Insieme al manifestarsi dell’epidemia alcuni hanno iniziato a dire che grazie a questa crisi avremmo ritrovato la nostra umanità, uniti nel dolore e nel sacrificio, e che allo stesso modo il sistema in cui viviamo avrebbe potuto cogliere l’occasione per rivedere molti dei suoi limiti. Rispetto a questo presunto homo novus, le reazioni seguite al caso di Silvia Romano parlano da sé, vedremo invece cosa succederà al resto, anche se in generale le cose non lasciano ben sperare. Indubbio è che queste tematiche si rifanno a domande che l’uomo si pone da sempre rispetto alla natura umana e al libero arbitrio. Negli ultimi decenni, le neuroscienze hanno avuto sviluppi importanti per riuscire a sviluppare nuove risposte a riguardo. Questi concetti, infatti, non rappresentano più qualcosa da teorizzare in astratto, ma appaiono indissolubilmente legati alla materia da cui originano e cioè il modo in cui è fatto il nostro cervello; come è influenzato dal nostro ambiente e dalla nostra esperienza; e come a sua volta influenza il nostro modo di percepire il mondo e di reagire a esso.
La scienza sembrerebbe confermare che l’individuo sia un effetto di strutture linguistiche, istituzionali e cognitive e non tanto la sorgente originaria della propria percezione ed esperienza. Come già sostenevano gli strutturalisti, il nostro modo di pensare non deriva tanto da un dato a priori, ma da fattori ereditari e ambientali, che non dipendono da noi e che nella maggior parte dei casi subiamo, con conseguenze anche molto pesanti sulle nostra identità. Ne è un chiaro esempio l’effetto nurturing, secondo cui il cervello delle bambine prima e delle donne poi risulta profondamente influenzato nella sua struttura dagli stereotipi di genere che fin dalla nascita le femmine sono costrette a subire e con cui sono successivamente chiamate a confrontarsi.
Da queste premesse sembrerebbe che il libero arbitrio non possa esistere. Se siamo il risultato di forze ed eventi che non possiamo controllare, se il nostro ego non è un assoluto ma un collage eterogeneo di risposte alla nostra esperienza caotica, pensare di poter realmente sviluppare un pensiero oggettivo, libero e originale è semplicemente assurdo. Questo è un tema difficile da affermare, perché porta con sé notevoli conseguenze sul piano politico, legale e sociale. Anche per questo, la riflessione sulla natura umana e sul libero arbitrio è stata messa tra parentesi e si è preferito adottare soluzioni pratiche, più funzionali della speculazione teorica. Come dice Enrico Dal Buono “siamo giunti alla conclusione che la libertà non esista, ma siamo obbligati a fare come se esistesse”. Se è vero, però, che il nostro ego è un agglomerato di cause randomiche, è anche vero che siamo dotati di uno strumento unico, che potrebbe rappresentare effettivamente il nucleo del nostro presunto libero arbitrio: la coscienza.
La coscienza è il nostro testimone, l’osservatore esterno che può osservare l’Io per quello che è, e modificarlo. Dunque il libero arbitrio, a differenza di quello che di solito il senso comune ci porta a pensare, non è qualcosa che agiamo al di fuori di noi, un modo per muoverci nel mondo e plasmarlo, una volontà, ma è prima di tutto uno strumento interno, che dovremmo imparare a usare sulle nostre stesse strutture psichiche. È la visione che ci permette di andare a smantellare quelle sovrastrutture nevrotiche su cui il nostro Io finisce per reggersi, anche quando non solo non si rivelano più funzionali, ma dannose. È il caso di quei comportamenti che amiamo definire tossici, come tanti piccoli psicologi da social network. Andiamo a riproporre una risposta adattativa a un trauma interiorizzato, che magari non esiste più nella realtà, ma che continuiamo a far vivere dentro di noi. Non a caso, secondo Jacques Lacan, l’Io è semplicemente un sintomo, e rafforzarlo non significa altro che rafforzare ciò che ci ostacola nel raggiungimento della nostra verità inconscia. L’aver attraversato un evento traumatico – grande o piccolo che sia – fa sì che la nostra personalità e i comportamenti che ne derivano si innestino proprio su quel trauma. E dunque se andiamo a rimuovere il comportamento che ne è generato per difenderci abbiamo inconsciamente paura che la nostra identità crolli. Eppure è proprio in questa capacità di cambiamento che possiamo andare a trovare ciò che può renderci effettivamente liberi. Liberi di una libertà positiva che non può nuocere agli altri – per dirla con Isaiah Berlin – perché è una libertà intima, che non fa riferimento a un dissennato e protocapitalistico affermarsi dell’ego attraverso la possibilità di fare ciò che si vuole e quindi un uso parossistico e sfrenato della propria volontà, intesa come soddisfacimento del desiderio.
