Segno di emotività eccessiva e mancanza di freni, l’ira è considerata un’emozione poco nobile e l’indizio di un pessimo carattere. Spesso è davvero così, a causa dello stigma che la circonda e impedisce di insegnare a gestirla, incanalarla e rispondere a quella altrui. Non saper convivere nel giusto modo con la rabbia è dannoso: soffocarla e nasconderla può portare alla somatizzazione e a esplosioni d’ira incontrollabili. Eppure questa emozione – così mal giudicata da essere considerata negativa anche quando sarebbe giustificata – è fondamentale a livello personale, dato che contribuisce alla percezione dei propri bisogni e alla formazione dell’identità personale. Ma anche l’indignazione che spinge le persone a unirsi per protestare contro una situazione ingiusta e non più tollerabile nasce dalla rabbia. Questa è un motore essenziale dei cambiamenti sociali: erano mossi dall’insofferenza verso l’oppressione patriarcale i primi movimenti femministi, così come oggi sono arrabbiati i giovani mobilitati in difesa dell’ambiente da Greta Thunberg. E lo sono i manifestanti di Black Lives Matter contro tutte le forme di discriminazione. Ecco perché i ricercatori non danno per scontata la sua categorizzazione come emozione negativa: la rabbia è in realtà un’emozione utile che dobbiamo riabilitare.
Da un punto di vista evolutivo, le emozioni sono risposte alle circostanze e uno strumento per affrontarle con successo. Le neuroscienze affettive dimostrano il ruolo evoluzionistico della rabbia nel promuovere la sopravvivenza: secondo la teoria psicodinamica dei sistemi motivazionali da un lato questa è un segnale diretto interiormente, per spingerci a superare un ostacolo, dall’altro è un input comunicativo rivolto all’esterno per stabilire una contrapposizione. L’ira non è quindi riducibile a una semplice reazione aggressiva: radicata nel bisogno primitivo di proteggersi dalle aggressioni, facendoci sentire di avere il controllo della situazione, oggi continua a fornire informazioni necessarie a interagire con il mondo circostante e con se stessi; è la risposta a una minaccia e ci prepara ad affrontarla. Più in generale, se una situazione necessita di un cambiamento, la rabbia spinge all’azione e ci motiva a trovare una soluzione. E, come tutte le emozioni, anche l’ira si esprime fisicamente attraverso una serie di segnali codificati e riconoscibili che per gli etologi rappresentano un modo di aumentare le probabilità di sopravvivenza, facilitando le comunicazioni tra membri della stessa specie.
L’espressione della rabbia in molti contesti culturali è però inibita. Questo vale tanto più per le donne, in una società in cui anche le emozioni sono genderizzate, ira compresa. Considerata un segno di determinazione virile, quando espressa da una donna è segno di “un bel caratterino” o di “isteria”. La rabbia, specialmente per le ragazze e le donne, va tenuta nascosta: le uniche manifestazioni di rabbia femminile socialmente accettate sono quelle nei confronti della propria madre o verso altre donne, o contro uomini di status sociale inferiore, perché non minacciano lo status quo. Come sottolinea la scrittrice e attivista Soraya Chemaly, autrice de La rabbia ti fa bella. Il potere della rabbia femminile, le società che non rispettano la rabbia delle donne non rispettano le donne: a dare fastidio della rabbia femminile è la dimostrazione che esse si prendono sul serio e pretendono lo stesso dagli altri. Allo stesso modo, chi accusa di iconoclastia irrazionale l’abbattimento delle statue di schiavisti e razzisti, non considera le istanze di cui sono portatori i manifestanti di Black Lives Matter, la cui rabbia è espressione di una giusta pretesa di rispetto.
La rabbia ci protegge dalle ingiustizie, ed è per questo che la pressione a nasconderla è pericolosa: anziché stigmatizzarla come un’emozione che rende le persone sgradevoli e antipatiche, bisognerebbe insegnare a gestirla. Si tratta, infatti, di uno strumento potente che ci permette di individuare e reagire alle ingiustizie, muovendoci verso il cambiamento: in questo senso l’ira, come ogni altra emozione, ha una rilevanza sociologica ed essenzialmente politica, perché da un lato motiva e dall’altro alimenta discussioni e conflitti; al contrario, la critica sociale e culturale verso la nostra rabbia è un modo di limitare il potere che ne deriva. Ovviamente, c’è un effetto collaterale che pone un dilemma morale: la rabbia ha il potere di sfidare le convenzioni, opporsi alle ingiustizie, ai sistemi precostituiti e alle oppressioni, difendendo la diversità, ma può contribuire a far nascere e rafforzare nazionalismi, razzismo, invidia sociale, divisioni, complottismi. In generale si può guardare alla rabbia come a una risposta a un’ingiustizia percepita, per cui si tratta di qualcosa di relazionale e mai ripiegato sull’individuo, le cui espressioni più triviali e pericolose vanno indagate, sia sul piano psicoanalitico che su quello sociale.
