Come Sócrates ha portato la politica più bella sul campo da calcio
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Nonostante l’epidemia di COVID-19 abbia monopolizzato ogni canale d’informazione già da diverse settimane, il mondo del calcio è riuscito comunque a rendersi protagonista e a far parlare di sé. In negativo, attraverso battute fuori luogo di alcuni calciatori, decisioni tardive ed episodi di fanatismo molto rischiosi, ma anche in positivo, attraverso donazioni importanti da parte di società sportive e giocatori. È inevitabile che sia così, perché il calcio è indissolubilmente legato alle questioni che riguardano la nostra società, dalla sicurezza pubblica alla finanza, ed è illusoria la rivendicazione di chi sostiene che la politica debba rimanere fuori dallo sport. Il calcio è anche politica, e questo lo sapeva bene Sócrates, “il dottore” (chiamato così per la sua laurea in Medicina): la sua militanza politica divenne letteralmente calcio nel curioso e indelebile episodio della “democrazia corinziana”. 

Nato nel 1954 a Belém, nello Stato del Pará nel Nord-est del Brasile, Brasileiro Sampaio de Souza Vieria de Oliveira, cioè Sócrates, venne chiamato così dal padre in onore al filosofo greco. Il padre, con appena la seconda elementare, aveva imparato a leggere da autodidatta ed era diventato un grande amante del pensiero greco, al punto tale da chiamare un altro figlio Sófòcles e un altro ancora Sóstenes. Sócrates lo ricorderà come la figura più importante della sua vita per avergli trasmesso la passione per la lettura, ed effettivamente sarà proprio la grande cultura del giocatore a fargli raggiungere un posto nella hall of fame dei calciatori più popolari di tutti i tempi. Pelé lo definirà “il giocatore più intelligente della storia del calcio brasiliano”, mentre l’ex presidente Dilma Rousseff dopo la sua morte dirà che “il Brasile ha perso uno dei suoi figli più amati”. Inutile dirlo, era l’idolo di Lula.

Sócrates è stato un giocatore molto amato ma allo stesso tempo molto criticato, proprio per le sue idee politiche radicali e il suo stile di vita libertino, non esattamente idoneo alla carriera di un’atleta professionista. Amante del carnevale e delle donne, Sócrates beveva e fumava molto, gli piaceva divertirsi e fare festa, e non aveva alcuna intenzione di smettere. Anzi, sembrava avere le idee ben chiare: “io sono accusato di voler vivere tutta la mia vita”, dichiarò in un’intervista, “questo rappresenta un cambiamento di morale impressionante, perché l’unica cosa che serve da noi (in Brasile) è vivere bene la nostra vita, il resto non vale niente”. In realtà Sócrates era una testa pensante e sapeva bene di cosa stesse parlando, il suo non era un inno nichilistico alla dissoluzione ma un invito alla libertà: in Brasile erano gli anni della dittatura militare e Sócrates fu un grande antesignano del passaggio alla democrazia. Anzi ne fu un simbolo: ancora oggi tutti i brasiliani si ricordano perfettamente della “democracia corinthiana”, che proiettava nel calcio il cambiamento che stava avvenendo nella società. 

Laureatosi in Medicina nel 1976, Sócrates fu contrattato due anni dopo dal Corinthians, la squadra del popolo per eccellenza e la più importante del Brasile insieme al Flamengo. Centrocampista dai piedi buoni, alto ed elegante, Sócrates era un esperto nella costruzione del gioco e soprattutto nel colpo di tacco, così tanto da valergli anche un altro famoso soprannome, il “Taco de Dios”. La svolta avvenne nel 1982: l’anno prima il Corinthians aveva terminato il campionato al 26° posto, e in conseguenza di ciò il presidente Vicente Matheus decise di dare le dimissioni. Il suo posto fu preso da Waldemar Pires, di posizioni politiche molto più liberali, che sceglierà come direttore dello sport un sociologo di sinistra che non capiva molto di calcio, Adílson Monteiro Alves. Sócrates e i compagni di squadra Vladimir e Casagrande, approfittando del vento favorevole, proposero subito un nuovo tipo di amministrazione del club: niente più ordine gerarchico, tutte le decisioni vengono prese collettivamente per alzata di mano, anche quelle che riguardano i nuovi acquisti, e ognuno ha il diritto di esprimere il proprio voto, nessuno escluso – giocatori, staff tecnico, dirigenti. La proposta viene accettata: è il primo e unico caso della storia di autogestione diretta di una squadra di calcio, nonché una delle fasi più gloriose della storia del Corinthians. 

