È il 1990, e all’aeroporto di Roma il regista Robert Altman si è appena imbarcato su un aereo per gli Stati Uniti, dopo il fallimento del suo progetto di girare un film su Rossellini, affidato a Mario Monicelli. Altman ha con sé una raccolta di racconti che gli ha dato la segretaria per trascorrere le ore del volo. Si può sfogliare distrattamente e poi fare altro. Altman apre il libro e legge tutti i racconti, senza riuscire a staccarsene un attimo. Atterra a Los Angeles con le idee chiare: realizzerà un film tratto non da uno, ma da nove di quei racconti. Il film America oggi uscirà nel 1993 e vincerà il Leone d’oro al festival del cinema di Venezia. I racconti che hanno folgorato Altman su quell’aereo erano di Raymond Carver.
Quando si pensa al senso di sospensione nell’arte, vengono in mente Edward Hopper nella pittura, John Cage nella musica o Andrej Tarkovskij nel cinema. In letteratura il pensiero corre spesso a Raymond Carver. Nessuno come lui è riuscito a descrivere la banalità dell’esistenza, a basare una narrazione sul non scritto, creando una nuova versione del minimalismo letterario. Carver ha dato vita nelle sue pagine a quelle che Pierre Michon chiama vite minuscole, esaltando i piccoli dettagli insignificanti della quotidianità. Allo scrittore americano si deve il termine Carver Country, coniato per descrivere quell’America che vive fuori dalle grandi metropoli, alienata e alienante, dispersa tra le periferie animate da anime inquiete, mariti violenti, mogli annoiate e un tempo che scorre senza lasciare traccia. Carver ha descritto alla perfezione quell’America per un motivo semplice: l’ha vissuta.
Carver non solo veniva da una famiglia umile, con una madre cameriera e un padre operaio in segheria, ma lui stesso ha fatto parte dei working poor, cercando di sbarcare il lunario per potersi permettere di scrivere. Già a diciannove anni aveva una moglie e un figlio appena nato e divideva il suo tempo tra corsi di scrittura che non poteva permettersi e lavori di ogni tipo: fattorino, operaio, bibliotecario. Senza una fissa dimora – ha cambiato diversi stati degli Usa in cerca di fortuna – per tutti gli anni Cinquanta e Sessanta la sua traccia nella letteratura americana è limitata a qualche racconto pubblicato su piccole riviste indipendenti o universitarie. Di giorno lavorava, di notte scriveva, a costo di non dormire e di rifugiarsi nel sollievo dell’alcol.
Nel 1967 incontrò Gordon Lish, editor della rivista Esquire, e con lui iniziò un rapporto di amore odio che sarebbe durato fino alla morte dello scrittore. Nonostante le prime pubblicazioni Carver non riusciva a lasciarsi alle spalle le difficoltà economiche, che lo costringevano a vivere di sussidi economici e lavori saltuari e malpagati. I personaggi che Carver creava per i suoi racconti parlavano della sua quotidianità, comprese le coppie andate in frantumi, i silenzi coniugali e le cucine vuote. Con questo materiale lo scrittore creò una nuova serie di racconti. In fase di editing Gordon Lish, che per contratto aveva il potere di rimaneggiare pesantemente i testi di Carver, mise in pratica una delle più grandi trasfigurazioni della letteratura americana. Nacque così Di cosa parliamo quando parliamo d’amore?
Carver inviò diverse lettere feroci a Lish, terrorizzato dalle modifiche del suo editore. “Ti dico la verità, qui è in gioco il mio equilibrio mentale”, gli comunicò in una di queste. Fece di tutto per convincere Lish a pubblicare i racconti nella versione originale. “Ora non vorrei fare il melodrammatico, ma davvero ho appena fatto ritorno dai morti per rimettermi a scrivere dei racconti. E adesso ho una gran paura, una paura da morire, lo sento, che se il libro fosse pubblicato nella sua attuale forma revisionata, non riuscirei più a scrivere un altro racconto, Dio non voglia”, scrisse Carver durante il suo rapporto epistolare con l’editor. Lish non lo ascoltò: tagliò il 70% del lavoro di Carver, cambiò i titoli e i finali di dieci racconti su tredici. Il libro uscì nel 1981 e Carver divenne il padre del minimalismo, senza volerlo.
