Un paio di anni fa, su Twitter, dove solitamente si dà spazio ai dibattiti più assurdi e spesso inutili, venne fuori un hashtag che generò non poche controversie. Si trattava di un tema lanciato da account troll e apriva la questione del #ItaliansAreBlack, ossia un pacato scambio di opinioni sul fatto che gli italiani vengano percepiti come persone di colore dagli americani. Sebbene ci siano statunitensi in giro che credono che il vulcano Etna sia stato costruito artificialmente con camion di sabbia – conversazione realmente avvenuta a cui ho avuto l’onore di assistere – non c’è molto da discutere sul fatto che al di là di cosa significhi oggi essere italiano, è piuttosto evidente che in termini di maggioranza etnica siamo sempre stati bianchi. Piuttosto, la cosa interessante di un hashtag ridicolo lanciato su Twitter, è stata osservare la reazione indignata degli Italiani, come quando vedono un video di Tasty non bianchi, che ha origine negli anni in cui eravamo noi i migranti che cercavano un Nuovo Mondo, proprio come le persone che oggi sbarcano sulle nostre coste e alle quali riserviamo trattamenti non proprio ospitali, equivale a fare uno sforzo di cambio di prospettiva forse troppo difficile. Fare questo cambio di focus però, non solo è necessario ma anche doveroso in un momento storico in cui la percezione dell’altro è un tema così delicato.
Un ottimo modo per esercitarsi in questa pratica può essere ascoltare una storia. Specialmente se è stata raccontata nel modo in cui ha fatto Giuliano Montaldo nel 1971 girando Sacco e Vanzetti, il racconto di un episodio che coinvolge due nostri connazionali e che ci mostra in modo chiaro cosa voleva dire essere dall’altra parte, quando qualcuno poteva anche darci dei “neri”, e quindi degli inferiori, secondo un binomio che ancora oggi ci portiamo dietro.
La vicenda di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, detti anche “Nick and Bart”, è forse uno dei pezzi di storia del Novecento che più è rimasto impresso nell’immaginario collettivo degli anni successivi. Non si tratta infatti di un racconto che coinvolge i grandi protagonisti della storia del nostro Paese, non si parla di dittatori, di eroi militari, condottieri o grandi scienziati, ma solo di due persone che come tantissime altre in quegli anni si erano trovate a dover cercare una vita migliore da qualche altra parte. Tra la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, infatti, noi italiani – come ben sappiamo, visto che basta osservare anche solo la quantità enorme di nostri cognomi che ci sono negli Stati Uniti, ma anche in Australia e in Sud America – ci siamo trovati dalla parte di chi lascia la propria terra per una necessità. Questo dato storico, ben documentato e dalla portata esorbitante – visto che solo negli Stati Uniti tra il 1880 e il 1915 sono emigrati circa nove milioni di italiani – è un’arma a doppio taglio, perché paradossalmente oggi viene invece usato come esempio di civiltà italico. Se messa a confronto con la migrazione odierna, quella che ci vede come luogo di approdo e non di partenza, quella italiana viene intesa come un fenomeno che ha coinvolto brava gente, lavoratori, persone perbene, mica i criminali che invece arrivano da noi oggi. La storia di Sacco e Vanzetti, a questo proposito, risulta particolarmente emblematica, dal momento in cui dà prova del fatto che anche cento anni fa erano i nostri connazionali a essere etichettati come criminali anche se erano brava gente, proprio come facciamo noi italiani con i pregiudizi che nutriamo oggi. Eppure si trattava di due uomini bianchi – considerati spesso invece neri, specialmente se erano Meridionali – italiani e onesti lavoratori.
Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, come urla a gran voce Gian Maria Volontè in una delle scene più memorabili del film – che ricostruisce tutta la vicenda dei due, compreso il processo – non solo erano italiani, ma anche anarchici. E la loro grande sfortuna, ciò che li portò a sedersi ingiustamente sulla sedia elettrica il 23 agosto del 1927, è stato il fatto di essere al contempo non solo parte di una razza ritenuta inferiore, membri di una comunità parassita, inutile e fatta solo di criminali come quella italiana – perché era questa la percezione che gli americani avevano di noi – ma anche quello di ritrovarsi in un Paese come gli Stati Uniti che non solo dava spazio a queste forme di intolleranza e razzismo spietate ma anche a un fenomeno che viene chiamato “the red scare”. Subito dopo la Rivoluzione russa, infatti, in America scoppiò questa paura destinata a ripetersi anche nel secondo dopoguerra con il fenomeno del Maccartismo e che prendeva forma attraverso la persecuzione di soggetti politici ritenuti vicini ad ambienti di matrice rossa. Negli anni del Biennio Rosso, diverse manifestazioni, scioperi e attentati si verificarono in America, molti dei quali messi in atto da gruppi anarchici: il Governo statunitense aveva il terrore che qualcuno potesse rovesciare il sistema; una paura lecita dal punto di vista di chi voleva mantenere uno stato di cose basato sullo sfruttamento dell’uomo, in anni in cui i diritti dei lavoratori erano ritenuti dai padroni come qualcosa di secondario rispetto al profitto – cosa che succede ancora adesso in diverse parti del mondo. Tra gli attivisti che lottavano per una società migliore, senza sfruttamenti né soprusi e in nome dell’uguaglianza, c’erano anche degli italiani – come per esempio l’anarchico Gaetano Bresci, responsabile dell’uccisione del Re Umberto I – motivo per cui già all’inizio del Novecento il Governo americano cominciò a emanare leggi che negassero l’ingresso negli Stati Uniti a immigrati con opinioni anarchiche. Sacco e Vanzetti, dunque, si trovavano schiacciati da una doppia morsa: colpevoli perché italiani, e dunque criminali in modo intrinseco, e colpevoli perché anarchici.
