Negli ultimi tre anni numerosi storici hanno pubblicato testi di rilievo sulla prima guerra mondiale che hanno contribuito all’approfondimento delle nostre conoscenze di questo periodo storico: ad esempio quello di Alessandro Barbero sulla disfatta di Caporetto, o il recente lavoro di recupero delle fonti di parte austriaca della battaglia di Vittorio Veneto del 1918 di Mario Isnenghi e Paolo Pozzato. Lavori che con un approccio multidisciplinare complicano il quadro storico attorno alla Grande Guerra studiando il conflitto da diversi punti di vista, come quello di Nicola Labanca e Oswald Überegger che presenta la prima guerra mondiale sul fronte italiano comparando le fonti prodotte da entrambe le parti. Però, accanto a questa produzione accademica, che ha toccato solo parzialmente il pubblico più generalista, numerosi esponenti politici hanno descritto e celebrato la Grande Guerra in termini quantomeno discutibili, ottenendo invece una visibilità di massa.
Lo scorso 4 novembre Fratelli d’Italia ha pubblicato attraverso i propri canali ufficiali un video per le celebrazioni del centenario della fine del conflitto definendolo una guerra difensiva in cui gli italiani dovettero proteggere i confini nazionali contro il nemico invasore, una guerra combattuta per difendere la sovranità italiana contro lo straniero, aggiungendo un inquietante parallelismo fra l’Impero Austro-ungarico e un nuovo Impero di speculatori e burocrati che starebbe, oggi, assediando l’Italia. Giorgia Meloni e il suo partito, però, non sono gli unici a dedicarsi a questo tipo di retorica. Qualche mese fa, il 9 aprile 2018 – in piena crisi di Governo – Salvini aveva twittato da Redipuglia un elogio ai soldati italiani morti per la difesa dei confini nazionali. E in precedenza, in occasione del centenario dell’entrata in guerra dell’Italia nel 1915, aveva lanciato una manifestazione dal titolo Non passa lo straniero. Uno slogan ripreso anche da Fratelli d’Italia nel loro video di cui sopra.
Queste narrazioni della prima guerra mondiale hanno in comune tre tratti distintivi: raccontano la guerra come un conflitto difensivo, con l’Italia impegnata a proteggere i confini nazionali; ignorano le reali motivazioni economiche della guerra; rimuovono del tutto i conflitti all’interno dell’esercito e della società italiana dell’epoca. E sono completamente errate.
Innanzitutto, la prima guerra mondiale fu una guerra di aggressione, non di difesa. Il 23 maggio 1915 fu il governo Italiano, presieduto da Antonio Salandra, a dichiarare guerra all’Austria-Ungheria. Se guardiamo bene il video di Fratelli d’Italia, anche la scelta dei luoghi nominati nel video è strumentale alla costruzione della narrazione eroicizzante di un popolo italiano unito e coeso che fronteggia l’invasione. Vengono nominati il Piave, il Monte Grappa e il Montello: un fiume, una collina e un massiccio montuoso che costituirono la linea su cui si attestarono le truppe italiane dopo la rotta di Caporetto nel 1917. L’uso di questi tre luoghi geografici viene utilizzato per presentare l’esercito italiano come difensore della patria contro l’invasore straniero, cancellando però due anni di guerra in cui, al prezzo di centinaia di migliaia di morti, l’esercito invasore era stato quello italiano. Siamo di fronte a una strumentalizzazione geografica e storica: definire la prima guerra mondiale come un conflitto difensivo contro un fantomatico invasore straniero è una falsificazione inaccettabile, anche se dura – spesso bipartisan – da parecchi anni.
Inoltre, se il nazionalismo e l’irredentismo giocarono un ruolo nel mobilitare un settore del fronte interventista, i reali motivi dell’entrata in guerra dell’Italia furono soprattutto di natura economica. Accanto alle pressioni di numerosi industriali, che videro nel conflitto un’occasione di facili profitti, il momento decisivo per l’entrata in guerra del Regno d’Italia fu la firma del Patto di Londra. In questo accordo diplomatico Francia, Russia e Inghilterra assicuravano all’Italia in caso di vittoria l’espansione del confine fino al Brennero, con l’occupazione di intere porzioni di territorio abitate da popolazioni germanofone; l’assegnazione del Friuli e della Venezia Giulia fino a Trieste compresa; Istria e Dalmazia, con l’occupazione di territori in cui gli italiani erano una netta minoranza della popolazione complessiva, e nei quali poi l’Italia attuerà una brutale politica di assimilazione e italianizzazione forzata, peraltro mai riuscita del tutto; lo smembramento dell’Albania in un settore sotto diretto controllo del Regno d’Italia – le regioni costiere, più interessanti dal punto di vista economico – e in un piccolo regno nell’interno, che restava comunque sotto la sfera d’influenza italiana; il riconoscimento della sovranità sul Dodecaneso e la Libia, occupate nel 1912 ai danni dell’Impero Ottomano; e infine altre compensazioni coloniali in Africa e nella Turchia interna. Come risulta chiaro dalle clausole del Patto, l’Italia entrò in guerra a seguito della promessa di vedersi riconosciute numerose compensazioni territoriali, alcune delle quali possono essere definite senza dubbio come delle vere e proprie colonie da sfruttare economicamente.