Il concetto del libero arbitrio è un concetto fondamentale, eppure la società occidentale, che lo ha sviluppato, ne tiene conto solo in determinati contesti e se lo dimentica in altri. La democrazia si fonda sul libero arbitrio, così come la legge. Ma se il singolo è spinto ad agire in maniera non conforme a causa dell’ambiente in cui è cresciuto e dei traumi che ha subito, e lo Stato non è stato in grado di proteggerlo e offrirgli gli strumenti necessari per cambiare, è davvero interamente colpa del cittadino se commette un crimine violento? Esempio di questa contraddizione con cui evitiamo di confrontarci è la pena di morte, ancora oggi in vigore in tanti democratici stati americani fortemente legati a una narrazione sociale legata alla Bibbia: chi compie il male non può cambiare. Una volta compiuto un crimine di un certo tipo non si torna indietro. Bisogna essere annientati. Ancora una volta, il libero arbitrio, inteso come capacità di cambiare, non sembra essere preso in considerazione.
Così, come mostra bene Mindhunter, la serie prodotta da Netflix ispirata alle ricerche dell’agente speciale dell’FBI John Douglas: il criminale è la manifestazione del Demonio in Terra e un criminale è probabilmente già tale fin dalla nascita. È proprio questa la visione miope e oscurantista contro cui si batté per la prima volta Douglas. La società è colpevole quanto l’individuo, perché quell’individuo è stato forgiato da essa. Qui si innesta anche la riflessione di Hannah Arendt sul totalitarismo, secondo cui se la natura umana non esiste allora il potere finirà per crearne finalmente una, in cui il singolo si identificherà spontaneamente, senza pressioni esterne o violenze, creando una massa su cui il potere potrà agire razionalmente e indisturbato. Riflessione questa portata avanti anche da Ivan Illich attraverso la sua analisi dell’età dei sistemi. Alla luce di queste teorie sociali andrebbero letti, ad esempio, gli ancora tanti casi di femminicidio. Il femminicidio avviene perché la società educa il maschio in un certo modo. Quindi possiamo dire che la colpa di quelle tante donne uccise ogni anno ricade per certi versi in parte infinitesimale su ciascun membro che della società.
Nella visione americana la famiglia gioca un ruolo fondamentale nella formazione dei bravi cittadini, e i figli sono diretta espressione dell’infallibilità e della conformità dei genitori. La famiglia rappresenta tradizionalmente, volenti o nolenti, la monade fondante della società, ed è a propria volta diretta manifestazione della collettività. Questa visione emerge anche dalla nota autoriale all’inizio del libro a cui si ispira Mindhunter, così come dalla serie. Il genitore del criminale o lo aiuta nell’insabbiare le prove, o si rifiuta di confrontarsi col male, o non può che sentirsi colpevole e chiedersi dove abbia sbagliato. L’essere un genitore adottivo finisce così per apparire un sollievo. Il limitare tra genetica, imprinting e stimoli ambientali d’altronde è molto sfumato, eppure ritornano dei pattern principali, su cui poi fu basato il profiling. D’altronde la triade che influenza la natura umana, “race, milieu, moment” – ovvero razza (da intendersi come fattori biologici), ambiente e momento storico – risaliva già al naturalismo francese (col determinismo materialista di Hyppolite Taine) e fu poi dispiegata letterariamente da Balzac ne La commedia umana, e sistematizzata dal suo principale esponente, Émile Zola, da cui poi prese le mosse il verismo di Giovanni Verga. Dall’opera di Verga escono individui vinti in partenza, per il semplice fatto di essere vittime e al tempo stesso prodotti della società in cui vivono. Verga esplorò in particolare il tema cruciale del male in Rosso Malpelo, che somiglia in modo inquietante a diversi profili analizzati da Douglas nelle sue ricerche sui serial killer.
