Anche la più clamorosa delle false notizie può diventare verità se sostenuta a dovere. Si prenda per esempio 2+2=5, che è un po’ l’archetipo dell’odierna fake news: in 1984 di George Orwell il protagonista si chiedeva se lo Stato avesse potuto dichiarare tale semplice equazione come “un fatto” e rifletteva che, se tutti ci avessero creduto, ciò l’avrebbe resa vera. Perché l’essere umano cede alla forza della propaganda e, per dirla sempre con Orwell: “Tutte le cose che accadono sono contenute nella mente e accade veramente solo ciò che è nella mente di tutti”. Le folle, sono un tema di strettissima attualità, che iniziò a studiare alla fine dell’Ottocento il medico e antropologo francese Gustave Le Bon, approntando una teoria che, tra le altre cose, ispirò involontariamente i regimi del Novecento. Come sostenne George Lachmann Mosse, professore di storia alla University of Wisconsin-Madison, nel suo saggio pubblicato nel 1974 e intitolato La nazionalizzazione delle masse. Simbolismo politico e movimenti di massa in Germania (1812-1933), le teorie fasciste sulla leadership che emersero durante gli anni Venti dovettero molto alle teorie di Le Bon. Benito Mussolini fece uno studio approfondito del pensiero di Le Bon e anche Adolf Hitler lesse il suo testo cardine, Psicologia delle folle, tanto che il Mein Kampf sembra essere stato redatto seguendo passo a passo la tecnica di propaganda che proponeva, di cui si parlerà più avanti.
Le Bon considerava le folle come assembramenti transitori di persone, sottoinsiemi fluidi di una moltitudine più grande, vale a dire quella massa che – come corpo sociale richiedente diritti e rappresentanza – all’epoca aveva anch’essa esordito da poco sul proscenio. È poi importante notare che Le Bon concepì il suo lavoro nei mesi in cui in Francia divampò l’affare Dreyfus, ossia l’accusa di spionaggio a favore della Germania mossa nei confronti del capitano alsaziano di origine ebraica Alfred Dreyfus, un caso scuola di condizionamento delle folle, che divise il Paese sull’onda dell’antisemitismo allora imperante nella società francese e soprattutto del clima politico avvelenato dalla sconfitta nella guerra franco-prussiana del 1870-71.
L’intuizione di Le Bon fu che la logica alla base dei comportamenti collettivi differisse dalla psicologia dei singoli individui. All’interno di una folla la personalità del singolo svanisce e i sentimenti e le idee di tutte le unità sono orientati nella stessa direzione, portando così alla nascita di un’anima aggregata, transitoria ma che presenta caratteri ben definiti. Le folle non ragionano, sono una forza distruttiva, indisciplinata, che non ha visione d’insieme e per questo sono facilmente influenzabili e manipolabili dal carisma del leader, che grazie all’uso di poche e semplici parole d’ordine – un pugno di formule non argomentate – può accedere al loro primitivo “inconscio collettivo”. Un agglomerato di individui, sosteneva Le Bon, non è sufficiente a formare una folla, devono ricorrere alcune caratteristiche particolari affinché si azzeri la personalità dei singoli e si plasmi l’unificazione mentale, scompaia la vita cerebrale e si affermi quella viscerale, midollare. I sentimenti di una folla, infatti, sono esagerati, ma anche estremamente semplici e primitivi, e trasformati in questo modo possono risultare migliori o peggiori di quelli dei singoli individui che la compongono. La folla si illude facilmente, è suggestionabile ma anche impulsiva, mutevole e irritabile nonché tendenzialmente autoritaria e conservatrice. Inoltre, la folla non agisce per interesse – che molto spesso è il movente dell’individuo isolato – e quindi paradossalmente ha una moralità molto più alta dei singoli.
Le Bon fornì anche una classificazione delle folle – portando esempi concreti di questi accumuli cangianti di individui – e ne evidenziò sostanzialmente due grandi categorie: le folle eterogenee, suddivise a loro volta in anonime (per esempio quelle di piazza) e non anonime (le giurie, le assemblee parlamentari, eccetera); e quelle omogenee, suddivise a loro volta in sette (per esempio politiche o religiose), caste (militare, sacerdotale, operaia, eccetera) e classi (borghese o contadina). Tra le folle eterogenee lo studioso francese ne approfondì alcune fattispecie: le folle criminali, quelle cioè che compiono atti al di fuori della legge, come assaltare un palazzo del potere o giustiziare un governatore; i giurati delle corte d’assise, le cui decisioni – secondo Le Bon – sono indipendenti dalla composizione e per cui la natura dei crimini determina severità o indulgenza (in genere, le giurie, si fanno impressionare molto dai sentimenti e poco dai ragionamenti, sosteneva lo studioso); o, ancora, le folle elettorali, ossia le collettività chiamate a eleggere i titolari di alcune cariche.