Questi racconti tralasciano del tutto un grande conflitto che lacerò l’Italia dell’epoca: quello tra una minoranza interventista, supportata da moltissimi organi d’informazione, dal Corriere della Sera al Popolo d’Italia di Mussolini, che comprendeva numerosi industriali, repubblicani, socialisti interventisti; e una maggioranza della popolazione italiana contraria alla guerra, in un fronte composito, trasversale e disorganizzato che comprendeva socialisti neutralisti, cattolici, la grande massa dei contadini, perfino settori del notabilato liberale. Questa spaccatura che lacerò la società italiana prima e durante la guerra viene dimenticato in favore di una narrazione unitaria e di una memoria condivisa che poco corrisponde alla realtà dei fatti.
Ma c’è anche un altro conflitto che viene dimenticato o taciuto: quello fra i Comandi e i soldati, che si manifestò nelle diserzioni, nella renitenza alla leva e nelle condanne dei tribunali militari. In questo senso è emblematica la figura del generale Cadorna, autore di una feroce repressione ai danni dei soldati italiani. Ma la questione trascende la figura del singolo e si configura come un vero e proprio problema strutturale dell’Esercito Regio: riporta lo storico Piero Purich, per tutta la durata della guerra si intentarono ai danni dei soldati italiani circa 870.000 processi, e il 62% di questi si conclusero con una condanna. Di questi procedimenti penali, 470.000 furono per renitenza alla leva, fra cui 370.000 a carico di imputati residenti all’estero che rifiutarono di rientrare in patria. Gli altri 400.000 vennero inquisiti per i seguenti reati commessi sotto le armi: diserzione, casi di indisciplina, mutilazione volontaria – di solito per evitare di finire in prima linea e essere mandati al macello contro le trincee nemiche – resa e sbandamento. Parliamo del 6% di inquisiti nell’intero esercito regio, sintomo di una grave frattura fra Comandi e fanti, simile a quella che si produsse in altri eserciti europei.
Le ricostruzioni arbitrarie attorno alla Prima Guerra Mondiale non sono solo appannaggio di Fratelli d’Italia o della Lega. Il Presidente della Repubblica Mattarella, in occasione delle celebrazioni ufficiali del 4 novembre 2018, nel messaggio inviato alle Forze Armate ha affermato che la guerra fu “meta del lungo percorso risorgimentale”. Anche questa frase, più che rappresentare la realtà storica, ricalca l’orizzonte ideologico di quel settore di interventisti animati da ideali nazionalisti, irredentisti o repubblicani, che effettivamente videro la guerra come compimento del Risorgimento. Ma questa fu solo una delle narrazioni propagandistiche dell’epoca che, se presa da sola ed elevata a verità universale, fornisce una visione parziale e dunque errata della prima guerra mondiale. Come abbiamo già visto, infatti, alla fine della guerra l’Italia si spinse oltre i confini attuali e occupò tutta una serie di territori della cui “non italianità” nessuno può dubitare. Il Patto di Londra svela in modo inequivocabile le motivazioni economiche della guerra, che rappresenta l’entrata dell’Italia nel gioco delle potenze imperialiste europee.
Siamo dunque di fronte a un processo di produzione di narrazioni fuorvianti attorno alla prima guerra mondiale, di varia matrice politica ma dai contenuti simili. Ricostruzioni che non solo hanno poco a che fare con lo sviluppo oggettivo degli eventi storici, ma che ne distorcono alcuni fino al punto di falsificarli. Quella a cui assistiamo non è la spiegazione di un processo storico, con le sue cause, i suoi effetti sul presente, i suoi responsabili e le sue vittime, ma un vero e proprio processo di revisionismo storico che piega gli eventi a specifici interessi politici ed economici. Costruire una narrazione condivisa tacendo le spaccature che si produssero nella società italiana dell’epoca è utile a chi non vuole analizzare i conflitti in corso nella nostra società, e li vuole anzi nascondere, quando studiarli e comprenderli a fondo sarebbe la chiave per riuscire a interpretare criticamente e con una prospettiva non solo i processi storici del passato ma anche le dinamiche politiche, economiche e sociali del presente.