Come la quarantena ha cambiato i nostri rapporti sociali e affettivi, presenti e passati
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C’è stato un momento, qualche giorno dopo l’annuncio del lockdown, che se potessi eliminerei dalla linea del tempo: avevo appena deciso di fare una cosa che, mi ero ripromessa, non avrei fatto mai e poi mai e cioè scrivere a quella che, una volta, era la mia migliore amica. Il nostro rapporto si era concluso piuttosto male, ma i telegiornali parlavano solo di terapie intensive e di decessi, gli appelli a non muoversi di casa si sprecavano da ogni parte, Naomi Campbell rilanciava il video di sindaci e governatori particolarmente ligi alla battaglia e, sui social, era un fiorire di canzoni dai balconi e di striscioni, cartelli e foto con su scritto: “Andrà tutto bene”. Gli slogan erano: solidarietà, vicinanza anche se a distanza, ne usciremo migliori, ce la faremo. E io volevo crederci, o meglio, mi veniva più facile vivere lo scenario pandemico da Contagion tenendo presente l’eventualità che la cosa avesse degli inaspettati risvolti positivi. Forse per questo, per la prima volta dopo quasi tre anni, non mi sembrava una cattiva idea contattare una persona che aveva fatto tanto parte delle mie giornate da credere, quando quel tempo era finito, che senza di lei non ne esistesse altro. Se la immaginavo alle prese con quanto stava accadendo, mi sembrava d’avere un obbligo morale: usufruire delle possibilità della tecnologia, come stavo facendo con altri amici e affetti del presente, e puntare anche su un legame di cui ormai non esistevano più tracce nel mio quotidiano ma solo nella mia memoria, per fare la domanda che facevamo tutti e a cui tutti, forse per la prima volta nelle nostre esistenze, rispondevamo provando ad essere sinceri: “Come stai?”.

A parti inverse, mi stava accadendo la stessa cosa: dopo mesi, in alcuni casi anni, si facevano risentire persone che avevo perso di vista, scrivevano quelli con cui c’erano stati litigi o allontanamenti più o meno sofferti, mi chiedeva come andava gente con cui non si era mai andati oltre i convenevoli. Nella maggior parte dei casi si trattava di rapidi saluti e aggiornamenti, proprio come quelli che stavo sperimentando con i miei, sconosciuti fino a quel momento, dirimpettai. In altri, invece, emergeva presto una strana fascinazione distaccata: era quella che hanno tutte le cose ormai lontane. Era come se avessimo tutti improvvisamente cento anni. E, non su Instagram, ma sulle nostre conversazioni, cadeva un bellissimo filtro dal nome “Nostalgia” o peggio: “Rimpianto”. Gli ex – che fossero amici o fidanzati – tornavano, ad ogni latitudine. Persino Jennifer Lopez risentiva Puff Daddy e lo coinvolgeva in una raccolta fondi live su Instagram. La paura e l’ansia stavano rendendo tutti più teneri di cuore e distratti di memoria. Il coronavirus stava cambiando i nostri rapporti affettivi del presente e del passato, se in meglio o in peggio non era dato saperlo.

Mentre cercavamo di dare un senso alla nostra nuova realtà da quarantena, senza che ne fossimo sul serio coscienti, le relazioni fuori dal nucleo abitativo, private della loro concretezza fisica e dell’ordinarietà degli incontri, stavano conquistando il primo posto nella nostra personalissima classifica dei bisogni e dei desideri, rivoluzionando in alcuni casi le gerarchie affettive, ma soprattutto il modo in cui quell’affetto trovava espressione, in alcuni casi dopo molto, molto tempo. Perché anche le decisioni e le scelte più difficili, come quella di mettere fine a un rapporto, adesso erano sottoposte a un nuovo esame: nell’assurdità di ciò che stavamo vivendo, non ci sembrava più assurdo tornare ad avere a che fare proprio con quelli che avevamo giurato di non voler vedere mai più, proprio adesso che non potevamo vederli sul serio. Forse temevamo l’apocalisse, ma leggendo dei tanti che non avevano potuto, ci sentivamo più propensi a dire “Ti voglio bene” o “Mi manchi”. Persino pronunciare parole come “Oggi sono triste”, ammettere di aver pianto per un’ora intera, di avere paura o attacchi di panico o di ansia, non subiva il classico stigma della vergogna di mostrarsi vulnerabili, perché questi momenti li avevamo tutti. Ci era vietato quasi tutto. Nessun decreto, ordinanza o stato di emergenza ci impediva, però, di sentire la necessità di una chiacchierata in più o di una videochat con le persone a noi care oltre le etichette e i legami di sangue e parentela.

Ritessere la trama degli affetti, mandando rapidamente in sovraccarico WhatsApp  non presentava controindicazioni. Anzi, era quello che ci dicevano di fare tutti, persino l’Ordine degli psicologi, regola n. 5 e n. 9 delle 20 da seguire per non stressarsi troppo. E se è vero che “l’emergenza stabilisce l’ordine” come scriveva Victor Hugo ne I miserabili, la crisi sanitaria mondiale stava determinando un nuovo assetto nelle nostre esistenze, non solo dal punto di vista professionale o economico, ma sociale ed emotivo. Mentre scoprivamo che la convivenza forzata in famiglia o in coppia, dopo qualche giorno, diventava pesante anche in situazioni normalmente serene – perché come spiega Vittoria Randone, specialista in psicologia e sessuologia clinica, chi vive insieme da poco o da tanto tempo, ha organizzato la sua vita sia sulla presenza che sull’assenza dell’altro o degli altri – connetterci con le persone fisicamente assenti e che rientrano nella vastissima categoria delle amicizie, stabili o meno, presenti o passate, vecchie e nuove, ci permetteva un’espressione di libertà minima ma fortissima: quella di scegliere, ancora una volta, con chi confrontarci e passare del tempo.