La squadra cominciò a scendere in campo con striscioni che alludevano alla democrazia e a utilizzare la maglietta della divisa come spot della campagna per l’apertura politica. Lo striscione principale recava la scritta “Ganhar ou perder, mas sempre com democracia” (“Vincere o perdere, ma sempre con democrazia”), che fu lo slogan scelto dalla squadra. Nel novembre del 1982, alla vigilia delle elezioni comunali e statali, i calciatori del Corinthians scesero in campo con la scritta “Dia 15 vote” (“Il 15 vota”) stampata sul retro della maglia. In questo modo divennero dei pionieri dell’uso della divisa come modo di veicolare messaggi, inclusi quelli pubblicitari, cosa proibita fino allora proibita dal Consiglio Nazionale dello Sport. Sócrates, non ancora soddisfatto, cominciò anche a promuovere messaggi di libertà nella fascetta elastica che portava sul capo per raccogliere i capelli. La più famosa sarà quella utilizzata ai mondiali del 1986, in Messico, con la scritta “México sigue en pie” (“Il Messico è ancora in piedi”), che diventerà una vera e propria icona di quella Coppa del Mondo. Si trattava di un messaggio di solidarietà nei confronti dei cittadini messicani colpiti dal devastante terremoto dell’anno precedente, che causò oltre 10mila morti. 

La rivoluzione democratica del club bianconero riuscì anche dal punto di vista sportivo. Fino a quel momento il Corinthians era una squadra marginale, che veniva da una pessima annata, e il morale dei giocatori era completamente a terra. Con l’autogestione diretta le cose cambiarono subito, cominciarono a vincere le partite, a prendere coraggio e a guadagnare popolarità. Vinsero due volte il campionato paulistano (cioè il campionato dello Stato di San Paolo) e in poco tempo la “squadra dei poveri” si trasformò in una testa di serie. La filosofia era una sola: essere uniti, perché l’unione fa la forza. Il gioco era spettacolare, esprimeva gioia e allegria, e la consapevolezza di essere uniti eliminava la paura individuale, permettendo così ai singoli di esplodere. “Vincere è bello”, ricorderà il diretto sportivo Adílson, “ma qui è molto più gustoso. Perdere è duro, ma qui fa molto meno male”. 

Sócrates divenne semplicemente un idolo nazionale, e quello stesso anno venne scelto come capitano della seleção verdeoro per i mondiali di calcio del 1982. Era il Brasile più bello di tutti i tempi, quello di Zico e Falcão, e incarnava l’essenza del Futebol bailado, uno stile di vita oltre che di gioco. Grande favorito alla vittoria, il Brasile fu però eliminato proprio dall’Italia, in quel famoso 3 a 2 che passò alla storia come una delle partite più belle di sempre (che in realtà in Brasile passò alla storia come “la tragedia del Sarrìa”), dove segnò anche Sócrates, ma dall’altra parte c’era un certo Paolo Rossi. La democrazia corinziana durò tre anni, fino al 1984, quando Sócrates fu comprato dalla Fiorentina. La sua carriera in Italia durò un solo anno e fu molto deludente; il “camminatore” faceva parlare più della sua vita fuori dal campo che dentro, e fu duramente criticato dalla stampa per il suo atteggiamento controverso. Giancarlo De Sisti, che lo allenò in quel periodo, gli chiese: “Stai leggendo i giornali? Hai visto cosa dicono su di te?”, e Sócrates rispose: “Sì, leggo i giornali ma solo le pagine di politica, la parte sportiva non mi interessa”. 

Tornato in Brasile, la sua carriera volse lentamente al declino. Giocò ancora due anni, uno al Flamengo e uno al Santos. Poi si ritirò e riprese la carriera di medico, che condusse fino alla sua morte. Si occupò anche di giornalismo, diventando editorialista del CartaCapital, dove ogni settimana scriveva di calcio, esaltandone l’aspetto culturale, e criticando invece la sua dimensione economica da business show. Ricordando gli anni della democrazia corinziana, dirà: “ll voto era uguale, io ero uno dei giocatori della squadra del Corinthians, io avevo lo stesso peso del terzo portiere, lo stesso peso del tizio che puliva le mie scarpette, lo stesso peso del direttore del club. Il mio voto valeva uno, uno per uno: la cosa più bella del mondo, amico! Capisci? Rispettare l’essere umano”. 

Sócrates morì di cirrosi epatica nel 2011, all’età di 57 anni. Durante il derby Corinthians-Palmeiras, nel minuto di silenzio dedicato a lui, tutto il pubblico corinthiano e i calciatori alzarono il braccio con il pugno chiuso. Era l’esultanza di Sócrates, il simbolo della sua libertà. Nel 1983 aveva detto: “Vorrei morire di domenica, nel giorno in cui il Corinthians vince il titolo”. Si è spento di domenica, il 4 dicembre 2011; poche ore dopo il Corinthians ha vinto il quinto titolo nazionale della sua storia.

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