Ancora oggi, quando ormai appare chiaro il segno che l’uomo è riuscito a imprimere sul mondo in tutta la sua forza distruttiva, quando la fine dell’antropocene è sulla bocca di tutti ma non sempre è chiara la portata dell’espressione, il nostro immaginario morale resta polarizzato da due aggettivi: “umano” e “animale”. Umano è tutto ciò che è buono e giusto, animale tutto ciò che è bestiale, ferino, sbagliato. Eppure, basta fermarsi un momento a pensare al significato di questi due termini per capire che ormai non sono altro che assurdi false friend e che sarebbe ora di rinnovare il nostro linguaggio, che alla fin fine, e su questo sono tutti d’accordo, dà forma alle cose.
Il nostro giudizio morale oscilla ancora tra l’umano e l’animale e ciò è abbastanza paradossale dato che ciò che siamo culturalmente abituati a considerare come buono nei nostri comportamenti è in realtà riscontrabile in diverse altre specie, come ad esempio le api, i piccioni o le formiche che hanno sistemi sociali simili ai nostri, per non parlare delle classiche scimmie che ridono, orche che piangono e lucertole che sbadigliano, topi che rispondono nel nostro stesso modo alle dipendenze e gatti che sognano e si annoiano. Quando usiamo queste espressioni attraverso un salto semantico ci dimentichiamo di essere animali, proprio come tutti gli altri, ma d’altronde per considerarci parte dell’umanità siamo culturalmente spinti a eliminare tutto ciò che ci ricorda di appartenere allo stesso regno delle bestie. L’uomo è proprio quell’animale la cui azione primaria potremmo dire è di separarsi dal resto dell’esistente. Il processo di individuazione della nostra psiche produce inevitabilmente un soggetto e questo soggetto non fa che ridefinire costantemente la propria unicità, il suo essere diverso da tutti gli altri – cosa vera e non vera al tempo stesso, come sappiamo nessuno è originale, anche se il mix di geni ed esperienze che ci forgia è effettivamente irriproducibile.
Dal momento in cui si forma l’io si definisce poi anche un tu e antropologicamente lo scopo del soggetto appare così quello di limitare la libertà degli altri soggetti. La storia che sostiene che l’uomo possa andare d’accordo con gli altri uomini dunque (e con le altre specie), nonostante il potere dei neuroni specchio e dell’empatia, sembra essere in realtà, alla luce di quanto è ciclicamente successo nella storia, e succede ancora oggi, a dir poco ottimista. Con buona pace di “We Are The World” che ci hanno costretto a imparare per la festa di Natale delle elementari in un inglese fantasioso e del “Gloria in excelsis Deo”, il conflitto, lo sfruttamento, la segregazione e l’esclusione, come scrive nella sua Filosofia dell’animalità Felice Cimatti, sono impliciti nel gesto antropogenico fondamentale del dire “io”. Il resto è retorica, più o meno riuscita. Questo non significa certo giustificare certi comportamenti, ma riconoscerli come problematici e come parti integranti del nostro essere, anche per cercare di risolverli – dato che regolano sia il nostro rapporto col mondo che con gli altri uomini.
Si potrebbe dire che il punto non è tanto dire perché noi siamo diversi dagli altri, ma in che modo siamo simili, e non quanto gli altri siano simili a noi. Ma anche questo processo è fuorviante. Nel concetto stesso di somiglianza, infatti, è insito un pericoloso fraintendimento, con cui l’uomo è spontaneamente portato a catalogare il mondo – e così le discipline che ha creato, un bias che affonda nella sua stessa struttura psichica e percettiva e che ancora oggi ci definisce senza che ce ne accorgiamo. L’altra faccia della somiglianza è l’esclusione – dai diritti, dalla protezione offerta dal patto sociale, confraternita dei privilegiati. Se vogliamo ottenere un mondo realmente più equo e inclusivo dobbiamo scardinare questo meccanismo e ampliare i diritti proprio a chi non è in alcun modo assimilabile a noi, all’assolutamente diverso, non “concederli” a chi riesce a dimostrare di essere in possesso di determinate caratteristiche, ma estenderli.
Il riferimento in base a cui riconoscere questi diritti come sappiamo è rappresentato, per una lunga serie di ragioni storiche (che hanno a che fare con la sopraffazione, la violenza, il potere e l’esclusione), da esseri umani, bianchi, maschi e cisgender. Non a caso gli schiavi erano considerati animali, forza lavoro, così come i gladiatori buttati nelle arene. In seguito si considerarono in questo modo le popolazioni native delle terre da conquistare. Fino ad arrivare al Novecento e alla giustificazione teorica dell’orrore che ha visto il suo compimento nel nazismo. Col passare dei secoli e con lo sviluppo progressivo del pensiero e della civiltà si arrivò infatti alla teoria della razza per poter giustificare i comportamenti atroci perpetrati contro alcune popolazioni.
