L’Amazzonia raccontata da Sepúlveda mostra quanto siamo stati irresponsabili con il nostro pianeta - THE VISION

Scindere la storia letteraria di Luis Sepúlveda dalla passione politica che lo ha sempre spinto a spendere nell’attivismo la propria esistenza è impossibile. In tutta la sua produzione echeggia un costante desiderio di partecipazione attiva e di presa di posizione, specchio di un carattere segnato profondamente da alcune esperienze. Prima l’arresto in seguito al golpe di Pinochet del 1973, poi le violenze e due anni e mezzo nelle carceri cilene, a tratti in condizioni disumane: una serie di vicende che invece di abbattere la carica partigiana dello scrittore la trasformarono in una componente imprescindibile della sua esistenza, e questo traspare da ciascuna delle vicende vissute in Sudamerica, in Europa e dalla sua attività tra le fila di Greenpeace. Tra le numerose esperienze che costellano la vita di Sepúlveda, però, ce n’è una particolarmente significativa, perché in essa affonda le radici la sua prima opera di grande successo. 

Luis Sepúlveda

È il 1977 quando lo scrittore cileno viene liberato dal carcere, anche grazie alla mediazione di Amnesty International, pur essendo costretto a lasciare il proprio Paese. Tecnicamente il suo futuro dovrebbe essere in Svezia, dove è destinato a trasferirsi per insegnare letteratura spagnola. Ma al primo scalo di Buenos Aires, Sepúlveda decide di lasciare l’aeroporto: dopo una serie di peregrinazioni tra Uruguay, Brasile, Perù ed Ecuador, si unisce a una missione UNESCO che ha l’obiettivo di studiare l’impatto della colonizzazione sulla popolazione degli indios Shuar. Immerso nella foresta amazzonica trascorre sette mesi in cui scopre un modo di vivere che, dichiarerà poi, cambia radicalmente la sua visione del mondo e la sua concezione di un continente, il Sudamerica, del quale comprende l’inscindibile rapporto di dipendenza con la natura. Proprio questa esperienza sarà decisiva per il concepimento di un’opera che, dieci anni più tardi, rappresenterà il suo vero e proprio punto d’approdo nella letteratura internazionale.

Il vecchio che leggeva romanzi d’amore è ambientato proprio all’interno della foresta amazzonica, nel mondo degli Shuar e di quell’esplorazione coloniale che non minaccia solo questo popolo, ma l’intero equilibrio tra uomo e natura. Antonio José Bolívar Proaño, il protagonista, è un vecchio che vive in una capanna nel piccolo villaggio di El Idilio, ai confini della foresta. Gli scarsi contatti con il mondo esterno di quel paesino si concretizzano grazie alla figura del dentista Rubicondo Loachamín, che ogni sei mesi visita gli abitanti e recapita al protagonista nuovi romanzi d’amore. La lettura, per Antonio, è una dimensione chiave, che assume una molteplice valenza. 

“Leggeva lentamente, mettendo insieme le sillabe, mormorandole a mezza voce come se le assaporasse, e quando dominava tutta quanta la parola, la ripeteva di seguito. Poi faceva lo stesso con la frase completa, e così si impadroniva dei sentimenti e delle idee plasmati sulle pagine”. Da un lato leggere per Antonio rappresenta un ritorno al proprio passato, che gli permette continuamente di lenire le ferite di tanti anni prima, dovute alla perdita dell’amore della sua vita, la moglie. Della donna, morta poco dopo essere giunta con lui nella foresta con l’obiettivo di ricominciare da zero, gli resta solo un’immagine appesa nella sua capanna. Ma, allo stesso tempo, leggere è per lui un modo per immergersi nella forma più autentica dell’esistenza umana, possibile solo attraverso i sentimenti da un lato, e la profonda connessione con la natura dall’altro. 

