Storia di rapine, di fughe e di pistole. Il bel René, Renato Vallanzasca, il vero bandito di Milano. - THE VISION

Il 28 aprile del 1980 gli uomini che stanno per evadere dal carcere di San Vittore hanno pianificato bene le cose. Hanno corrotto una guardia carceraria, hanno fatto arrivare tre pistole e indossano le scarpe giuste. Alle 13:20 inizia l’ora d’aria. La loro cella dovrebbe essere la prima ad aprirsi, ma con una scusa fanno in modo che sia l’ultima. Man mano che gli altri detenuti passano per uscire li informano di quello che sta per succedere. Rimasto solo in cella, un detenuto si nasconde la pistola tra le gambe e aspetta arrivi la guardia carceraria a fare la solita perquisizione. Ci chiacchiera per tranquillizzarlo, poi escono. Il detenuto tira fuori la pistola e la preme contro la schiena del brigadiere, ordinandogli di fingere un malore. Attraversano il cortile dove gli altri fanno finta di non vedere, fino alla garitta: “Vieni a darmi una mano!”, esclama il detenuto, “Non vedi che sta male?”. La guardia dietro il vetro antisfondamento ci pensa un po’, perché l’uomo che sorregge il brigadiere è Renato Vallanzasca.

Vallanzasca era nato a Milano il 4 maggio del 1950, ed era subito partito male. A otto anni s’era fatto due giorni di carcere minorile per aver liberato gli animali di un circo ed era stato affidato alla prima moglie di suo padre, nella periferia sud-ovest della città. Aveva formato la sua prima compagnia di bulli con cui commetteva piccoli furti e atti di vandalismo. Raggiunta l’età per studiare ragioneria, lui e la sua ghenga già taccheggiavano Upim, Standa e Rinascente, tanto da farsi notare dalla Ligéra, la microcriminalità meneghina. Erano andati avanti così fino agli anni Settanta, quando l’Italia del dopoguerra era diventata quella degli anni di piombo: trovare armi era facile e loro facevano una rapina a mano armata a settimana. Arrivavano, sparavano in aria coi mitra e si prendevano l’incasso. Poi lo spendevano in vestiti firmati, gioielli, donne e gioco d’azzardo.

Renato Vallanzasca

A San Vittore, la guardia carceraria esce dalla garitta e si trova una pistola puntata in faccia. Vallanzasca entra e apre i cancelli della passeggiata liberando tutti i detenuti. Gli altri complici si fanno avanti, ognuno con i propri attrezzi. Coltelli, pistole, spranghe di ferro e utensili da muratore. Vallanzasca fa spogliare le guardie in modo da indossare le loro divise mentre con Antonio Colia, il suo braccio destro, gioca al buono e al cattivo con il brigadiere: mentre lui gli urla insulti e minaccia stragi, l’altro finge di tranquillizzarlo. La guardia carceraria giura che farà quello che gli dicono; si metterà in prima fila e farà aprire i cancelli che separano il cortile dall’ingresso principale. Funziona. Un cancello dopo l’altro, Vallanzasca e i suoi complici accumulano armi e ostaggi. Arrivano al corridoio degli avvocati, sapendo che all’ora di pranzo è deserto. L’ultima tappa è il doppio cancello, che pullula di guardie.

Nel 1972, Milano veniva definita “la Chicago italiana”. La gente era terrorizzata all’idea di uscire di casa. C’erano rapine e sparatorie ogni giorno. Appartamenti, supermercati, negozi, banche poste, gioiellerie: niente era sicuro. Mentre le Brigate Rosse compivano rapine, gambizzavano e assassinavano, nelle strade imperversava la gang di Francis Turatello, che controllava droga e prostituzione, Draga Petrovic controllava bische e gioco d’azzardo, e poi c’era la banda di Vallanzasca, composta da Antonio Colia, il cervello che pianificava le rapine; Vito Pesce, un pluriomicida fidanzato con una ex modella con una croce nazista tatuata sul seno; Claudio Gatti, appassionato di armi da fuoco; Rossano Cochis, e una nutrita schiera di teste calde.

Renato Vallanzasca e Francis Turatello al matrimonio del primo celebrato nel carcere di Rebibbia, 1979. Foto via Wikimedia Commons

A San Vittore, arrivati all’ultimo doppio cancello da attraversare, Vallanzasca ha un colpo di fortuna. Il portiere sta infatti aprendo il primo cancello a un suo collega. Spingendo il brigadiere, Vallanzasca apre il secondo, poi si precipita dentro alla portineria. Incrocia un avvocato che sta parlando con un magistrato. L’avvocato lo riconosce, gli vede la divisa addosso e sbianca. Vallanzasca gli rivolge un’occhiata “eloquente” e l’avvocato si volta, fingendo che vada tutto bene. La guardia dell’ultimo grande cancello sta litigando con un’altra e nemmeno alza la testa: fa direttamente scattare la serratura. Il piantone all’ingresso del carcere, però, è una storia a parte. Vallanzasca lo afferra per il collo e lo tira dentro per disarmarlo, scopre però che ha la fondina vuota. Il piantone dice che non porta la pistola perché pesa troppo. Vallanzasca allora lo fa inginocchiare contro il muro, lo minaccia e scappa.