Bisogna poi distinguere la rabbia dalla pura aggressività e ostilità: diversi significati sociali dell’ira sono espressi in diversi contesti sociali e politici. L’analisi del significato politico di questa emozione è al centro di un film di montaggio sperimentale del 1963 intitolato proprio La Rabbia, ritirato dalle sale dopo poche settimane per motivi mai del tutto chiariti. Il film è nato dall’idea di mettere a confronto due registi di opposti schieramenti sui temi dell’angoscia, dell’insoddisfazione e dell’insofferenza dell’epoca: Giovannino Guareschi e Pier Paolo Pasolini. Mentre la parte girata da Guareschi è caduta nell’oblio, quella di Pasolini – che la definiva “un saggio polemico e ideologico sugli avvenimenti degli ultimi 10 anni” – ha potuto circolare grazie all’impegno dei circoli Arci. Questa tratta la portata politica e sociale della rabbia: l’intellettuale di origini friulane, attraverso un montaggio di spezzoni di repertorio del cinegiornale Mondo libero, ha espresso la propria forma mentis tragica toccando eventi storici come la rivoluzione ungherese del 1956 e quella cubana, l’esplosione della bomba atomica, la diffusione della televisione in Italia, la morte di Marilyn Monroe, ma anche le alluvioni, la decolonizzazione dell’Africa, la lotta di classe. La valenza socio-politica della rabbia è evidente in questo caso non solo nel muovere i cambiamenti, ma anche perché è in queste vicende che trova origine: la rabbia del titolo è frustrazione, senso di furore impotente di fronte ai mutamenti dell’epoca.
In un’intervista fatta da Giorgio Bocca a Pasolini nel 1966, il giornalista chiede all’intellettuale quale sia la differenza tra un arrabbiato e un rivoluzionario. Inizialmente Pasolini ammette che il rivoluzionario vuole apportare un cambiamento al sistema politico esistente, mentre l’arrabbiato non fa che scontrarsi continuamente con i vincoli di un sistema di cui può essere considerato il prigioniero; però poi sottolinea che, mentre il rivoluzionario vuol semplicemente sostituire un sistema esistente con uno diverso, l’arrabbiato sa che ogni rivoluzione si limita a restaurare ciò che Pasolini chiama il “moralismo e il perbenismo” di ogni sistema vigente, fosse anche sorto da un precedente sistema abolito. In Pasolini, tra le due figure la superiorità morale sembra spettare proprio all’arrabbiato, come sottolinea lo storico dell’arte e filosofo francese Georges Didi Huberman. L’arrabbiato, infatti, soffre tutti i conformismi possibili e in tutti i possibili sistemi, provando un sentimento nobile che è l’opposto della rassegnazione: per questo l’ira è il sentimento archetipico dei giovani, coloro che non si sono ancora rassegnati. Secondo il critico letterario Emanuele Trevi, per Pasolini è proprio la rabbia a differenziare l’artista, lo scrittore e il poeta dall’uomo comune.
Lo stesso sentimento, non a caso, era già stato soggetto della poesia di Pasolini del 1960 “Rabbia”, in cui descrive il sentimento come un demone che lo avvelena. Pasolini è consapevole di avere dentro di sé una forte rabbia – il motore di indignazione per le ingiustizie e di conseguenza del suo impegno intellettuale –, ma allo stesso tempo percepisce il disagio che gli provoca. “Lo so: perché in me è ormai chiuso il demone/ della rabbia. Un piccolo, sordo, fosco/ sentimento che m’intossica/ […] A quasi quarant’anni/ io mi trovo alla rabbia, come un giovane/ che di sé non sa altro che è nuovo,/ e si accanisce contro il vecchio mondo./ E, come un giovane, senza pietà/ o pudore, io non nascondo/ questo mio stato: non avrò pace, mai”.
L’ira è uno strumento necessario a riaffermare la coerenza e l’autonomia personale rispetto agli altri o a condizioni esterne inaccettabili, così come è essenziale per non desistere da un obiettivo dopo un fallimento. Secondo la life coach Juna Mustad reprimerla significa cercare di compiacere gli altri più di quando ci compiacciamo: non va soffocata, ma espressa in modo controllato in modo da non cedere all’aggressività fine a se stessa. Una gestione sana della rabbia inizia dal riconoscerla, saperla nominare e chiedersi di quale bisogno sia l’espressione violenta. Solo in questo modo si valorizza il suo potere creativo, quello di un’emozione che può e deve essere usata nel suo valore construens e non destruens: se, anziché reprimere la nostra rabbia lasciandole prendere il controllo, la sapessimo gestire e la usassimo per combattere le ingiustizie che la suscitano, la nostra vita sarebbe di sicuro migliore, e con lei anche il mondo in cui viviamo.