Non stupisce che la formazione amazzonica di Antonio, come per lo stesso autore, sia avvenuta in mezzo agli Shuar. Immerso nella realtà di questa popolazione, Antonio vive un intenso periodo che segue la morte della moglie: si avvicina alla foresta colmo di rabbia e si ritrova a fondersi con gli indigeni, condividendone la vita, le abitudini e i segreti. Ma, nonostante questo, il protagonista non riesce a diventare realmente uno di loro: troppo forte è la contaminazione dello stile di vita del mondo moderno da cui proviene, che gli impedisce di omologarsi del tutto. Lo dimostra quando un gruppo di avventurieri bianchi, dopo aver fatto esplodere una diga di contenimento dove i pesci deponevano le uova, iniziano a sparare contro gli indigeni accorsi sul posto. I pescatori vengono sconfitti dagli Shuar, ma uno di loro uccide Nushiño, amico di Antonio. Il protagonista raggiunge quindi l’uomo mentre questo sta fuggendo e, dopo un breve scontro, lo uccide con il suo stesso fucile. Una scelta incompatibile con i valori e la cultura Shuar, secondo i quali è inconcepibile e intollerabile uccidere un nemico senza dargli la possibilità di lottare, come fa chi vive nella modernità. Il disonore di cui si ricopre non gli lascia altra scelta che andarsene.

Questa colpa esistenziale del protagonista rispecchia l’ormai eccessiva distanza tra lo stile di vita occidentale e lo stato di natura dell’essere umano. Per quanto vi si possa immergere, infatti, l’uomo moderno non riesce ad andare oltre alla situazione di confine che vive il protagonista, che “non era uno di loro, ma era come uno di loro”. Ed è proprio in questa condizione di apolide che si trova a guidare una spedizione nella giungla alla ricerca del terribile tigrillo, un felino che da qualche tempo terrorizza gli abitanti di El Idilio. Si tratta di un esemplare femmina, accecata dalla rabbia per lo sterminio ingiustificato dei suoi piccoli, che cerca vendetta nei confronti di quegli uomini che interagiscono con il mondo della foresta senza alcuna cognizione di causa. Antonio conosce l’Amazzonia, percepisce i rumori, gli odori, i più piccoli segnali di pericolo e guida l’arrogante sindaco del paese e gli uomini della spedizione alla ricerca della femmina di tigrillo, la quale, però, una volta vendicati i figli, conduce Antonio di fronte a un esemplare maschio precedentemente ferito da un uomo, perché sia lui a porre fine alle sue sofferenze. Una volta compiuto l’estremo gesto, la sfida può ricominciare.

Non sono le parole a riempire il profondo rapporto che si instaura tra Antonio e il felino, ma l’intensità della compartecipazione emotiva che si sviluppa su due direttrici: l’amore da un lato e il rispetto per la natura dall’altro. È la dimensione che conduce verso il finale in cui l’uomo, difendendosi dall’attacco della femmina di tigrillo, uccide l’animale. La sua condizione a metà tra il mondo Shuar e quello moderno lo spinge prima a sparare con il fucile, quando questa lo aggredisce, con un’evidente analogia con l’episodio che lo aveva condannato ad abbandonare gli indigeni; poi, gli impone di osservare con disgusto il corpo deturpato dell’animale, di fronte a cui prova nuovamente una profonda vergogna. Nessuna vittoria, come invece potrebbe apparire agli abitanti di El Idilio. Antonio si avvia verso il paesino, “verso la sua capanna e verso i suoi romanzi, che parlavano d’amore con parole così belle che a volte gli facevano dimenticare la barbarie umana”.

Il profondo richiamo a una presa di coscienza concreta e la grande riflessione esistenzialista che trasudano dalle pagine di questo libro sono ciò che lo ha reso particolarmente significativo nella produzione letteraria di Sepúlveda. Il vecchio che leggeva romanzi d’amore è infatti intriso della sensibilità su cui si fonda tutta la passione politica dell’autore. Non è un caso che nella dedica Sepúlveda dichiari che, mentre a Oviedo la giuria del prestigioso Tigre Juan Award stava per assegnargli il premio, il suo pensiero andava a Chico Mendes, sindacalista e ambientalista brasiliano, tra i più grandi difensori dell’Amazzonia. Il vecchio che leggeva romanzi d’amore è una delle più autentiche eredità che Sepúlveda ci ha lasciato, spronandoci a recuperare una sensibilità maggiore nei confronti di una natura che costantemente deturpiamo, prendendo coscienza e iniziativa di fronte a una situazione di cui siamo tutti diretti responsabili. In fondo, come lo stesso Sepúlveda dichiarava in un’intervista del 2018, “Tutti i grandi problemi ambientali […] non sono il destino tragico dell’umanità, ma la loro radice è profondamente politica: ci sono tantissimi interessi economici e politici in gioco, che hanno portato l’umanità in una situazione quasi insostenibile, nel mito della crescita senza nessuna limitazione”.

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