Le idee delle folle sono indipendenti dalla mole di verità che contengono e assumono forme quasi religiose, perché le folle non si fanno influenzare dalla ragione, anzi secondo Le Bon i loro ragionamenti sarebbero sempre di ordine misero, mostrandosi come simulacri di concatenazioni logiche, immagini che si susseguono senza alcun legame. Le folle pensano per immagini e sono attratte soprattutto dall’aspetto meraviglioso e leggendario delle cose, che però va preparato accuratamente. C’è infatti un grande lavorio a monte della formazione delle idee collettive, la maturazione delle credenze popolari è conseguenza di un’elaborazione precedente e su tali credenze giocano un ruolo preminente, più che l’istruzione e le istituzioni politiche e sociali, elementi come la cultura, l’appartenenza, le tradizioni e il tempo. La forza delle idee di una folla è legata alle immagini che esse evocano ed è indipendente dal loro senso reale: non sono i fatti in sé a colpire l’immaginazione popolare, bensì il modo in cui tali fatti si scansionano e si presentano; pertanto, chi conosce l’arte di impressionare l’immaginazione della folla conosce anche l’arte di governare, che si fonda su tre tecniche: affermazione, ripetizione e il contagio.
L’affermazione pura e semplice, concisa e non provata, è uno dei mezzi più sicuri per inculcare un’idea nella testa delle folle. I libri sacri, per esempio, sono pieni di affermazioni per così dire non verificate. D’altra parte gli uomini politici che devono difendere una causa o i pubblicitari che devono vendere i loro prodotti conoscono bene l’importanza dell’affermazione. Quest’ultima, però, va ripetuta, perché solo l’affermazione reiterata è capace di penetrare nelle aree profonde dell’inconscio che determinano l’agire umano. Dopo un po’ ci si scorda chi sia stato l’autore dello slogan ripetuto e finiamo per credervi. Questo meccanismo è stato ripreso dopo l’avvento dei mezzi di comunicazione di massa anche dalla pubblicità: quando abbiamo letto cento, mille volte che uno shampoo per capelli è il migliore pensiamo di averlo sentito dire un po’ da tutti e finiamo per esserne certi. “Ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità”, recita la famosa frase falsamente attribuita a Joseph Goebbels, ministro della propaganda del Terzo Reich, eppure, al di là della filologia, incarna alla perfezione la visione della propaganda nazista, e non solo, ispirata a quanto descrittto da Le Bon. Quando poi un’opinione è stata ripetuta un sufficiente numero di volte – prossimo allo sfinimento – subentra il meccanismo del contagio, che non richiede la presenza simultanea dei singoli in un unico posto e può avvenire anche a distanza.
Le idee propagate secondo questi tre criteri assumono così l’aura del prestigio, ossia la capacità di catturare la nostra attenzione, convincendoci e orientandoci. Il prestigio ci domina, paralizzando ogni nostra facoltà critica e riempiendo di stupore e rispetto, e ciò che riteniamo prestigioso – secondo Le Bon – opera su di noi una sorta di ipnosi, il più delle volte per un periodo limitato di tempo e fino al riacquisto della ragione (cosa che sfortunatamente in alcuni casi avviene troppo tardi o non avviene mai). Senza scomodare santoni e falsi guru delle sette, l’odierna figura dell’influencer è un perfetto esempio di prestigio, al punto che in molti casi i follower la prendono a riferimento non solo per quanto attiene al suo campo di pertinenza, ma a modello culturale tout-court, esempio di valore per il solo fatto di avere un seguito, assumendo in alcuni casi condotte imitative, non ispirate al puro e semplice pragmatismo per cui è naturale copiare chi eccelle in qualcosa, ma dettate da una connessione emotiva.