Così come Andrea Salsedo, un altro anarchico che venne arrestato illegalmente, torturato e poi buttato giù da una finestra di un ufficio dell’FBI – immagine che ritorna emblematica durante tutto il film di Montaldo, diventando il simbolo di questo racconto – Sacco e Vanzetti vengono processati per un crimine da loro non commesso, solo per fungere da capri espiatori di una lotta a un fenomeno che minacciava lo strapotere dei padroni americani. Affinché fosse chiaro che gli Stati Uniti non accettassero da fuori personaggi che mettevano a rischio un equilibrio basato sulle disuguaglianze, i due anarchici italiani furono il campo di prova per una politica della repressione, attraverso una condanna che generò dieci giorni di protesta davanti al palazzo del Governo, a riprova della sua estrema simbolicità. Eppure, nonostante le proteste e l’indignazione di chi sapeva bene che si trattava di un’ingiustizia enorme – persino Mussolini se ne era reso conto – solo cinquant’anni dopo, nel 1977, venne riconosciuto dal governatore del Massachussets Michael Dukakis che i due italiani non erano colpevoli, anche se ciò non equivalse all’assoluzione. A contribuire a quest’opera di riabilitazione e di giustizia postuma fu proprio il film di Montaldo, che uscendo nel 1971 rimise in discussione tutta la vicenda, generando una seconda ondata di supporto agli anarchici ingiustamente processati mezzo secolo prima.
Il film, infatti, mette in scena in modo accurato e al contempo anche inquietante tutte le fasi degli eventi che hanno portato alla morte di Sacco e Vanzetti, creando un’atmosfera che a tratti dà un forte senso di confusione, come a riprodurre giramenti di testa, angoscia e spaesamento. Sia nelle inquadrature che d’un tratto si fanno ravvicinate e veloci, sia nel montaggio che alterna flashback – come quello ricorrente della morte di Salsedo – a momenti del processo: Sacco e Vanzetti in alcuni momenti sembra un incubo trasposto su pellicola. I due attori protagonisti, Gian Maria Volontè – che lavorerà con Montaldo anche in un altro film che racconta una storia simile per certi aspetti, quella di Giordano Bruno – e Riccardo Cucciolla rimasero impressi per la loro interpretazione, che valse al secondo un premio come miglior attore a Cannes. Un altro elemento fondamentale fu poi la colonna sonora di Ennio Morricone, con la canzone Here’s to you, che divenne una delle più celebri tra le sue composizioni. Sacco e Vanzetti, dunque, è un film che non solo ha dato modo a un nuovo pubblico di rivivere e riscattare due personaggi della nostra storia, consentendo anche una riabilitazione formale negli Stati Uniti – unendosi ai tantissimi altri tributi che hanno avuto negli anni in diverse forme, da canzoni a citazioni in serie televisive come I Soprano – ma è anche un esempio di cinema italiano di altissima qualità. Specialmente a livello di scrittura, con una sceneggiatura che – grazie anche a grandi attori – ha un impatto enorme su chi guarda, in particolare nei momenti del processo in cui più si avvertono le disuguaglianze e le discriminazioni a cui erano soggetti gli italiani del secolo scorso che emigravano. “Italiani, greci, polacchi, cileni, fa pena pensare ai loro sforzi inumani per mettere radici in una civiltà superiore”, dice l’avvocato dell’accusa quando si rivolge ai due condannati, fornendoci una lista emblematica di quelle popolazioni che fino a poco tempo fa ricoprivano il ruolo di incivili, miserabili, criminali, creature inferiori della storia dell’umanità, che non meritavano certo l’accoglienza nel Paese della cuccagna.
Oggi Sacco e Vanzetti è considerato un classico del nostro cinema, un film cult che racconta una storia tanto nota e indimenticabile da diventare il testo di una canzone dei Two Fingerz. Per quanto possano essere stati riabilitati dal corso della storia questi due uomini però, la vicenda che Montaldo racconta nel suo film deve darci lo spunto per rivedere cosa stiamo sbagliando nel presente. Il razzismo e l’intolleranza che oggi riversiamo sui migranti è inaccettabile, e per aiutarci a capirlo, come al solito, basta fare lo sforzo di metterci nei loro panni, che erano i panni dei nostri stessi nonni e bisnonni. Chi usa come scusa la questione del “Noi migravamo per lavorare, loro per rubare”, si deve ricordare proprio di questa storia per rendersi conto che è un’argomentazione demenziale: ci sono migranti che si ritrovano coinvolti nella criminalità per disperazione, ci sono lavoratori, ci saranno anche malavitosi e sfruttatori, ma prima di tutto ci sono persone. Sacco e Vanzetti erano due lavoratori che avevano anche la sfortuna di voler credere in ideali di uguaglianza e rispetto del genere umano, cosa che gli è costata la vita. Nessuno – account troll a parte – pensa che gli italiani siano “neri”, molti però pensavano che fossero delle bestie, e non bisogna andare lontano per percepire atteggiamenti razzisti anche nei nostri confronti da parte di popoli più ricchi e stabili di noi. È sempre bene ricordarsi le storie del passato e tenere sempre ben presente che potremmo essere noi nei panni dei più sfortunati per evitare di compiere gli stessi errori e magari anche di ricevere di nuovo il benservito e agire perché l’ingiustizia non si ripeta.