Secondo un sondaggio dell’Eurodap (Associazione europea disturbi da attacchi di panico) il 70% degli italiani considera inutile andare dallo psicologo. Permane la resistenza granitica del “bisogna farcela da soli”, l’errata convinzione che parlarne con amici e familiari sia lo stesso, o addirittura lo stereotipo dello psicologo-strizzacervelli utile solo per i “pazzi”.
In Italia, la psicologia ha storicamente fatto fatica a prendere piede. Basti pensare che i primi due corsi di laurea, a Roma e a Padova, vennero inaugurati soltanto nel 1971, e bisognò attendere il 1989 per l’istituzione di un Ordine, nonostante l’incoraggiante fermento di inizio secolo, quando Roma nel 1905 ospitò il V Congresso Internazionale di Psicologia, che riunì i luminari di tutto il mondo.
Per capire la ritrosia degli italiani nei confronti della figura dello psicologo è innanzitutto necessario analizzare le statistiche che riguardano chi ha invece intrapreso una terapia. Da un’indagine fatta dall’Enpap (Ente Nazionale di Previdenza e Assistenza per gli Psicologi) sulle prestazioni psicologiche, è interessare notare come la propensione a rivolgersi a uno psicologo aumenti con il crescere del titolo di studio: il 14,8% dei laureati contro il 7,4% dei diplomati alla scuola media superiore, e solo l’1,2% di coloro che hanno la licenza elementare. L’analisi di questi dati comunque non è di facile interpretazione. Inizialmente verrebbe spontaneo concentrarsi sulla questione economica. Eppure andare dallo psicologo non vuol dire per forza sborsare cifre esorbitanti a ogni seduta: ci sono diverse alternative allo studio privato, come recarsi alla Asl, in ospedale o in un consultorio, ottenendo servizi di qualità alla portata di tutti.
L’errore di fondo è la considerazione che si ha dello psicologo, da un lato visto come una figura inutile, dall’altro come una sorta di stregone. Lo psicologo cammina con il paziente, ma non lo porta sulle spalle e nemmeno si sostituisce a lui. Non ha dunque la bacchetta magica, né la pretesa di prevedere il futuro e dispensare soluzioni immediate o una guarigione passiva. Allo stesso tempo, non è una figura che sostituisce quella di un amico o di un semplice confidente, ma è un professionista, e come tale indirizza il paziente in un percorso ragionato che tocca nel profondo l’individuo. Sfogarsi con una persona a noi cara implica un coinvolgimento emotivo, mentre lo psicologo offre strumenti e strategie per imbastire un lavoro vero e proprio su noi stessi, mantenendo le giuste distanze, mentre un amico tenderà sempre a prendere le nostre parti, a giustificarci solo per consolarci e vederci felici, oppure in caso contrario a metterci in crisi in modo non sempre costruttivo, rischiando di ferirci. Nell’ambiente della psicologia gira da tempo un paragone azzeccato: lo psicologo è come un contagocce. Il nome stesso può trarre in inganno, perché le gocce in realtà le contiamo noi, però facilita a separare una goccia dall’altra e ci aiuta a dosarle nel modo più utile possibile.
Quando un essere umano ha un problema fisico gli viene naturale rivolgersi a un medico. Quando il problema è psicologico, invece, non avviene lo stesso: un po’ perché permane l’istinto di non aprirsi e non mostrare le proprie debolezze, l’autodifesa che non consente di parlarne con uno specialista; un po’ per i falsi miti che ammantano la professione dello psicologo. Jean Piaget, uno dei più importanti studiosi di psicologia infantile nel Novecento, diceva: “Sfortunatamente per la psicologia, tutti pensano di essere psicologi”; chi supporta pensieri del genere, però, di solito non conosce il vero ruolo dello psicologo ed è rimasto al cliché della chaise longue. Se in Italia una percentuale così estesa di persone considera lo psicologo alla stregua di un ciarlatano che intende soltanto rubare i soldi ad alcuni disperati creduloni in difficoltà, è perché domina un’ignoranza diffusa sul mondo della psicologia e della psicanalisi che nutre una forte presunzione di base, figlia di tutti i pregiudizi.
Per prima cosa esistono diverse branche che si occupano della psiche degli individui, come la psicologia applicata, la psicologia clinica, la psicoterapia e il counseling. La psicologia applicata si occupa dei problemi che sorgono nella vita pratica, valutando i tratti della personalità del paziente e intervenendo su una riabilitazione e risocializzazione. La psicologia clinica, come suggerisce il nome, è legata invece al lavoro dello psicologo in ambito clinico, principalmente ospedali e ambulatori. La psicoterapia, ovvero la “cura dell’anima”, è il percorso teso a rimuovere i disagi emotivi e comportamentali attraverso l’individuazione e la limatura di un disturbo strutturale della personalità. Il counseling è invece più simile a un atto di orientamento per sviluppare le potenzialità del paziente attraverso un lavoro motivazionale.