L’uomo si sente unico e per secoli ha cercato di dimostrare in maniera sempre più approfondita questa sua unicità, un po’ per giustificare da un punto di vista etico il suo dominio sulle altre specie e sul mondo, un po’ per prenderne le distanze. Così se ne è allontanato sempre di più, trasformando attraverso questo processo il mondo, le sue leggi e tutto ciò che lo popola in un suo oggetto. Il problema principale di questa oggettificazione, sostenuta in tempi più moderni prima dalla filosofia, poi da un determinato approccio scientifico patriarcale e infine dal capitalismo, è che come in qualsiasi processo di oggettificazione si sacrifica l’empatia. A questo proposito non è un caso che tra gli attivisti ci siano tanti appartenenti a minoranze, come donne e popolazioni indigene animiste, sistematicamente derise e sminuite per secoli da noi, “illuminati” conquistadores occidentali, dalle cui culture invece avremmo molto da imparare. Per millenni queste e altre popolazioni, disseminate nei più lontani angoli del pianeta, svilupparono sistematicamente tecniche in grado di aiutarle a disinnescare l’identificazione totale con l’Io, attraverso pratiche ascetiche, utilizzo di droghe e rituali, in modo da riuscire a oltrepassare i confini dell’individualità e tornare a fondersi col tutto. Sensibilità simili erano peraltro presenti anche in Europa ma sono state spazzate via e completamente dimenticate, in primis dalla Chiesa, anche se è noto che molte donne portatrici di questa cultura, guaritrici occidentali, spesso filosofe e mistiche, si rifugiavano proprio negli stessi conventi, in modo da fuggire allo stigma sociale della “strega”. Basti pensare a Ildegarda di Bingen, monaca, naturalista, erborista, linguista, musicista, poetessa e cosmologa, oltre che consigliera politica.
In quest’ottica pensare che persone che si battono per l’inclusione e per l’uguaglianza di tutti gli esseri umani non siano poi sensibili agli abusi che compiamo sistematicamente sugli animali e sulle piante, considerandoli non tanto esseri viventi di seconda, terza, quarta, quinta categoria, ma come “cose”, appare come una contraddizione in termini. Riconoscere questo punto e le implicazioni che porta con sé – che piano piano la scienza sta dimostrando ma di cui l’uomo sembra essere stato consapevole fin dall’alba dei tempi – è come smuovere un mattone alla base della torre di Jenga, che costringe a rivedere l’intero impianto sociale ed economico, oltre alla nostra percezione più intima. Nel 1934 il filosofo e zoologo estone Jakob von Uexküll, che ispirò poi Heidegger e il filone della biosemiologia, suggeriva di considerare gli animali come soggetti, eppure anche in questo caso era un ricondurli all’umano. Forse dovremmo semplicemente avere l’umiltà di non credere di capirli, perché probabilmente è impossibile. Eppure possiamo sempre immaginare, superare le nostre piccole certezze, fondate nella maggior parte dei casi su pregiudizi.
Sempre Cimatti ricorda un passaggio del Dialogo dell’albero, scritto nel 1943, proprio sotto l’occupazione nazista da Paul Valéry (e tradotto in italiano quello stesso anno da un altro grande poeta, Vittorio Sereni), in cui parlano Titiro, un pastore appoggiato al tronco di un faggio maestoso, e il poeta Lucrezio, autore del De rerum natura (“La natura delle cose”). Titiro dice rivolgendosi a Lucrezio: “Tu fai professione di capire le cose: su questo faggio immagini di saperla molto più lunga di quanto esso stesso potrebbe sapere, se avesse un pensiero che lo inducesse a credere di conoscersi… Quanto a me […] La mia anima oggi si fa albero”. Ancora una volta venivamo invitati a dubitare a trascendere la nostra percezione.
Un radicale ripensamento del nostro sistema non può prescindere dal ripensamento del nostro ruolo in quanto animali, dalla messa in discussione del podio su cui quotidianamente ci posizioniamo, da cui nasce lo stesso concetto di privilegio e di gerarchia. Cambiare questo sistema significa rimettere in discussione non tanto le cose, quanto la nostra prospettiva su di esse, rinunciando alla nostra superiorità, a quel privilegio autoconsacrato che genera ogni diseguaglianza, tra noi e le altre specie e tra gli stessi esseri umani.