In tali dinamiche ci riconosciamo bene ed è chiaro come tutto ciò si ricolleghi alle attuali tecniche di comunicazione e manipolazione di massa, all’infosfera, alle strategia di vendita, alle fake news e ai messaggi subliminali a cui siamo quotidianamente esposti. Ne abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni molti esempi: dalla reiterazione mirata di determinate parole chiave durante i tg o sui giornali, a quella di certe frasi che tornano e ritornano nel discorso pubblico, sollevandoci dall’incombenza di chiederci se in effetti siano vere e assolvendoci dalla fatica di metterle in discussione. Accettare una verità preconfezionata è molto più comodo del dover pensare con la propria ragione. Al momento, infatti, non abbiamo trovato molte tecniche per risultare immuni all’effetto folla, e i nostri comportamenti sono molto meno indipendenti di quanto crediamo. Nel 2012, Facebook ha condotto un esperimento, esponendo a loro insaputa 680mila utenti in un caso a contenuti per la maggior parte positivi e nell’altro soprattutto negativi. Ne è risultato che gli utenti pubblicavano messaggi dal contenuto più positivo o più negativo a seconda dei post che ricevevano.
La pubblicazione di Psicologia delle folle, nel 1895, segnò la nascita simbolica di una nuova disciplina, la psicologia sociale, oltre a rivelarsi un punto di partenza fondamentale per i successivi studi sui processi di interazione aggregata. A partire dagli anni Cinquanta, infatti, con la fine della seconda guerra mondiale, la branca di studio si sviluppò, analizzando a posteriori proprio i totalitarismi e sviluppando alcuni inquietanti esperimenti, come quello sul conformismo condotto da Solomon Asch; o il famoso esperimento carcerario di Philip Zimbardo; o infine il test di Stanley Milgram sull’obbedienza all’autorità. Oggi la psicologia sociale è estremamente attuale per la sua attinenza con le categorie dell’opinione pubblica, del marketing, dell’informazione, dei social media e della produzione del consenso.
Ne abbiamo sotto gli occhi esempi tutti i giorni: le convinzioni dei singoli si formano sulla base di come i fatti vengono riportati dall’informazione giorno dopo giorno, in maniera più o meno dolosa, di parte o parziale; la “fictionizzazione” del dibattito, con la preminenza dello storytelling, è un processo ben noto; gli stessi spot televisivi approfittano del nostro essere calati in una dimensione sociale di base, facendo leva sui nostri desideri e sui nostri affetti per indurci all’acquisto di generi di consumo (non a caso Pasolini diceva che la società dei consumi è tarata sulla famiglia); e infine le strategie di comunicazione della politica, con il ruolo essenziale degli spin doctor prima e dei social media manager poi, si fondano proprio su decenni di indagini, osservazioni ed esperimenti sulle realtà sociali. E se per Le Bon affinché si manifestassero le caratteristiche psico-sociali della folla era fondamentale l’aggregazione delle persone in un unico luogo, che in passato era per antonomasia la piazza, intesa come luogo pubblico di incontro, oggi è evidente che l’atomizzazione connessa resa possibile dalla rete abbia apparentemente annientato anche il precetto della condivisione in loco, determinando in certi casi anche una diffusione molto più rapida, capillare ed efficace di fake news.
Viene da chiedersi come sia possibile resistere a uno scenario tanto desolante, dato che tutti noi, durante la nostra esistenza siamo portati a essere parte di folle. Ma le folle, come si diceva all’inizio e come ben sappiamo, non agiscono necessariamente per il male. Anzi, la loro utilità sociale emerge laddove siano rappresentazione di unioni nate per portare avanti istanze collettive positive e inclusive. La storia è piena di esempi di folle che hanno cambiato in meglio le sorti del mondo: la folla di cittadini francesi che assaltò la Bastiglia nel 1789, oppure quelle che marciarono per i diritti dei Neri negli Stati Uniti, o quelle che protestarono contro la guerra in Vietnam negli anni Sessanta, hanno tutte portato benefici e conquiste effettive alla collettività, come la fine dell’Ancien Régime, il Civil Right Act del 1964 o il ritiro, seppur lento e controverso, delle truppe militari statunitensi dal Paese asiatico, perché il governo degli Stati Uniti a un certo punto non poté non prendere atto che il clima culturale era mutato. Esempi di folle positive, poi, le abbiamo avute in Italia, con le proteste operaie che portarono all’approvazione dello Statuto dei lavoratori nel 1970 o, più di recente, con il milione di manifestanti che nel 2002 si opposero con successo allo smantellamento dell’Articolo 18 di quello stesso Statuto (poi comunque in larga parte abrogato dodici anni dopo, ma questo è un altro discorso). Le folle, dunque, non sono sempre negative, possono anche fare il bene; conoscere le dinamiche che le dominano può essere utile, per opporvi resistenza, per imparare a riconoscerle nel caso in cui le si stia vivendo in prima persona, o magari anche per impiegarle per il bene, come ad esempio le lotte di classe; perché, appunto, a volte la somma è migliore delle singole unità.