I social e le piattaforme di videoconferenza ci hanno dato una mano a tenerci in contatto, le app per gli incontri hanno sì registrato un calo, Tinder su tutte, ma hanno presto cominciato ad adattarsi e permettere ai single di tornare ad approcciare all’unico universo amoroso possibile, quello virtuale, e persino la tanto bistrattata telefonata che, come diceva Massimo Lopez in un vecchio spot della SIP, “allunga la vita” – mai come nel mese di marzo 2020 la metafora si è fatta concreta –  è tornata in auge, tanto che oggi, alla comunicazione vecchio stile persino il New York Times dedica un approfondimento come aveva fatto qualche settimana prima il New Yorker, concentrandosi sul potere e sul valore della voce delle persone che amiamo durante la quarantena.

Ovviamente non immaginavamo che la Fase 2 non avrebbe tenuto conto proprio dei legami affettivi che più ci hanno dato il coraggio e la forza di guardare avanti, le amicizie. Però, oggi che persino il Times si chiede chi siano i congiunti, è il caso di rivolgere a noi stessi una domanda: come mai, in Italia, “Paese in cui il generoso concetto di famiglia abbraccia gruppi estesi”, la famiglia di elezione che ciascuno di noi ha costruito o tentato di costruire nel tempo e ancora di più nelle ultime settimane, non è presa in considerazione dalle norme? Eppure si tratta di una struttura sociale importante, forse l’ultima rimasta intatta o riemersa dai costrutti degli anni Settanta, quando le scelte del privato – le relazioni, il loro assetto – presero una dimensione pubblica e politica. Invece le nostre affinità elettive sono di nuovo al vaglio, esattamente come sarebbe successo senza epidemia.

Mentre Maurizio Oliviero, rettore dell’Università degli Studi di Perugia, diceva, durante una lezione online: “Quando finirà ci ubriacheremo tutti e pomiceremo stesi sui prati. Ve lo prometto” e la pagina facebook del festival Conversazioni sul futuro, ospitava, per l’appuntamento diretta “Sette meno dieci” un incontro sul tema “Il like tattico e l’amore ai tempi della quarantena”, eccoci a fare i conti con le prime scelte tra le diverse videochat possibili, le prime incomprensioni, i primi litigi anche online, proprio come prima, quando i rapporti amicali o pseudo tali, dovevano vedersela (solo) con gli obblighi professionali e familiari. Perché è ora di essere sinceri: il tempo per godere della vicinanza reciproca era comunque razionato, collocato a margine della settimana, rimandato spesso dicendo “ci proviamo la prossima settimana” senza che quella settimana fosse mai messa in calendario sul serio e diventasse un mese, o due, o peggio. E anche quando l’incontro avveniva: quanti di noi hanno passato la serata con gli amici a fare selfie della loro mise e stories sulla location per poi postarli online con l’hashtag giusto, piuttosto che viverlo sul serio dandogli l’importanza che meritava? Quanti di noi hanno fatto la stessa identica cosa anche con gli screenshot delle videochat che, tecnicamente dovevano servire a farci sentire più vicini, ma che nella pratica, sono diventate materiale da mostra sui social network?

Mentre aspettiamo che entri sul serio nel vivo la Fase 2 – non solo della gestione dell’emergenza, ma della nostra vita – cominciamo a dircelo chiaramente: la stabilità degli affetti che adesso ci sembra una barzelletta, l’abbiamo sempre chiesta noi per primi e abbiamo continuato a farlo, consapevoli o meno, anche durante questa quarantena. È per questo che gli ex, nella maggior parte dei casi, sono tornati ad essere tali, ricordandoci dopo un paio di settimane perché avevamo smesso di frequentarli. È così che abbiamo scoperto che l’amicizia su cui avevamo puntavano tutto era davvero meno salda di ciò che credevano. E alla stessa maniera, ci siamo disincantati, finalmente, riguardo a quel rapporto ormai finito, ma che continuava ad avere, nei suoi strascichi, il fascino delle cause perse. L’amico vogliamo che sia vero, e questo senza che il viceministro della Salute, Pierpaolo Sileri, ponga l’autenticità dell’affetto tra le conditio sine qua non per un incontro. Persuasi dalla paura della morte e della malattia, ci siamo trovati a scoprire che morte e malattia non c’entrano niente: ci interessa la vita, momenti difficili compresi, e chi riesce a farne parte sempre e comunque.

Proprio in un periodo in cui i buoni sentimenti senza interesse o tornaconto evidente avevano la meglio, abbiamo scoperto che ogni sentimento prevede realmente la reciprocità. Perché se è vero che l’epidemia ha cambiato il modo in cui stiamo insieme, togliendoci la parte fisica e dandoci, in cambio, quella virtuale, va anche tenuto presente che senza il collante di azioni e contesti su cui si innestano di solito i rapporti, molte frequentazioni hanno mostrato più chiaramente di che pasta sono fatte, rendendoci più consapevoli di cosa e di chi vogliamo davvero nelle nostre esistenze. Da parte mia, visto che ho cominciato raccontando una storia personale, devo dirlo: l’amica a cui ho scritto, ha poi risposto. Lo ha fatto a quarantena conclusa, per dirmi che andava tutto bene e che sperava lo stesso per me. La conversazione non è proseguita e non mi sono sentita di addossarmene lo sforzo. Ma se nei primi momenti la cosa mi ha fatto male, adesso penso che forse sia meglio così: ancora una volta ho una prova, da presentare solo a me stessa, di come si cambia e di come si resta, tutto sommato, sempre gli stessi.

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