A volte si vorrebbe assistere all’incontro di persone che si reputano in qualche modo affini, pur non conoscendosi tra loro. Simone Weil e Albert Camus non si sono mai visti dal vivo, lei non ha neanche mai letto niente di lui, eppure molti hanno fantasticato su un possibile incontro fortuito tra i due. Le loro brevi esistenze avrebbero potuto effettivamente incrociarsi tra il maggio e il settembre del 1937, quando entrambi si trovavano a visitare Firenze e dintorni, ma non si imbatterono l’uno nell’altra neanche in quell’occasione. Camus scoprì Weil come autrice qualche tempo dopo la sua morte.
Lo scrittore franco-algerino rimase così colpito dalla filosofa da definirla “l’unico grande spirito del nostro tempo” e fu lui a impegnarsi per diffondere in tutto il mondo le sue opere, fino a quel momento pubblicate dal padre Perrin e dall’amico Gustave Thibon in poche copie realizzate per amici e parenti. In Italia gli scritti di Simone Weil arrivarono tardi, grazie alla lungimiranza di un imprenditore illuminato come Adriano Olivetti, che li avrebbe pubblicati con le Edizioni di Comunità.
A impressionare Camus, Olivetti e tanti altri lettori più o meno illustri era la grande modernità delle idee della Weil che, forse perché donna o forse perché difficilmente incasellabile, è ancora oggi meno ricordata di altri filosofi a lei contemporanei. Tra le opere di Weil la cui lettura è ancora oggi indispensabile vi è senz’altro Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale, del 1934. Se questo libro sembra così attuale è perché il nostro presente somiglia tanto a quello descritto dall’autrice già all’inizio del libro: viviamo anche noi “uno di quei periodi in cui svanisce quanto normalmente sembra costituire una ragione di vita” e subiamo ogni giorno le conseguenze di tale incertezza. A pagare di più, in questi momenti di ansia e dubbio, sono sempre i giovani: la generazione che dovrebbe attendere con ansia il futuro ne ha quasi paura, dice la Weil.
Timori e ansie sono particolarmente giustificabili in una società dove si è ostaggi della continua necessità di migliorare le proprie performance. Nella “civiltà della specializzazione” di cui parla la filosofa, soprattutto i ragazzi devono formarsi in maniera sempre più distintiva se vogliono realizzarsi: lauree, master e dottorati preparano a una posizione talmente specifica che, qualora dovesse essere effettivamente raggiunta, sarà l’unica possibile. Sarà molto difficile, in caso di ripensamenti, scegliere altre strade, perché cambiare idea significherebbe dover iniziare un nuovo percorso, fondato su conoscenze ancora differenti. Allo stesso modo, in un meccanismo del genere, la propria completa autonomia diventa impossibile perché essere esperti di una sola cosa implica dover dipendere dagli altri per tutto il resto. Gran parte del sapere scientifico appare incomprensibile alla maggioranza delle persone in quanto i non specialisti possono apprezzare i risultati ma non comprendere il modo in cui sono stati raggiunti. Si può, dice Weil, “credere ma non assimilare” e questo è chiaro anche solo guardando un telegiornale: lo spettatore può assistere ogni giorno a infiniti dibattiti su concetti come flat tax o Minibot ma, a meno che non sia uno specialista dell’argomento, non avrà gli strumenti per comprendere del tutto la questione e farsi un’idea propria.
Qualunque nozione, sia essa economica, scientifica o letteraria ha d’altronde perso il suo valore in quanto tale: in tempi in cui tutto scorre con estrema velocità, ogni scoperta ha validità solo se può essere semplificata, riassunta o abbreviata. “Quello che serve a questo Paese è una buona sintesi da cinque centesimi”, diceva ironicamente, parafrasando un detto americano, il protagonista del romanzo di Saul Bellow Herzog: oggi questa frase è diventata un mantra per chi esercita un potere che si basa in primis sulla possibilità di coordinare gli altri.