A Vallanzasca era andata bene fino alla rapina dell’Esselunga di via Monte Rosa a Milano, nel 1972. Poi, dieci giorni dopo, gli era arrivata a casa la polizia. L’allora capo della Squadra Mobile Achille Serra l’aveva fatto portare in commissariato mentre gli agenti perlustravano casa. Vallanzasca, una volta arrivato nell’ufficio di Serra, aveva appoggiato un rolex d’oro sulla sua scrivania: “Caro Achille”, gli aveva detto, “Se riesci a mandarmi in galera io te lo regalo”. Serra aveva trattenuto la rabbia a fatica. In quel momento gli agenti avevano telefonato per comunicare di aver trovato dei pezzi di carta sminuzzati durante la perquisizione nell’abitazione di Vallanzasca. Una volta ricomposti, avevano scoperto essere le buste paga del supermercato. Serra aveva allontanato l’orologio, poi si era rivolto a Vallanzasca: “Tienitelo pure”, gli disse, “Tanto ti arresto lo stesso”. Finito a San Vittore, Vallanzasca aveva passato quattro anni a organizzare rivolte e pestaggi, poi aveva corrotto un infermiere per riuscire a essere trasferito all’ospedale per le malattie infettive, in seguito a una patologia autoindotta. Arrivato lì aveva corrotto il piantone promettendogli tre milioni di lire. Era il 28 luglio del 1976.

Uscito dal portone del carcere di San Vittore, Vallanzasca vede subito un’auto con tre carabinieri di scorta al magistrato incontrato in portineria. Si ferma per non dare nell’occhio. Ha solo una piccola nove millimetri e vuole aspettare almeno i suoi due compari rimasti indietro, Antonio Colia e Daniele Lattanzio, genio delle evasioni. Tiene d’occhio l’interno. Gli altri carcerati fanno avanti e indietro per il carcere, prendendo in ostaggio chiunque incontrino. Vallanzasca torna dentro e dice a quelli armati di uscire, poi torna al suo posto all’ingresso. Non arriva nessuno. Torna dentro per la seconda volta e di nuovo esce. A un tratto, dall’interno del carcere comincia una sparatoria. I carabinieri della scorta si girano verso di lui e portano le mani alle armi.

Nel 1976, dopo essere scappato dall’ospedale per le malattie infettive aveva fatto rotta verso il Sud a bordo di una Bmw. Il 28 luglio era stato fermato fuori dal casello di Montecatini da due poliziotti, Biagio Aliperta e Bruno Lucchesi. Aveva provato a convincerli con una patente intestata a tale Renato Gatti. I due si erano insospettiti e gli avevano chiesto di seguirlo al comando. A quel punto, secondo la magistratura, Vallanzasca ha sparato. Aliperta fu colpito alla gamba, Bruno Lucchesi al cuore; aveva 53 anni e due figli, uno appena diciottenne. Dopo questa ulteriore fuga, opinionisti e intellettuali vengono rapiti dal personaggio di Vallanzasca. Nonostante il brutale omicidio del poliziotto, viene ovunque nominato come “il bel René”, “Renatino”, “brighella della Comasina”, “il bandito gentiluomo”.

Vallanzasca e Cochis a processo

I carabinieri di scorta avevano scambiato Vallanzasca per un passante, perché nel frattempo aveva indossato eleganti vestiti borghesi. Gli intimano di mettersi al riparo, lui invece corre dentro il carcere, prende una guardia carceraria come ostaggio e la porta fuori, usandola come scudo umano. I carabinieri si bloccano. Escono undici carcerati, tra cui Antonio Rossi e Corrado Alunni, capo dei terroristi di Prima linea. Quando crede che ci siano tutti, Vallanzasca arretra con l’ostaggio, finché dopo un centinaio di metri la guardia inciampa e cade. I carabinieri a quel punto sparano. Prendono Corrado allo stomaco. Rossi è già a terra. Vallanzasca riesce solo a vedere il carabiniere a sei metri da lui, poi il proiettile lo prende di striscio alla testa. È come un colpo di martello che lo fa barcollare verso il muro di cinta.

