Lungo il canale Landwehr, ai margini del Tiergarten, a Berlino, c’è un monumento che somiglia al logo di un supereroe. È il bassorilievo del nome di Rosa Luxemburg: si protende verso chi cammina lungo il canale e sembra quasi voler riemergere dall’acqua, pieno di forza e al tempo stesso di grazia, riconoscente per i fiori che qualcuno, passando, lascia spesso lì accanto o sulla cancellata. Si trova nel punto in cui, già morta, Rosa fu gettata nel canale dai suoi assassini, non lontano da dove, più o meno nello stesso momento e dalle stesse squadre di sicari, veniva abbandonato anche il corpo del suo compagno nella Spartakusbund (la Lega Spartachista), Karl Liebnecht. Successe il 15 gennaio 1919, esattamente un secolo fa.
La rivoluzione proletaria allora in corso in Germania, pur fra tante debolezze, era in pieno svolgimento: grazie ai Consigli di fabbrica e non solo iniziava a mettere in discussione la proprietà privata, a proporre la socializzazione dei mezzi di produzione e la creazione di una società nuova. I proletari e i soldati, sfiancati dalla prima guerra mondiale, sognavano un mondo in cui la vita umana avesse valore e dignità per tutti, anche per il popolo. Rosa Luxemburg, quel mondo, era capace di farglielo vedere. “Socialismo o barbarie”, diceva. E non si trattava di una dicotomia astratta, di un annoiato esercizio intellettuale. Per milioni di donne e uomini in tutta Europa rappresentava la concreta differenza tra morire e uccidere da un lato, degradando se stessi a macchine da guerra, o cercare di vivere da umani dall’altro, realizzando quello che all’epoca era ancora un sogno concreto: il socialismo. Sogno degli oppressi e degli emarginati di tutto il mondo, incubo e minaccia insopportabile per le classi dominanti e per lo Stato borghese.
Per sconfiggere la minaccia, i socialdemocratici (Spd) al governo in quel momento – partito in cui Luxemburg e Liebnecht avevano militato per anni, fino allo scoppio della guerra – non si fecero scrupolo a ricorrere ai corpi paramilitari di estrema destra e sguinzagliarli come belve feroci a caccia di tutti i rivoluzionari, cominciando proprio dai loro ex compagni. La borghesia diede la stura alla barbarie al fine di uccidere il sogno socialista, approfittando dell’odio che molti dei Corpi Franchi nutrivano nei confronti dei rivoluzionari. Lo stesso odio che, di lì a qualche anno, si sarebbe cristallizzato nel regime nazista, i cui prodromi si possono rintracciare proprio in quel pomeriggio di sangue di 100 anni fa e nelle giornate successive, quando i paramilitari decapitarono la rivoluzione tedesca uccidendone i principali leader. Li odiavano perché erano socialisti, perché rivoluzionari e internazionalisti, e perché, in molti casi, ebrei.
Anche Rosa Luxemburg era ebrea. Ebrea, donna, polacca, di bassa statura, zoppicante da una gamba a causa di una malattia infantile. Vista con gli occhi del vittimismo che tanto va di moda oggi la si sarebbe potuta relegare facilmente al ruolo di perfetta emarginata. E invece fu tutto l’opposto. Fu una grande protagonista dell’epoca che, al contrario, detestava qualsiasi forma di autocommiserazione o vittimismo. Una leader capace di tenere testa ai giganti del tempo: a Lenin, a Trotsky, al “Papa Rosso” Kautsky, leader storico della Spd, considerato a quei tempi l’erede ufficiale di Marx. Con tutti loro non si fece scrupolo a polemizzare, a condurre battaglie ideali rigorose, nel nome del socialismo rivoluzionario, contro tutte le tentazioni che la gestione del potere comportava. Fu la più coerente e la più coraggiosa anche nel polemizzare con i bolscevichi all’indomani della rivoluzione, nel ricordare ai suoi compagni russi che non è vero che il fine giustifica i mezzi, e che la soppressione della democrazia in nome della “dittatura del proletariato” era un grave errore. In un documento critico alla rivoluzione russa – pubblicato postumo, nel 1921, dal suo compagno spartachista Paul Levi – scrisse: “Sicuramente ogni istituzione democratica ha i suoi limiti e i suoi difetti, come tutte le istituzioni umane. Ma il rimedio trovato da Lenin e Trotsky – sopprimere la democrazia in generale – è ancora peggiore del male che si deve curare: esso ostruisce infatti proprio la fonte viva dalla quale possono venire le correzioni alle imperfezioni congenite delle istituzioni sociali. La vita politica attiva, libera ed energica della grande maggioranza delle masse popolari”.
