Il tempo, suggeriva Aristotele, è la misura del cambiamento. Oggi, schiacciati dal desiderio di fermarlo e dall’ansia di non averne abbastanza, sembriamo invece averne perso ogni senso, assediati come siamo dagli impegni e dall’agitazione di un eterno presente, dove il passato e il futuro non trovano più spazio se non come dimensioni indefinite: una monolitica, un’eredità di cui non sappiamo che farci, che pesa come un fardello o che erigiamo a giustificazione di un certo immobilismo o di una data supremazia occidentale; l’altra sfuggente e vaga, ricorrente all’interno di molti discorsi – sulla crisi, sul cambiamento climatico, sulle nuove generazioni, su noi che cerchiamo di trovare nuovi sensi all’esistenza – eppure senza più alcuna forza apparente per incidere davvero sulle nostre decisioni.
La compressione dell’esperienza umana alla sola linea temporale del presente ha avuto e continua ad avere conseguenze sulle relazioni, sulla propensione pubblica e individuale a fare progetti, sulla percezione del mondo circostante. La possibilità di partire dalle domande del presente per scavare nel passato alla ricerca di indizi ed epifanie è invece un processo essenziale per capire l’attualità e individuare gli strumenti più opportuni alla realizzazione del domani. D’altronde, ragionare sulla storia, su ciò che è stato, significa riscoprire la valenza dell’antico, lo scarto tra ciò che eravamo e ciò che siamo, come siamo cambiati e come cambieremo, in contrasto con la comune dimenticanza che non siamo solo figli e figlie della giornata, ma di valori ed esperienze che provengono da prima di noi, hanno formato il contesto in cui viviamo e ancora modellano i nostri modi di agire.
Dal 2015 Fondazione Prada ha intrapreso un’importante indagine sull’antico che si innesta proprio su questo solco, con l’intenzione di rivoluzionare il concetto di “classico” e tornare a considerare il passato come una forza capace di incidere sull’oggi, a partire dalle mostre Serial Classic e Portable Classic: la prima, a Milano, smontava l’associazione tra classico e unicità esplorando il rapporto tra originalità e imitazione attraverso l’esposizione delle copie di grandi capolavori dell’arte greca realizzate nella Roma della tarda Repubblica e dell’Impero; la seconda, a Venezia, ricostruiva la relazione più intima tra ammiratori, collezionisti e manufatti, che portò alla creazione di miniature che si rivelarono utili per per capire come erano le sculture originali, a cui magari mancavano delle parti, e che soprattutto divennero oggetto del desiderio del pubblico colto, che poteva possederne con facilità, a tal punto da farcisi ritrarre insieme.
Se i due progetti espositivi mettevano in discussione i nostri preconcetti sull’antico – i colori, i materiali, le dimensioni –, è con Recycling Beauty, la nuova mostra realizzata negli spazi della sede di Milano e aperta dal 17 novembre 2022 al 27 febbraio 2023, che Fondazione Prada rende più complesso e sfuggente il percorso lineare del tempo, invitandoci a guardare le opere d’arte anche attraverso lo sguardo di chi nei secoli le ha realizzate, disfatte, riusate, separate, ricostruite, studiate, producendo dei salti semantici da un senso all’altro, quelli originali e quelli accumulatisi nei decenni seguenti. Curata dallo storico dell’arte Salvatore Settis con le archeologhe Anna Anguissola e Denise La Monica, l’esposizione è una ricognizione sul tema del reimpiego di antichità greche e romane in nuovi contesti, dal Medioevo al Barocco, e ospita oltre sessanta opere provenienti da collezioni pubbliche e musei italiani e internazionali. Rilievi ripescati dalle necropoli e trasformati in manifesti dei valori morali attuali; basi di colonne riusate prima come recipiente per lavori artigianali, poi come urna funeraria e infine a mo’ di acquasantiera; scranni dedicati a divinità pagane trasformati in troni episcopali nelle grandi cattedrali cristiane; architetture, sculture, bronzi, ceramiche, terrecotte, reperti più rari come avori o gioielli, modificati o prelevati dai loro siti d’origine e reintrodotti in nuovi contesti, secondo una nuova vita. “Sul filo del reimpiego leggiamo grandi temi del nostro tempo, come la transizione dei significati, l’osmosi fra culture, il corto circuito fra memoria ed emozioni”, spiega Settis.
