Sapere che un ragazzo o una ragazza sono degli studenti modello significa esclusivamente sapere che ottengono buoni voti nelle prestazioni scolastiche, ma non ci dice niente di più sulla loro intelligenza. I risultati scolastici vengono solitamente usati come unico metro di giudizio per classificare adolescenti e giovani, ma questo tipo di traguardi non presuppone alcuna preparazione per superare le difficoltà, né per saper cogliere le opportunità che il futuro riserva, o capacità alternativa a quelle misurate – in modo discutibile – dal sistema dell’istruzione: di per sé, non è garanzia di felicità né di realizzazione personale. Nonostante questo, le nostre scuole e la nostra cultura si concentrano poche e ben delimitate capacità, spesso sopravvalutandole e ignorando altri tipi di intelligenza, che potrebbero invece contribuire a restituire la gamma complessa dei talenti e delle capacità di ciascun individuo, che si spinge ben oltre i dettagli su cui si concentra la valutazione scolastica. I test, infatti, non prendono in considerazione quelle attitudini che nella vita e nel mondo del lavoro si rivelano fondamentali. Anche per questo, il nostro sistema scolastico continua a proporre un metodo di istruzione al termine del quale gli studenti – anche quelli coi voti più altri – non sanno che strada intraprendere perché nessuno li ha aiutati a capirlo, né a coltivare le proprie capacità. E così perdiamo sistematicamente di vista uno dei compiti più importanti della scuola.
Il neuropsicologo statunitense Howard Gardner muoveva da simili considerazioni quando elaborò la teoria delle intelligenze multiple, descritta nel libro Formae Mentis del 1983. La sua teoria partiva dalla constatazione di quanto fosse diffusa una certa mentalità secondo la quale l’attività intellettiva poteva essere misurata semplicemente dai test di intelligenza. Questi test hanno goduto per decenni di grande fortuna, perché molto pratici e di immediato riscontro nell’orientamento e nelle procedure selettive a scuola, in università e nel mondo del lavoro. Il loro successo iniziò durante la prima guerra mondiale, quando quasi 2 milioni di americani furono sottoposti al test di misurazione del Qi di Lewis Terman; a partire da quel momento si diffuse la convinzione di poter classificare le persone in più o meno intelligenti. Formae mentis divenne il manifesto di chi criticava questa mentalità, che Gardner definiva “mentalità da Qi”.
Contrario a una concezione monolitica, lo psicologo individuò sette tipi diversi di intelligenza, a cui in seguito ne aggiunse altri due. L’intelligenza verbale è legata all’abilità di usare il linguaggio e le parole; è propria di scrittori, poeti e insegnanti. L’intelligenza logico-matematica individua relazioni e rapporti di causa-effetto tra gli oggetti, ed è tipica di matematici, ingegneri e scienziati. L’intelligenza spaziale sa cogliere e raffigurare gli oggetti, alterandoli idealmente, anche quando non sono presenti; questa attitudine si può osservare nei pittori, negli scultori e negli architetti. L’intelligenza cinestetica coinvolge il controllo e il coordinamento dei movimenti del corpo nello spazio e nella manipolazione di eventuali oggetti; è propria di attori, i ballerini e atleti. L’intelligenza musicale è la capacità di comporre melodie, distinguere l’altezza dei suoni, i ritmi e i timbri. L’intelligenza naturalistica consente di classificare gli oggetti della natura, mentre quella esistenziale si interroga sui grandi temi dell’esistenza. L’intelligenza intrapersonale o intrapsichica si può poi osservare in chi sa riconoscere e riflettere sulle proprie emozioni. E l’intelligenza interpersonale, invece, permette di comprendere le emozioni, le motivazioni e gli stati d’animo degli altri. Tra le abilità individuate da Gardner, è la più importante nella vita quotidiana e nella realizzazione personale e affettiva, perché è grazie a essa che riusciamo a intrecciare e coltivare relazioni appaganti e profonde. Si tratta della capacità di capire gli altri e i loro desideri, di scoprire il modo migliore per entrare in connessione con loro. Questa attitudine riflette il modo in cui le persone si pongono nei confronti della realtà e delle relazioni. I pubblicitari, i venditori, i migliori insegnanti e alcuni dei grandi leader mondiali possiedono probabilmente un grado elevato di intelligenza interpersonale, detta anche più comunemente empatia. Dal modello delle intelligenze multiple, infatti, derivarono gli studi dello psicologo americano Daniel Goleman che coniò la fortunata definizione di “intelligenza emotiva”.