Il 30 ottobre del 1976, a Milano, il dottor Umberto Premoli era uscito da un bar dopo una partita a ramino con gli amici. Era salito in macchina e s’era trovato davanti a due della banda di Vallanzasca, Claudio Gatti e Vito Pesce. Il medico aveva provato a scappare e loro l’avevano ucciso, lasciando orfani due figli. Non c’era un motivo, come non c’era motivo di sparare durante la fuga contro una Opel con a bordo due ragazze, così come a Jean Michel Bittes, erano entrati in auto, lo avevano gravemente ferito e poi trovato trecentomila lire nel suo borsello. Il 12 novembre, ad Andria, Michele Di Ceglie ha appena compiuto 19 anni quando lo avvisano che nella banca dove lavora suo padre, Emanuele Di Ceglie, c’è stata una rapina con sparatoria. Lo trova ucciso dalla banda di Vallanzasca.

La Banda Vallanzasca

Con la testa ferita, Renato barcolla verso il muro di cinta del carcere. Pensa ancora di potercela fare, finché sbuca una guardia carceraria che gli spara al petto. A quel punto crolla sull’asfalto, incapace di muovere un muscolo o anche solo di parlare. Sente le sirene, gli spari e le grida intorno a lui, poi un dolore fortissimo alla schiena. Qualcuno gli ha appena tirato un calcio. Sente una voce rabbiosa dire “È quel bastardo di Vallanzasca. Ora finirai per sempre di rompere i coglioni”, a cui segue il suono inequivocabile del carrello di una pistola automatica che mette il colpo in canna.

Il 17 novembre del 1976, a Milano, in piazza Vetra, Vallanzasca e la sua banda avevano tentato di assaltare una banca. Giovanni Ripani, un poliziotto di 27 anni, se n’era accorto e l’avevano ucciso. Poi avevano strappato un bambino di due anni dalle braccia del nonno e lo avevano usato come scudo umano per tagliare la corda. Circa un mese dopo avevano sequestrato una ragazza di 16 anni, Emanuela Trapani, e l’avevano rilasciata dopo quarantun giorni e un sostanzioso riscatto. Il 6 febbraio del 1977 mentre stavano cercando di sequestrare un industriale, Carlo Pesenti, erano stati fermati al casello di Dalmine; di nuovo, avevano aperto il fuoco uccidendo maresciallo di polizia Luigi D’Andrea, di 31 anni, e l’appuntato Renato Barborini, di 27. Il 9 marzo successivo avevano poi rapinato il Banco di Roma. Le indagini avevano individuato Vincenzo Andraous come membro della banda. I vigili stavano perquisendo la sua casa quando era apparso facendo fuoco. Armando Pagliaro era rimasto ferito, ma solo perché il vigile Vincenzo Ugga si era lanciato su di lui per proteggerlo ed era morto sul colpo, lasciando orfani due figli di otto e tre anni.

A pancia in giù,  steso sull’asfalto davanti al carcere di San Vittore, Vallanzasca aspetta che qualcuno lo finisca, quando vede un carabiniere correre verso di lui per fermare chi sta per giustiziarlo: “Ha ucciso più tuoi colleghi che nostri. Perché vuoi salvarlo?”, dice la voce alle sue spalle. Il carabiniere arma il mitra contro l’altro uomo: “Non me ne frega un cazzo di chi è o cosa ha fatto, è mezzo morto e nessuno gli fa niente. Mettetevi contro il muro”. I barellieri arrivano, caricano Vallanzasca e lo portano in ospedale, dove viene salvato. Molti anni dopo, nel suo memoriale, Vallanzasca scriverà divertito “Devo la vita a un ragazzo in divisa”. Ma questo non lo fa cambiare e la sua carriera criminale continuerà ancora, tra evasioni e un ventenne sgozzato in carcere.

La vedova del maresciallo D’Andrea dice di essere stanca di sentir parlare ancora di una persona che dovrebbe solo pentirsi e sparire, ha istituito il premio D’Andrea, per chi si contraddistingue nel servire la comunità. Ogni anno, a Bergamo, i due poliziotti vengono ancora commemorati; Michele Di Ceglie, a cui è stato ucciso il padre, quando ha ricevuto la lettera di scuse di Cochis ha preferito restare in silenzio. Alla memoria di Vincenzo Ugga è stata intitolata la sede del Reparto Radio Mobile della Polizia Locale di Milano, in Via Pietro Custodi; nell’atrio all’ingresso degli uffici c’è la lapide con il busto; il figlio dell’appuntato Bruno Lucchesi, in merito a una brutta storia di risarcimenti, dice: “Sembra quasi che le vittime siano i perdenti e gli assassini i vincitori. Fa male, ma ormai alla mia età ci ho fatto il callo”.

Nel 2010 Michele Placido dirige un film ispirato alle memorie di Vallanzasca. Quando i parenti delle vittime scrivono una lettera per esprimere la loro contrarietà lui replica parlando di falso moralismo e che “in parlamento c’è di peggio”.

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