Di cosa parliamo quando parliamo d’amore? divenne subito un testo rilevante per la trasformazione della narrativa breve mondiale. Con il suo stile asciutto, anche grazie ai tagli di Lish, descrive lo stallo tra un’emozione e l’altra nel momento in cui queste non sono ancora espresse: un dramma che non è ancora avvenuto ma che è nell’aria, la descrizione dell’attimo prima di un’esplosione, le anime inquiete che non esternano quelle sofferenze che però il lettore riesce a intuire. In un racconto di Carver non succede nulla, e quindi succede tutto. Della vicenda non si conosce il prima e nemmeno il dopo, mentre il finale può arrivare in qualsiasi momento. Il lettore di Carver diventa parte integrante del vortice di emozioni, respirando e riempiendo gli spazi vuoti, vivendo pagina dopo pagina in un senso di attesa che forse è l’attesa della vita stessa o della morte.
I racconti di Carver sono ancora oggi fonte di ispirazione per teatro e cinema e per chiunque voglia raccontare gli Stati Uniti, che in molte sue zone sono cristallizzati in un presente che dura da 40 anni. Oltre i confini dell’America raccontata dal cinema di Hollywood, delle grandi metropoli e del sogno americano, si trova quella catturata dalla penna di Carver. Lo scrittore ha goduto del suo successo per meno di un decennio a causa del cancro che lo ha ucciso nel 1988. Ha avuto il tempo di pubblicare le raccolte Cattedrale e Da dove sto chiamando oltre a diverse poesie, e di insegnare il processo dello scrivere nelle università tema che affronta anche ne Il mestiere di scrivere). Il suo talento viene riconosciuto con la nomination al Premio Pulitzer nel 1984, dopo quella al National Book Award nel 1977, ma il suo riconoscimento più grande arriverà con la pubblicazione postuma, nel 2009, di Principianti, la versione originale – priva delle modifiche di Lish – di Cosa parliamo quando parliamo d’amore? Chi temeva che Carver in questa versione potesse perdere lo stile che lo ha reso celebre si è ricreduto leggendo la stesura naked dell’opera. A venire in superficie sono nuove sfaccettature, un Carver più denso ma allo stesso tempo essenziale, dove i dettagli rendono ancora più viscerale quell’attesa, quella sospensione del tempo e dello spazio che rende il messaggio dei suoi raconti universale.
Quello che oggi resta di Carver è il suo modo peculiare di descrivere un racconto, una storia, frammenti di vita. Carver è un corpo nudo in una stanza vuota, mentre il mondo fuori scorre, invisibile ma percepibile da chi ha il tempo di mettersi in ascolto. Resta l’amore, la necessità, l’urgenza ossessiva per la scrittura. Per la scrittura e la vita, come Carver spiega nella prefazione della raccolta Da dove sto chiamando: “Se siamo fortunati, non importa se scrittori o lettori, finiremo l’ultimo paio di righe di un racconto e ce ne resteremo seduti un momento o due in silenzio. Idealmente, ci metteremo a riflettere su quello che abbiamo appena scritto o letto; magari il nostro cuore e la nostra mente avranno fatto un piccolo passo in avanti rispetto a dove erano prima. La temperatura del corpo sarà salita, o scesa, di un grado. Poi, dopo aver ripreso a respirare regolarmente, ci ricomporremo, non importa se scrittori o lettori, ci alzeremo e, ‘creature di sangue caldo e nervi’, come dice un personaggio di Cechov, passeremo alla nostra prossima occupazione: la vita. Sempre la vita.”