“Noi abbiamo l’ordine di uccidere tutti e di incendiare tutto quel che incontriamo sul nostro cammino”; “Abbiamo distrutto tutto da cima a fondo senza risparmiare gli innocenti. Uccidiamo intere famiglie ogni sera, picchiandoli a morte o sparando contro di loro. Se cercano soltanto di muoversi tiriamo senza pietà e chi muore muore”. Queste non sono testimonianze storiche al tempo dei barbari, echi di un tempo lontanissimo, ma le lettere dei nostri soldati in Jugoslavia durante la seconda guerra mondiale, quando il mito “italiani brava gente” cominciava a prendere piede. Nel 2020 sembra essere giunta l’ora di sfatarlo.
Sul finire degli anni Trenta, Mussolini decise di intraprendere l’ennesima, pomposa campagna espansionistica. I motivi furono molteplici: bisognava dare un segnale tanto agli alleati quanto ai nemici, cercando da un lato di farsi spazio in mezzo allo strapotere tedesco, dall’altro di rosicchiare territori ai francesi e agli inglesi, impedendo una loro avanzata. Inoltre, Mussolini intendeva riscattarsi dopo i fallimenti del colonialismo in Africa, caratterizzati da perdite economiche, sanzioni internazionali, impoverimento militare e orrori commessi in quelle terre. Lo sguardo cadde sui Balcani, ma prima di arrivare ai territori confinanti con la nostra penisola si partì dal basso, in Albania e in Grecia.
Nel 1939 ci fu l’occupazione dell’Albania, inizialmente facilitata da un esercito nemico poco organizzato e con scarse risorse. I problemi sorsero quando iniziarono gli atti di ribellione della resistenza locale, con i gruppi partigiani che ottennero l’appoggio della popolazione civile nel tentativo di contrastare i soldati italiani. Il nostro esercito si affidò dunque alla repressione e alle violenze contro i civili. Gli ordini dall’alto erano chiari: gli atti dimostrativi consistevano nella distruzione di interi villaggi, imprigionando o uccidendo tutti gli abitanti. Il risultato campeggia ancora adesso nel Museo della resistenza di Tirana: 28mila morti, 43mila deportati e internati nei campi di concentramento, 61mila abitazioni incendiate, 850 villaggi distrutti, 100mila bestie razziate. Quello fu solo l’inizio di quella che venne definita una guerra parallela e che dovrebbe servirci come memoria dell’orrore che non abbiamo mai espiato.
Nel 1940 fu la volta della Grecia, con le truppe italiane che avanzarono nel territorio ellenico partendo dall’Albania. Gli italiani faticarono anche in quell’occasione ad avere la meglio contro la resistenza del posto; vi riuscirono soltanto nel 1941 grazie all’aiuto dei tedeschi e ai soliti metodi brutali: gli eserciti occupanti razziarono i villaggi e portarono i civili alla fame, poi cominciarono le fucilazioni e le deportazioni nei campi di concentramento. Vi furono numerosi stupri di massa e le donne vennero reclutate per soddisfare i soldati italiani nei bordelli. Nikolaos Bavaris, maggiore di polizia in Tessaglia, scrisse alla Croce Rossa e alle autorità italiane: “Vi vantate di essere il Paese più civile d’Europa, ma crimini come questi sono commessi solo da barbari”, come risposta fu torturato e internato in un campo di concentramento.
Intanto, i tempi si fecero maturi per l’affondo italiano in Jugoslavia, dove tra il 1941 e il 1943 entrarono in azione 650mila soldati del nostro esercito. La vasta operazione, messa in atto con le potenze dell’Asse, portò l’Italia a ottenere il controllo della provincia di Lubiana, la Dalmazia, il Kosovo, il Montenegro e diversi territori croati. In questi luoghi cominciò un processo di italianizzazione che intendeva smantellare il vecchio sistema politico vigente oltre che il tessuto sociale, a partire dalle radici linguistiche – tutte le città cambiarono nome – e dagli usi e costumi delle popolazioni locali, che non accettarono di buon grado questo cambiamento. Anche qui, infatti, nacquero movimenti di ribellione, con partigiani intenti a scacciare l’invasore italiano. Mussolini se ne accorse nel 1942, quando disse: “Deve cessare il luogo comune che dipinge gli italiani come sentimentali incapaci di essere duri quando occorre. È cominciato un nuovo ciclo che fa vedere gli italiani come gente disposta a tutto, per il bene del Paese e il prestigio delle forze armate. Non vi preoccupate del disagio economico della popolazione: lo ha voluto, ne sconti le conseguenze”. Conseguenze che ben presto arrivarono: morte e distruzione.