Nonostante oggi “riciclo” e “riuso” siano termini molto diffusi in diversi campi, soprattutto nell’ottica di limitare gli sprechi per consumare meno risorse e ridurre l’impatto umano sull’ambiente, la pratica ha esempi illustri nella storia dell’arte, con significati e modalità più ampi. Anche se le forme forse più comunemente conosciute come il ready made e l’object trouvé possono farla apparire come una prassi prettamente novecentesca, il reimpiego fu particolarmente diffuso a Roma, a Costantinopoli, nell’Occidente e nel mondo islamico medievale, anche se fino agli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso veniva considerato come indizio di scarsa produttività e creatività. Fu grazie a Friedrich Wilhelm Deichmann e a Settis stesso che ebbe inizio una sistematica ricognizione del tema, descrivendo la riscoperta o la rinascita di manufatti antichi, risalenti anche ai primi secoli avanti Cristo, che da elementi trascurati, in disfacimento o, in alcuni casi, già riconosciuti per il loro pregio, si facevano autorevoli oggetti da collezione o acquisivano nuova vita all’interno di opere e costruzioni successive.
Il riutilizzo di materiale è comune in tutta la storia dell’uomo e in tutti i generi dell’arte, ma il fenomeno del reimpiego assunse precisi caratteri artistici nell’ambito dellìarchitettura romana di epoca tardoantica e in seguito in tutta l’epoca medievale. Ma perché prelevare un rilievo, un vaso, un capitello, portarlo altrove e inserirlo in un altro contesto? In alcuni casi, il riuso avveniva semplicemente per motivazioni di carattere pratico, come il riciclo di materiali per economicità e scarsità di risorse, la riconversione di interi edifici o l’utilità in determinati contesti quotidiani, come accaduto con un rilievo tagliato in due e poi utilizzato per coprire uno scarico fognario. In altri, la prassi diventava garanzia di sopravvivenza di un manufatto, come quando vecchi frammenti, altrimenti dimenticati se non proprio distrutti, venivano interpretati come immagini cristiane pur non essendolo, e acquisivano finalità politico-ideologiche. Un pezzo antico, infatti, poteva essere inteso come elemento di sovranità, testimonianza dell’ammirazione per le conquiste del passato e strumento di legittimazione del presente. In questo senso, guadagnava valore principalmente secondo tre direzioni, a volte complementari e compresenti: memorativa, per la consacrazione dell’antico; fondativa, per l’elevazione dell’attualità; e predittiva, volta a fissare dei canoni da proporre ai successori. Il nuovo contesto, infatti, assorbe sì l’oggetto reimpiegato, ma spesso lo lascia riconoscibile mentre se ne impadronisce; anzi, in determinate circostanze proprio perché se ne impadronisce, rimarcando così il dominio su ciò che era stato e il suo potere di dare un nuovo senso alle cose. È il caso, per esempio, delle rovine dei templi, tanto più esaltate e reimpiegate quanto era importante affermare la fine del paganesimo e l’affermazione della religione cristiana. Come il “trono di Virgilio”, un seggio d’onore del teatro greco di Notion dedicato a Dioniso, con un’iscrizione risalente al 1000 a.C., e poi riutilizzato come seggio vescovile; o il ritratto dell’imperatore Antonino Pio, prima posto sul corpo di un sacerdote e poi trasformato in un San Giuseppe con l’aggiunta di un bastone con gigli fioriti, andato disperso, entrambi situati nella prima sala di Recycling Beauty.
Il riuso non sancisce la morte di un oggetto ma, anzi, illumina lo scarto tra distruzione e creazione, tra i nuovi rapporti di forma e funzione e la rescissione dei legami originari, tra la stratificazione dei significati passati e presenti e l’immaginazione di ciò che ancora potrebbe diventare e che non possiamo prevedere. Nel saggio L’ordine del tempo, Carlo Rovelli – fisico teorico, divulgatore e responsabile del gruppo di ricerca in gravità quantistica del Centre de Physique Théorique dell’Università di Aix-Marseille – propone di pensare il mondo non come un insieme di cose, cioè di qualcosa che è e permane, ma come un insieme di eventi, dalla durata limitata, breve o lunga che sia, per riuscire a coglierlo, comprenderlo e descriverlo meglio. “A ben guardare, infatti, anche le ‘cose’ che più sembrano ‘cose’ non sono in fondo che lunghi eventi”, scrive Rovelli. “Il sasso più solido”, alla luce degli studi delle varie discipline, “è in realtà un complesso vibrare di campi quantistici, […] una traccia di un’umanità neolitica, un’arma dei ragazzi della via Pál, un esempio in un libro sul tempo, una metafora per un’ontologia […] e via e via, un nodo intricato di quel cosmico gioco di specchi che è la realtà”.