Rosso Malpelo viene considerato cattivo per natura, a causa dei suoi capelli rossi, simbolo del Demonio. A causa di questo pregiudizio viene emarginato, e nemmeno la madre gli dà un minimo di affetto, arrivando addirittura ad accusarlo ingiustamente. L’unico a volergli un po’ di bene, almeno secondo Malpelo, è il padre, che però muore sul lavoro, sotto la frana di un pilastro. Da quel momento Rosso Malpelo diventa sempre più umbratile e scorbutico. Nel cantiere dove lavora viene preso un ragazzino claudicante, soprannominato Ranocchio e altrettanto emarginato e deriso dagli altri. Ranocchio viene immediatamente adottato da Malpelo, che se da un lato lo protegge dall’altro lo picchia e lo maltratta, convinto di prepararlo in questo modo al mondo, per definizione ingiusto e crudele. La storia poi finisce in nulla, con Ranocchio che muore di tubercolosi e Malpelo che scompare mentre lavora, proprio come il padre. Eppure da questa storia emerge un profilo patologico, una vittima che diventa carnefice e attua comportamenti perversi, la relazione di dominio di un uomo più grande su un ragazzino debole. Sembra davvero di sentire una delle interviste della serie Netflix. Un bambino timido ed emarginato, vittima di ingiustizie, risentimento e odio materno; un padre visto come unico portatore d’amore e idolatrato, che però a un certo punto lo abbandona; e da quel momento l’emergere del comportamento deviato, per di più nella convinzione di agire per il bene. Ma questo non è certo ciò che mi hanno insegnato a scuola rispetto a questa famosa novella cardine della letteratura italiana.
Si sente spesso dire che gli studenti non riescono ad appassionarsi ai classici e approcciano questa materia in modo svogliato. Spesso si discute sulle possibili alternative per riuscire a coinvolgere gli studenti rispetto a discipline che vengono percepite come meno necessarie di altre per il proprio futuro, se non inutili. Da parte mia posso dire che gli insegnanti che hanno segnato la mia formazione sono quelli che riuscivano a far capire il motivo per cui stavamo studiando, e che quelle materie ci avrebbero sempre potuto far comodo, anche se non avessimo scelto di farne la nostra professione, perché sarebbero andate a comporre il nostro bagaglio di conoscenze, che contribuisce a renderci ciò che siamo. Invece che tramandare nozioni in vista di una valutazione, sarebbe quindi fondamentale permettere agli allievi di capire la potenza che possono rivelare quelle stesse informazioni se inserite in un contesto attivo, di pensiero critico, fornendo loro un metodo, invece che una pesante mole di informazioni che poi non sanno come utilizzare.
Una nozione imparata a memoria, se non scopare il giorno dopo al test, rimane solo come una semplice forma scarnificata dal senso. Magari la memoria può funzionare per una poesia o per una data, ma anche quelle se non le inserisci in un contesto che padroneggi si riveleranno inutili zavorre: si finirà per pensare che “X agosto” sia “Per agosto” invece che “Dieci agosto”. Non era un caso se il metodo di insegnamento di Socrate, che prima di essere un grande filosofo era un grande maestro, fosse la maieutica, l’arte di far partorire le idee. L’allievo, infatti, deve essere accompagnato, ma il percorso deve farlo sulle sue gambe, solo così si approprierà dei materiali cognitivi e sarà poi in grado di usarli per la sua crescita. Purtroppo Gentile, sulla cui riforma si basa ancora il nostro sistema scolastico, la pensava diversamente. E così a letteratura – ma non solo – viene spesso servita precotta e già digerita da altri, e a quel punto allo studente non resta nulla da fare, nessuna attivazione mentale, nessuna creatività, se non l’uniformarsi a ciò che gli viene richiesto e alla gerarchia. I materiali culturali vengono svuotati del loro valore e trasformati in materiale di giudizio. A quel punto qualsiasi desiderio, e insieme a quello qualsiasi passione, si spegne.
La materia resta la stessa, tutto dipende dal punto di vista da cui la si osserva. Studiare le grandi opere della letteratura in chiave psicologica, oltre a ridare vita e attualità a questa materia, potrebbe farci scoprire le strutture poste alla base dell’agire dei personaggi di finzione, ciò che li rende verosimili permettendoci di immedesimarci e così di cambiare insieme a loro. Potrebbe inoltre fornire utili strumenti per analizzare noi stessi e gli altri, e così la realtà che ci circonda, e forse farci diventare più comprensivi e tolleranti, oltre a spingerci fin da giovani a intraprendere relazioni più positive col mondo e a riconoscere i comportamenti dannosi che incontriamo o assumiamo, e magari capire quando è il momento di chiedere aiuto. Anche per capire che nella realtà, così come nell’arte, la linea che separa il bene dal male è tutt’altro che chiara, a differenza di quanto predicato da Harry Powell nel famoso classico del cinema americano La morte scorre sul fiume, ed è per questo che dobbiamo studiare, proprio per evitare di diventare vittime, non solo della società ma in primis di noi stessi.