Bisogna chiamare le cose con il proprio nome: sostituzione etnica. Fu quello lo scopo dell’Italia fascista in Jugoslavia, attuando durante l’occupazione un attacco all’identità nazionale dei popoli sottomessi partendo dai soprusi contro i civili. Per farlo utilizzò gruppi locali trasformandoli in truppe collaborazioniste, come gli ustaša croati e i četnici serbi, per compiere eccidi e fomentare guerre civili all’interno dei territori conquistati. Il regime fascista impartì l’ordine di terrorizzare la popolazione per evitare qualsiasi forma di ribellione. Bisognava fermare sul nascere la resistenza dei partigiani, come dimostra il proclama emesso il 30 maggio del 1942 da Temistocle Testa, prefetto della provincia di Fiume: “Si informano le popolazioni dei territori annessi che con provvedimento odierno sono stati internati i componenti delle suddette famiglie (di partigiani), sono state rase al suolo le loro case, confiscati i beni e fucilati venti componenti di dette famiglie estratti a sorte”. Cominciò così il periodo dei rastrellamenti, dei villaggi bruciati e delle fucilazioni di massa. Non doveva restare nessuna traccia della cultura jugoslava.
Il regime fece cambiare tutti i cartelli stradali, sostituì i cognomi assegnando quelli italiani, vennero proibiti i giornali in lingua locale e furono sciolte tutte le associazioni culturali e sportive. Inoltre venne imposto per legge il saluto romano. Non ci si poteva ribellare, pena la fucilazione. Il commissario del distretto di Logatec, Umberto Rosin, in una lettera informativa scrisse: “Si procede ad arresti, a fucilazioni di massa fatte a casaccio, a incendi dei paesi fatti solo per il gusto di distruggere. La frase ‘Gli italiani sono diventati peggiori dei tedeschi’, che si sente mormorare dappertutto, compendia i sentimenti degli sloveni verso di noi”. Quando i tumulti della popolazione divennero insostenibili, il regime decise di sfruttare i campi di concentramento. Il generale Taddeo Orlando specificò che non dovevano limitarsi ai partigiani e ai soldati nemici, scrisse infatti: “È necessario eliminare tutti i maestri elementari, tutti gli impiegati comunali e pubblici, tutti i medici, i farmacisti, gli avvocati, i giornalisti, i parroci e gli operai”. E il generale Mario Roatta scrisse ai suoi colleghi: “Anche il Duce ha detto di ricordarsi che la miglior situazione si fa quando il nemico è morto. Occorre quindi poter disporre di numerosi ostaggi e di applicare la fucilazione tutte le volte che ciò sia necessario. Il Duce concorda nel concetto di internare molta gente, anche 30mila persone”. E così avvenne. Finirono nei campi di concentramento uomini, donne, anziani e bambini, a patire il freddo, la fame e le epidemie. La strategia del regime fascista d’altronde era proprio questa, come riportato nelle parole del generale Gastone Gambara: “Logico e opportuno che campo di concentramento non significhi campo d’ingrassamento. L’individuo malato sta tranquillo”.
Quando la guerra finì e l’Italia perse il controllo dei territori nei Balcani, le conseguenze furono devastanti. La vendetta dei popoli jugoslavi fu feroce e in larga parte criminale, come ricordano le Foibe e i rastrellamenti di Tito. Le singole nazioni chiesero alle organizzazioni internazionali di processare i criminali di guerra italiani, ma le richieste non andarono a buon fine. L’equilibrio geopolitico che si era creato nel secondo dopoguerra prevedeva nuove alleanze e l’Italia ottenne dagli Stati Uniti e dagli Stati vincitori europei la possibilità di processare in patria i propri connazionali. Come per i criminali di guerra del colonialismo in Africa, ciò non avvenne mai. Rispetto al nazismo per il fascismo non ci fu alcuna denuncia collettiva, nessun processo di Norimberga, ma un reset che portò alla nascita della Repubblica e della Costituzione, senza aver mai fatto fino in fondo i conti con gli errori del proprio recente passato: tra amnistie e amnesie di massa, gli italiani scelsero di dimenticare. La Storia, però, non può essere cancellata, perché anche se non viene tramandata da chi avrebbe il dovere di farlo segna le generazioni, e le vittime non dimenticano, restano le impronte delle carneficine, delle barbarie che superano le logiche già di per sé atroci della guerra, spingendosi oltre il confine di quel seme del male che ha caratterizzato l’intero periodo fascista. Ormai è tardi per fare giustizia, tutto ciò che possiamo fare è informarci e ricordare, affinché tutto ciò non si ripeta.