Questa prospettiva ben si presta per approcciare le opere esposte in Recycling Beauty, le loro trasformazioni semantiche e temporali. Ad aprire il Podium, la stanza iniziale, è infatti un paesaggio di oggetti, ciascuno con una propria storia ma capaci, insieme, di tesserne una unica. È anche il progetto espositivo a permettere la creazione di questo duplice racconto, individuale e collettivo: concepito da Rem Koolhaas/OMA, parte dal riutilizzo di alcuni elementi già presenti nella precedente mostra Serial Classic – enfatizzando appieno il tema riciclo, appunto – per alternare le sculture a strutture simili a postazioni di lavoro, che invitano all’attenzione minuta e alla riflessione, alla scoperta e all’analisi storica, lasciando la possibilità di opporsi alla frenesia contemporanea per fermarsi a osservare il dettaglio e svelare l’accumulo storico e di sensi. Così, a un sedile di marmo rosso inizialmente utilizzato come latrina e poi impiegato nelle cerimonie di insediamento dei papi si avvicendano il corpo, la testa e l’iscrizione di Santa Ifigenia di Vicenza – tre pezzi riuniti insieme per la prima volta – e le statue della Zingarella e del Moro Borghese, al contempo sia moderne che antiche, dati gli innesti da cui sono costituite.
Nella Cisterna, dove gli spazi si susseguono per facilitare l’incontro graduale con gli oggetti e permettono punti di vista alternativi – dall’altezza di un balcone alla prospettiva ristretta di una stanza – è la meraviglia a caratterizzare la visita. Superata la tazza Farnese e anticipato dai disegni che nei secoli fecero coloro che cercarono di ricostruirne le fattezze, lo sguardo si apre su un Colosso, quasi impossibile da catturare nella sua interezza. Si erge per circa undici metri, il capo a sfiorare il soffitto come quei simulacri intitolati ai dèi pagani che da un momento all’altro, con preghiere e i doni, ci si aspettava acquisissero forza e, con uno slancio, si alzassero fino a distruggere il tetto del tempio, sovrastando ogni cosa – villaggi, uomini, animali. Il tempo e il destino stessi. È la ricostruzione della statua dell’Imperatore Costantino, risalente al IV secolo d.C. e realizzata a partire dagli unici dieci frammenti sopravvissuti: tre parti degli arti superiori, cinque di quelli inferiori, una parte del busto, la testa. Di Giove, di cui probabilmente rielabora la figura nel continuo rimando tra epoche che alimenta l’esposizione, ha la posa, lo scettro e il globo, ma soprattutto il ginocchio scoperto, sede di vitalità e forza, nonché simbolo di generazione. Ecco allora l’unità di misura della meraviglia: l’incredulità davanti alla bellezza, o la sua sospensione, che ci sconvolge e ci fa passati, presenti e futuri, accomunandoci nei secoli nella nostra finitezza. Il meraviglioso è fatto per superarci, per stabilire rapporti nuovi e mutevoli con ciò che è stato e non è andato dimenticato, o che sarà riscoperto.
Conviviamo ogni giorno con l’antichità, nelle nostre città e nelle strade, eppure non vi badiamo più, dando per scontata l’essenza del classico, cioè la mescolanza fra culture. Con Recycling Beauty, invece, Fondazione Prada riesce a prendere una categoria, il reimpiego, la cui rilevanza è anche oggi fortemente attuale e a declinarla attraverso l’arte antica, per ritrovarla poi rinnovata. Non solo quella del riciclo, del riuso, come risposta alla crisi, ma anche quella della ridefinizione: un oggetto era una cosa e ora non lo è più, è altro. E quindi poi, soprattutto, quella del confronto: con cosa siamo stati, cosa possiamo essere.