marzo 1948 e si era incontrato con Criscione, mentre Liggio li teneva già d’occhio. Erano andati al bar, erano usciti verso le 23 e si erano separati. Liggio aveva intercettato Criscione, gli aveva mostrato la pistola e ordinato di tornare indietro, per convincere Rizzotto a seguirlo verso la periferia con una scusa qualsiasi. Criscione aveva obbedito e, accompagnato da Collura, aveva raggiunto il sindacalista. Aveva proposto di andare a vedere la vacca di un contadino che stava per partorire. Rizzotto all’inizio ci aveva creduto, poi aveva notato il nervosismo dell’amico e aveva esitato, così dal buio era apparso Collura. Con la scusa di voler solo parlare, lo avevano portano fino al retro della chiesa di Santo Luca, dove li aspettava una Millecento. Qui si era palesato Liggio, che gli aveva piantato la pistola nelle costole e l’aveva costretto a salire. Rizzotto aveva chiamato aiuto, ma senza che nessuno sentisse. Dopo averlo condotto a contrada Casale, Liggio l’aveva ucciso con tre colpi di pistola e gettato nella grotta, ma non aveva visto il pastorello che sonnecchiava sotto un albero.
Dalla Chiesa porta alla giustizia tutte le prove e i nomi che i suoi predecessori non erano stati capaci di trovare, così il dottor Navarra e Liggio sono costretti a scappare per non essere arrestati. Nel 1949, davanti ai giudici, Collura ritratta tutte le dichiarazioni e nega di averle mai pronunciate, tanto che il processo è costretto a concludersi con l’assoluzione per insufficienza di prove. Al tempo non esisteva il reato di associazione mafiosa, la Repubblica doveva ancora riprendersi dalla guerra ed era impreparata a quel labirinto di silenzi, bugie e crimini che era, ed è, la mafia.
- A sinistra il Generale Dalla Chiesa
Nel 1958 Luciano Liggio ucciderà il dottor Navarra con una raffica di mitra mentre è in macchina, e una volta processato verrà condannato all’ergastolo. Il capitano Dalla Chiesa, invece, farà una carriera straordinaria, il suo nome apparirà spesso durante gli episodi più enigmatici degli anni di piombo e verrà ricordato “dai suoi Carabinieri” e dallo Stato come un eroe. Verrà ucciso nella sua auto con la seconda moglie nel 1982, da Totò Riina, un delitto con strane anomalie, avvenuto in un periodo storico che ancora oggi non è chiaro e che meriterebbe un capitolo a parte.
- Rita Dalla Chiesa, figlia del Generale