Gardner arrivò a individuare una ventina di intelligenze, ma lui stesso riconobbe l’arbitrarietà di queste cifre: non gli premeva tanto enumerare precisamente i diversi tipi di intelligenze, ognuna delle quali può essere posseduta in quantità diverse e comunque allenata, quanto piuttosto essere in grado di riconoscere il potenziale e le reali capacità di ogni studente, che non si esauriscono nelle competenze linguistiche e logico-matematiche testate attraverso la misurazione del Qi. La teoria delle intelligenze multiple fu elaborata per provare che esistono diversi tipi di abilità intellettuali, che giocano un ruolo decisivo nel modo in cui i bambini apprendono, e che possono essere sviluppate se esercitate e interagire tra loro.
Se tutti avessimo la stessa mente ed esistesse un solo tipo di intelligenza si potrebbero insegnare le stesse cose allo stesso modo (come succede ancora oggi); ma poiché esistono diversi stili cognitivi e di apprendimento, il modo di insegnare che considera tutti allo stesso modo si rivela il tipo di educazione più ingiusta, perché predilige l’intelligenza logico-matematica e linguistica. Le prove di valutazione scolastiche sono ancora basate su un concetto di intelligenza limitato e gli studenti vengono valutati a seconda che soddisfino o meno questo standard, mentre una concezione variegata dell’intelligenza ha una visione più autentica del reale potenziale di ogni alunno, perché non trascura altre abilità ugualmente importanti. C’è chi ha un modo di apprendere molto legato alla manualità e alla pratica, chi possiede doti musicali, chi preferisce l’astrazione, chi si pone domande legate alla spiritualità, chi ama la narrazione. Per questo bisognerebbe presentare gli argomenti in modo interessante per raggiungere ogni allievo, chiedersi cosa si può fare affinché ciò avvenga, e rendere gli studenti consapevoli delle loro qualità, incoraggiandoli a perseguire determinati obiettivi per incrementarle.
Le realtà scolastiche che provano a realizzare esperienze alternative ci sono, ma sono poche e soprattutto private. Un’alternativa alla tradizionale scuola dell’Infanzia è quella degli “Asili nel bosco”, che hanno una pedagogia incentrata sull’autonomia e la collaborazione tra i bambini, e soprattutto sul contatto con la natura. Il metodo Montessori, poi, è incentrato sulla manualità, sullo sviluppo psicofisico dei bambini, incoraggia la libera scelta, ma con regole chiare e condivise. Si punta all’autonomia del bambino e a responsabilizzarlo sin da piccolo. Poi c’è la scuola steineriana, nota anche come scuola Waldorf, che si rifà alla pedagogia di Rudolf Steiner. Questo metodo punta allo sviluppo della creatività degli alunni, e valorizza l’educazione spaziale e musicale.
Nonostante questo tipo di realtà ricche di stimoli diversi, il problema principale è che nel nostro Paese resta una sorta di pregiudizio sulle intelligenze che vengono trascurate dal sistema, basti pensare a come viene considerata la musica. Nessuno prenderebbe in giro qualcuno che non riconosce una quarta giusta, ma prendiamo in giro chi non sa fare a mente una semplice divisione. Eppure è la stessa cosa. Un pregiudizio, peraltro, totalmente infondato, dal momento che lo studio di uno strumento è una delle attività più difficili da imparare, e che coinvolge diversi tipi di intelligenze contemporaneamente: oltre che quella musicale e cinestetica, soprattutto quella logico-matematica, legata al tempo e al ritmo. Più in generale, e al di là della riflessione su questi specifici metodi pedagogici, la didattica dovrebbe essere attiva e in grado di coinvolgere gli studenti attraverso attività significative sul piano cognitivo.