“Dal momento che la società è divisa in uomini che ordinano e uomini che eseguono, tutta la vita sociale è governata dalla lotta per il potere” teorizza Weil, ma rifugiarsi nelle vecchie ideologie e nelle loro formule per superare questa condizione è ingenuo e controproducente. Il presente ci impone di chiederci se abbiano ancora senso parole come “rivoluzione” o “libertà” o se siano ormai diventate semplici espressioni-contenitore, svincolate da ogni possibile contenuto politico. Tante parole sono condannate a diventare semplici slogan, per loro natura vuoti ed estremi. Il problema è che ormai tutto viene sintetizzato per trasformarsi poi in materiale da aforisma: neanche la stessa Simone Weil può sfuggire a questo meccanismo. Una sua frase adeguatamente estrapolata può finire nel discorso di una persona lontana dalle sue idee come Matteo Salvini, che l’ha usata tra una citazione di Olivetti e un’altra espressione attribuita a Walt Disney. Se il pensiero di Simone Weil può essere saccheggiato da un leader leghista non si può pensare che le idee possano essere valide di per sé: esse verranno sempre plasmate e rielaborate da qualcuno per i propri interessi.
Orwell faceva notare che il meccanismo funziona però in entrambe le direzioni: il pensiero può corrompere il linguaggio ma può succedere anche il contrario. Gli oppressi hanno per forza di cose dovuto utilizzare gli schemi comunicativi di chi voleva assoggettarli per ribellarsi e alla fine questo ha avuto effetto sulle loro idee che, alla fine, sono diventate simili a quelle di chi volevano “mandare a casa”. Anche se gli oppressi prendessero coscienza della loro condizione ed eliminassero gli oppressori, verrebbero subito sottomessi da qualcun altro o diventerebbero loro stessi tiranni. Il meccanismo di rovesciamento ha poi conseguenze importanti soprattutto quando si parla di progresso scientifico. Lo scienziato ormai non utilizza la scienza per avere un pensiero più chiaro: la vede anzi più come uno strumento utile ad aumentare un corpus di conoscenze già ampio a sufficienza. Non vanno scoperte nuove cose che possano complicare ulteriormente un mondo già troppo complesso. La filosofa francese suggerisce di fare un “bilancio” che permetta di salvare quello che è costituito da nozioni chiare e lasciare da parte ciò che è solo processo automatico, finalizzato a coordinare, unificare e riassumere. Forse stiamo davvero accettando in maniera troppo passiva il progresso materiale e bisognerebbe valutare con più attenzione le condizioni che permettono che esso si compia.
Viene però da chiedersi se sia possibile essere liberi in un mondo che cambia a questa velocità. Probabilmente bisogna in primo luogo capire se la libertà che si ricerca è quella autentica o piuttosto una copia posticcia, che si esprime nella semplice soddisfazione dei propri desideri. Nei suoi saggi sulla libertà il filosofo Isaiah Berlin distingue due tipi di libertà. La “libertà di” – di fare, di agire, di essere – e la “libertà da” – dalle interferenze, dalle intrusioni, dai vincoli. La vera libertà è, nella visione di Simone Weil, un’unione ragionata tra le due: la libertà di Weil non si raggiunge con la soddisfazione di un desiderio, ma piuttosto attraverso un rapporto diverso tra il pensiero e l’azione che questo ispira. È davvero libero solo chi agisce avendo chiaro il fine delle proprie azioni e i mezzi necessari a realizzarle. Solo gli irresponsabili possono trascurare questo studio preliminare e pretendere di essere liberi. L’unica via per essere liberi è inseguire un mutamento culturale nato dall’incontro tra quelle conoscenze che devono essere assimilate e la riscoperta del valore della semplicità dell’azione diretta, di cui la manualità è la massima rappresentazione. Quando gli oppressi troveranno il punto di incontro tra il pensiero astratto e l’atto concreto allora, forse, finirà la loro oppressione.
In un’epoca che ci invita a espandere il nostro ego, dove “i giudizi di valore non possono fondarsi che su un criterio puramente esteriore”, la libertà non è fare quello che si vuole ma piuttosto avere la piena coscienza di volere ciò che si fa. Se non c’è un pensiero libero dietro, tutto quello che resta sono meri atti di forza e parole vuote. La nostra generazione ha però un vantaggio sulle altre: siamo la generazione cui accennava Weil, quella con le maggiori responsabilità immaginarie e con le minori responsabilità reali. Se lo capiremo, liberandoci così dall’ansia opprimente di inutili sensi di colpa, potremmo davvero sviluppare un nuovo pensiero realmente libero.