Il 3 marzo 1986 viene trovato morto nella sua casa di Milano Armando Bisogni, 48 anni. Sul tavolo della sua cucina viene trovata una bottiglia di Barbera del Piemonte e uno scontrino Esselunga da 1.860 lire. Tre giorni dopo Renzo Cappelletti, pensionato di 58 anni, muore improvvisamente per cause ignote. Negli stessi giorni al pronto soccorso del Niguarda diverse persone lamentano dolori alla testa, nausea e forti crampi. Tra loro c’è anche l’impiegato delle ferrovie Benito Casetto, che poche ore prima di morire dichiara di aver bevuto un generico vino da tavola acquistato al supermercato. Alla USL 75/15 intuiscono il legame tra i tre decessi e lo comunicano al nucleo antisofisticazioni dei Carabinieri, mentre il Sostituto Procuratore Alberto Nobili viene incaricato delle indagini. Il 18 marzo 1986 in tutta Italia scoppia lo scandalo del vino al metanolo.
Tutto ha inizio con la legge 408 del 28 luglio 1984, emanata in ottemperanza alle sentenze della Corte di Giustizia europea del 1982 e del 1983 che accusavano l’Italia di discriminare i prodotti alcolici di importazione. Lo Stato decide così di detassare il metanolo, un composto organico estratto dal legno e utilizzato nell’industria come solvente o carburante, ma presente nel vino in piccole quantità per via dell’idrolisi enzimatica che avviene durante la vinificazione. L’alcol metilico passa così a costare dalle 5mila alle 500 lire al litro e l’abolizione dell’imposta sulla sua fabbricazione consente ai produttori di evitare i controlli degli Uffici Tecnici di Finanza. La Federazione Industrie Chimiche gioisce per la semplificazione commerciale e, sebbene la legge ne vieti esplicitamente l’utilizzo nelle produzioni alimentari, il suo basso costo rende il metanolo conveniente nel mercato nero degli alcolici. In un Paese dove si consumano sessantotto litri di vino pro-capite all’anno, il metanolo diventa quindi meno caro perfino dello zucchero, e soltanto tra il dicembre 1985 e il marzo 1986 se ne vendono due tonnellate e mezzo, spesso acquistato con lo scopo di aumentare la gradazione alcolica delle bevande.
Bevande di dubbia qualità e provenienza si diffondono nella grande distribuzione, sotto forma di vini da tavola o da osteria. Un mercato che si espande progressivamente, favorito da una scarsa cultura qualitativa del vino e da una rete di controlli fragile e poco efficiente. Una crescita che si arresta solo il 18 marzo del 1986, quando le analisi di laboratorio rilevano nei bottiglioni incriminati una quantità di metanolo dieci volte superiore ai limiti consentiti (fissati in 0,16 ml ogni 100 ml di alcol etilico complessivo), sufficiente a deprimere il sistema nervoso centrale comportando danni permanenti al nervo ottico e nei casi più gravi morte immediata.
Nelle settimane successive si moltiplicano segnalazioni e sequestri in Lombardia, Piemonte, Liguria ed Emilia Romagna. La prima azienda a essere coinvolta nelle indagini è la Vincenzo Odore di Incisa Scapaccino in provincia di Asti , azienda da un miliardo e mezzo di lire di fatturato nel 1985. Ogni settimana la Odore (che è semplice rivenditrice e non produttrice) rifornisce la grande distribuzione con 15mila bottiglioni di Barbera del Piemonte, gli stessi trovati a casa dei consumatori avvelenati. Mentre intossicazioni e morti aumentano in tutto il Nord Italia, gli inquirenti cercano a risalire alla partita di vino incriminata, concentrandosi tra Asti, Alba e il territorio delle Langhe. Il colorito rossastro delle acque del Tanaro, come per uno sversamento di cisterne di vino, porta le indagini nella cittadina di Narzole (in provincia di Cuneo), con tremila abitanti e centoventi aziende vinicole, ma nessun vigneto.