Gli approcci che consentono di progettare una didattica per competenze, plasmata sugli allievi, esistono e non sono affatto pochi: la didattica laboratoriale, il Brainstorming, la Ricerca-azione, l’apprendimento collaborativo, in cui ogni studente è fondamentale per gli altri. La Flipped Classroom, o lezione capovolta, prevede ad esempio di ascoltare la lezione a casa e poi di fare i compiti in classe, per chiarire i punti che non si sono compresi, e mettere a punto l’elaborazione delle conoscenze. L’obiettivo, qui, non è la trasmissione dei contenuti, che si può svolgere in autonomia, ma motivare i ragazzi a prendere parte attiva all’attività svolta in classe. Il Debate, poi, è un modo stimolante ed efficace di fare lezione: insegna a saper argomentare e allena a parlare in pubblico. I ragazzi non ascoltano passivamente la lezione, ma devono agire in prima persona prendendo parte a una sorta di gara, dove si formano due squadre che devono sostenere tesi diverse, entro certi limiti di tempo, davanti a un pubblico formato da altri ragazzi, e a dei giudici, che sono i professori. Il Debate aiuta a ricercare e selezionare le fonti più autorevoli (gli studenti hanno informazioni da raccogliere, analizzare, rielaborare) e a organizzare il pensiero nel discorso in pubblico. Permette inoltre di mettere alla prova la loro competenza argomentativa. È una palestra fondamentale, dove il risultato si misura in termini di motivazione. Tutte queste tecniche hanno in comune l’esperienza attiva degli studenti, che non rimangono semplicemente ricettori passivi di nozioni che dopo poco tempo finiranno nel dimenticatoio.
Lo studio del pedagogista Edgar Dale dimostra bene questa necessità. Dale ha studiato quanto la memoria e la capacità d’immagazzinare informazioni sia influenzata dalle esperienze che facciamo. Il suo “Cono dell’apprendimento” ci mostra come dopo due settimane si tenda a ricordare solo il 10% di ciò che leggiamo, il 20% di ciò che abbiamo ascoltato e di quello che abbiamo visto, il 50% di quello che abbiamo ascoltato e visto insieme a qualcuno, il 70% di quello che abbiamo detto ad alta voce, e il 90% di quello che pensiamo e facciamo. Basta questo a rendere l’idea di quanto sia importante che gli alunni prendano parte attiva al processo di insegnamento-apprendimento. Il problema è che in Italia la tradizionale lezione frontale è ancora l’unico modo di concepire la didattica. Ma se l’ultimo Ocse-Pisa, che valuta i livelli di istruzione nel mondo, colloca i nostri studenti agli ultimi posti nella comprensione del testo, significa che l’insegnamento non è stato efficace.
La necessità di innovare la didattica, integrando diversi approcci, è un’idea ormai diffusa. E anche in Italia le pratiche che vanno in questa direzione ci sono, ma sono poche e destinate ai privilegiati. Non bisogna neppure cadere nell’errore di demonizzare la lezione frontale basata sui contenuti, perché arrivare ad avere una competenza solida presuppone anche una conoscenza approfondita delle diverse materie. L’ideale sarebbe integrare questo tipo di metodologie. Resta il fatto che, per cambiare le cose, bisogna passare da una visione dell’insegnamento centrata sul nozionismo a una che metta al centro del processo di apprendimento il singolo alunno, nella sua unicità. Il più importante contributo che la pedagogia può dare allo sviluppo di un bambino è infatti quello di guidarlo e aiutarlo a sviluppare le sue attitudini nel campo in cui riesce meglio.
I ragazzi, invece, dopo aver trascorso tredici anni all’interno del sistema scolastico, spesso non sanno neanche se iscriversi all’università o meno, quale facoltà scegliere e soprattutto che lavoro fare. Viene allora da chiedersi dove la scuola abbia fallito, se si è ridotta ad allenare i ragazzi ad affrontare test e prove standardizzate per poter andare avanti, senza sapere dove.