Inoltre, non per forza la scelta di intraprendere un percorso su se stessi è collegata a un trauma da superare o a una condizione emotiva in frantumi: spesso chi va dallo psicologo lo fa per una crescita personale, per la ricerca personale e di un proprio equilibrio, decidendo di affidarsi a una persona competente. Chi vuole diventare psicologo deve infatti completare un percorso molto lungo e impegnativo: i cinque anni del percorso di laurea, il tirocinio obbligatorio (che va dalle 500 alle 1000 ore), l’esame di Stato, l’iscrizione all’Albo e infine la specializzazione attraverso vari corsi di formazione. Se qualcuno ipotizza un guadagno facile e smisurato, deve ricredersi davanti ai numeri dell’Enpap: in Italia, su 55mila professionisti attivi, soltanto un terzo raggiunge i 20mila euro annui, mentre più di quindicimila psicologi non raggiungono i 5mila euro annui – che vuol dire circa 400 euro al mese, quando va bene.
Nonostante le prospettive economiche non siano molto allettanti, facendo un confronto con il resto d’Europa, è possibile notare la crescita del numero degli psicologi (e non dei pazienti) in Italia. Secondo un report della Commissione europea, nel nostro Paese ci sono 156 psicologi ogni 100mila abitanti. Una cifra elevata, considerando che in Francia sono soltanto 84 e in Germania 109. Il problema però è che in Italia, anche se i professionisti sono tanti, le prestazioni psicologiche sono in numero ridotto rispetto a questi Paesi. Una ricerca della Società Italiana di Psichiatria parla di 17 milioni di italiani con problemi di salute mentale. Tra questi, solo una percentuale che va dall’8 al 16% decide di incontrare un professionista, e si riduce alla forbice 2-9% il numero di chi segue un trattamento che comprende sia psicoterapia che farmaci (che comunque non possono essere prescritti dallo psicologo, ma solo dallo psichiatra). Allargando il discorso all’Europa, secondo l’Oms i casi di problemi psicologici riguardano 165 milioni di persone. Se sono ancora relativamente pochi gli italiani che si affidano a uno psicologo, i francesi non si fanno scrupoli e il 33% si è rivolto almeno una volta a una figura di questo tipo.
Il problema del sovraffollamento di psicologi in Italia è così urgente da aver spinto Mario Sellini, segretario generale Aupi (Associazione unitaria psicologi italiani), a lanciare un vero e proprio appello ai maturandi. Ha infatti dichiarato: “Non vogliamo una società di illusi. Evitiamo il lungo calvario che molti affrontano per iniziare questa professione, raggiungendo comunque risultati scarsissimi e rischiando un futuro di disoccupazione. Non vi è dubbio che la società odierna abbia fame di psicologia, ma non di uno psicologo ogni 600 abitanti”. I dati Aupi sono chiari: soltanto la metà degli psicologi italiani è iscritta all’Enpap – la cassa di previdenza della categoria. Quindi l’altra metà naviga nel mare dei lavori discontinui, se non della vera e propria disoccupazione.
Il blocco che sta alla base della scelta di andare dallo psicologo, di iniziare questo percorso interiore, è forse da ricondursi al timore di conoscere davvero se stessi. Non è tanto il giudizio di un estraneo a rappresentare l’argine – anche perché uno psicologo non dà giudizi – piuttosto è la paura di un giudizio personale, nostro e di nessun altro, ad attivare i freni di difesa. Scoprire nuove parti di sé, non sempre positive, può apparire come un grande ostacolo che non tutti hanno la voglia di affrontare. Fare i conti con la propria vera natura può essere destabilizzante, ma il cambiamento nasce solo da lì.
Dobbiamo farci la ragione che non c’è niente di cui vergognarsi nel rivolgersi a una figura specializzata per migliorarci e liberarci da pattern psicologici ed emotivi che spesso ci impediscono di trovare una nostra serena realizzazione e di vivere in sintonia con l’ambiente che ci circonda. Dovrebbe sembrarci strano il contrario. Ma in questo periodo sembra che il nostro Paese abbia la tendenza a ragionare al contrario. Quella che la diffusa opinione comune collega alle donne sul punto di una crisi di nervi o a individui traumatizzati con la personalità in frantumi, è una scelta che richiede invece grande coraggio, e che non tutti, una volta esternato l’opinionismo aggressivo e poco informato, sono pronti a compiere. Mettere in crisi le proprie certezze non è facile, ma è l’unico modo per evolversi e contribuire a cambiare l’ambiente che ci circonda con più consapevolezza. Non si può cambiare la società senza aver prima cambiato noi stessi.