La zona si trova ai margini di aree vinicole note in tutto il mondo e vive di commercio e di rivendita, nella quale opera dal 1951 Giovanni Ciravegna, cavaliere del lavoro classe 1929, noto come il signor dudes e mes (dodici e mezzo) per la sua abilità nell’aggiustare la gradazione alcolica del vino. Da lui è partito il carico imbottigliato e distribuito dalla ditta Odore di Incisa Scapaccino, e nella sua cantina gli inquirenti trovano 9mila ettolitri di vino al metanolo. Il 21 marzo il Tribunale di Milano emette un ordine di carcerazione preventiva per Giovanni Ciravegna e per suo figlio Daniele, ma le indagini si allargano a decine di aziende dal Veneto alla Puglia, nel tentativo di ricostruire la filiera criminale, mentre si contano già 19 morti accertate e 15 persone lesionate irreversibilmente, divenute cieche o ipovedenti.
Il mondo vitivinicolo implode, le vendite precipitano del 45% con un danno per l’export di mille miliardi di lire, e la credibilità enologica italiana tracolla con il blocco delle esportazioni in Spagna, Germania e Stati Uniti. Il 27 aprile migliaia di viticoltori sfilano per la città di Alba difendendo il vino buono, pulito e onesto, stigmatizzando i furbi e rompendo così per la prima volta una profonda cortina omertosa. A giugno il Governo Craxi prova a correre ai ripari stanziando cinque miliardi di lire per una campagna straordinaria di informazione alimentare. Le produzioni ripartono mettendo al centro certificazioni di qualità e garanzie di provenienza del prodotto. Calano i consumi fino ai 37,4 litri di vino pro-capite del 2019, ma aumenta la qualità.
Se il mondo vitivinicolo ha saputo risollevarsi in meglio da questa esperienza, il corso della giustizia non è stato altrettanto positivo. A metà ottobre 1987 scadono i termini di custodia cautelare per i Ciravegna e per gli altri indiziati, che tornano così alla loro vita di sempre, non prima di aver ceduto a terze persone patrimoni e singole proprietà. In attesa dell’inizio del processo, tutti gli imputati in un modo o nell’altro diventano nullatenenti e la Vincenzo Odore (che il processo stesso riconoscerà come parte lesa) fallisce. Si costituiscono parte civile i comuni di Narzole (CN) e Manduria (TA) e le Regioni Piemonte ed Emilia Romagna. Nel gennaio del 1990 le richieste che il Pubblico Ministero Alberto Nobili formula nella sua requisitoria riguardano diciotto persone, gran parte accusate di associazione per delinquere e omicidio volontario. Il processo si apre nel novembre del 1991 e termina con la condanna in primo grado per omicidio colposo plurimo a 16 anni di carcere per Giovanni Ciravegna e altri tre complici (piazzisti o autotrasportatori non piemontesi), pena poi ridotta a 14 anni nel processo di appello e confermata in Cassazione nel febbraio del 1994. Tre gradi di giudizio in cui il venditore narzolese, ritenuto la vera mente della frode alimentare, si è sempre proclamato innocente ed estraneo ai fatti, nonché vittima a sua volta di un grave imbroglio commerciale. Versione che non ha convinto i giudici, che hanno stabilito un risarcimento danni di un miliardo di lire per ciascuna delle 23 vittime accertate. Il 13 maggio 1993 nasce il Comitato Vittime Vino al Metanolo per ottenere gli indennizzi in loro favore, ma gli imputati sono ormai nullatenenti e lo Stato non interviene.
Da quasi trent’anni Roberto Ferlicca, Presidente del Comitato, tenta di risollevare l’attenzione sul caso con lettere, richieste e libri come Terrorismo Acido: “In tanti anni ho avuto contatti con Onorevoli, Ministri e Sottosegretari di tutti gli schieramenti. Parole di circostanza, fredde e asettiche, ma nulla più. Anzi, la disgustosa sensazione di essere lì per elemosinare un favore e non per rivendicare un semplice diritto”.
Giovanni Ciravegna è morto nel 2013, dichiarando ancora la propria innocenza, mentre il settore enologico si è lasciato alle spalle uno dei momenti più critici per la sua immagine internazionale. Trentacinque anni dopo lo scandalo del vino al metanolo rimangono solo decine di famiglie in attesa che la giustizia faccia il suo corso.