Anche la guerra, che i bolscevichi vollero sfruttare come opportunità rivoluzionaria, secondo Rosa Luxemburg sarebbe stata un grande ostacolo sulla via della “futura umanità” liberata. La guerra imperialista e nazionalista avrebbe prodotto lacerazioni, messo le persone una contro l’altra e sfibrato le coscienze attraverso lo sciovinismo. “Questo spaventoso massacro reciproco di milioni di proletari al quale assistiamo attualmente con orrore, queste orge dell’imperialismo assassino che accadono sotto le insegne ipocrite di ‘patria’, ‘civiltà’, ‘libertà’, ‘diritto dei popoli’, e che devastano città e campagne, calpestano la civiltà, minano alle basi la libertà e il diritto dei popoli, rappresentano un tradimento clamoroso del socialismo”. Così scriveva, nel 1914, in una lettera alla redazione della rivista inglese Labour Leader. Se molti sovranisti odierni che si professano socialisti o antimperialisti avessero il coraggio di leggere le sue parole adesso, non potrebbero fare altro che vergognarsi profondamente, oppure farsi rodere dall’odio e dal bisogno di zittirla. È quanto accadde, in fondo, anche a molti suoi contemporanei, che mal ne sopportavano la lealtà aperta.
Rosa Luxemburg sapeva leggere la storia, cercava di capire dove andasse. E della storia si sentiva pienamente parte, disposta a “gettare con gioia la propria vita sulla ‘grande bilancia del destino’, quando è necessario farlo, ma nel contempo gioire di ogni giorno di sole e di ogni bella nuvola”, come scrisse in una delle sue più belle lettere dal carcere. Trascorse detenuta lunghi periodi e lo accettò serenamente, come uno dei prezzi da pagare per la scelta di vivere da rivoluzionaria. Una scelta che aveva compiuto già da giovanissima, quando in Polonia, ancora adolescente, iniziava a sfidare il potere partecipando alle attività dei gruppi proletari di Varsavia. Ma sfidare il potere, per lei, non fu mai un esercizio muscolare né tantomeno di odio. Significava innanzitutto esaltare la libertà di vivere da umani, di pensare, di apprezzare la bellezza, l’arte, gli affetti. Considerava il socialismo una scelta armoniosa al suo spirito pacifico e pacifista. E le lettere che dal carcere ha indirizzato a compagni e compagne, amici e amori, ne rappresentano le testimonianze più dirette: sempre pronta alla polemica, non faceva sconti a nessuno quando si trattava di idee, di scelte, di coerenza. Ma era una donna anche capace di esprimere la profonda sincerità del suo amore per la vita e per le persone. Riteneva il dissenso una delle basi fondanti della ricerca di libertà e nel suo coraggio di pensare, e di non farsi censurare da alcun genere di autorità costituita, si ritrova tutta la sua caratura. Ricorda ancora una volta a Lenin e a Trotsky, nel documento sulla rivoluzione russa: “La libertà solo per i sostenitori del governo, solo per i membri di un partito – numerosi quanto si vuole – non è libertà. La libertà è sempre e soltanto la libertà di chi la pensa diversamente”.
Questo principio così controcorrente nel suo stesso ambiente di provenienza, ignorato e rinnegato anche fra i pochissimi epigoni luxemburghisti rimasti oggi, Rosa Luxemburg lo applicò in ogni movenza: traducendo lei stessa un intervento nell’Internazionale che era rivolto contro di lei, o accettando di rimanere in minoranza quando nei gruppi dirigenti che costruiva si confrontavano opinioni diverse dalla sua. Trattava tutti, rispettosamente, da suoi pari: dai domestici ai capi di partito. Era consapevole delle sue tante diversità, fra le quali ci fu anche non ritenersi mai una femminista, nonostante le battaglie di molte sue compagne anche all’interno del movimento rivoluzionario tedesco, e nonostante la sua lotta per vedersi riconosciuta come leader in un ambiente maschile e maschilista. Ci scherzava su dicendo di essere “l’unico uomo della Spd”, riferendosi al partito nel quale a lungo militò e per mano del quale, infine, trovò la morte, quando di fronte all’incrocio epocale fra guerra e rivoluzione, la socialdemocrazia scelse la guerra e l’imperialismo, mentre lei e i suoi compagni nella Spartakusbund scelsero di fare “guerra alla guerra”, come disse Karl Liebnecht. Di rimanere, cioè, coerentemente dalla parte degli oppressi e degli sfruttati, dell’internazionale e della libertà.
Questo articolo è stato pubblicato la prima volta il 15 gennaio 2019.