Due ragazzi vorrebbero diventare grandi, mettere su famiglia, cominciare un’attività. Ma un boss che già da settimane stalkerava la ragazza è di un altro parere, e manda i suoi picciotti a intimidire le autorità. Costretti a dividersi, i due protagonisti perdono le proprie tracce in un contesto apocalittico: crisi economica, guerra, epidemia. Le autorità sono completamente incompetenti, la popolazione crede a qualsiasi fake news. La ragazza trova rifugio in una comunità chiusa femminile dove però scopre che l’autoreclusione non abolisce i rigidi rapporti di forza della società, anzi li esalta. La sua protettrice, ricattata a causa di un torbido passato, la consegna a un altro boss. Il ragazzo, frustrato, si radicalizza: coinvolto nei moti di piazza viene criminalizzato come un terrorista dal potere costituito, in caccia di capri espiatori.
Partendo da un piccolo caso di provincia – un episodio di molestie come purtroppo se ne sentono tanti, un’intimidazione di stampo mafioso – l’autore allarga il quadro fino a dipingere un’intera società in stato disfunzionale. Le leggi descrivono i reati invece di reprimerli; il governo, ignorando i più elementari concetti di economia conduce la popolazione alla fame e al caos; i ricchi vivono in una bolla; la cultura è custodita da eruditi ottusi che disprezzano la scienza; le guerre sono il risultato di farraginosi meccanismi diplomatici che scattano quasi automaticamente, decidendo il destino di milioni di persone. E proprio quando le cose sembrano volgersi al meglio, un’apocalittica epidemia travolge la vita di tutti i personaggi. Il romanzo italiano più attuale che possiate leggere oggi è stato scritto nel 1827, quando ancora non era chiaro se in Italia si potessero scrivere libri e in che lingua andassero scritti.
Quante volte, anche in questi giorni, di fronte ai tweet di qualche sovranista esagitato che cercava di cavalcare la paura del coronavirus per chiedere la chiusura dei porti, ci siamo detti: dagli all’untore. Quante volte di fronte a quel meccanismo giornalistico conosciuto come macchina del fango, non abbiamo pensato alla Colonna infame. Un cosiddetto intellettuale si lamenta della crisi del liceo classico, senza nemmeno disporre degli strumenti statistici per stabilire se il classico sia in crisi o no: l’ennesimo Don Ferrante. C’è crisi, qualcuno propone di stampare moneta all’infinito, che problema c’è? Come Ferrer coi forni e la farina, salvo che sappiamo già come andrà a finire, appunto: ce l’ha spiegato Alessandro Manzoni. Viene emanata una legge per risolvere un problema che ha già ispirato tante altre leggi rimaste inapplicate: come non pensare allo scrittoio ingombro di carte dell’Azzeccagarbugli, mentre cerca la grida più recente perché quelle fresche di stampa fanno più paura. C’è una manifestazione, qualcuno fa dei danni, qualcun altro rimane impalato davanti alla telecamera del giornalista: domani sarà su tutte le homepage come il leader dei facinorosi, la stessa storia sin dai tempi di Renzo Tramaglino. E a proposito di Renzo, il suo rancore per chiunque abbia avuto il tempo e la facoltà di studiare, non lo vediamo all’opera tutti i giorni sui profili di milioni di laureati all’università della vita? La dinamica con cui le folle deformano ogni informazione qualcuno l’aveva già descritta così bene prima della notte delle beffe.
I promessi sposi andrebbe letto in tutte le scuole, eppure lo facciamo già ma a quanto pare non ci ha insegnato niente. Tante volte ci siamo detti che forse proprio questo era il problema con questo classico: l’obbligo scolastico. Un libro che ci racconta con abbondanza di dettagli un’avventurosa vicenda di soprusi, duelli, malintesi, drammi interiori e quant’altro, in un periodo storico così apparentemente lontano dal nostro, evoca in tutti noi per prima cosa la formica sciupata dei banchi di scuola. Ogni tanto qualcuno butta lì la provocazione: e se smettessimo di imporlo agli studenti? Magari a quel punto sì, comincerebbero davvero ad apprezzarlo. Qualcuno senz’altro lo leggerebbe di nascosto, mentre il prof spiega.
Purtroppo però niente lascia pensare che le cose andrebbero davvero così. Anzi, le classifiche dei libri ci dicono l’esatto opposto: gli unici classici della letteratura italiana a salire ciclicamente sono i testi che vengono assegnati dagli insegnanti come letture estive in giugno, o imposti nel pacchetto dei libri di testo a settembre. I Malavoglia di Giovanni Verga, Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello, La Storia di Elsa Morante e così via. Tutti testi interessanti e ancora attuali, ma se la scuola non li riproponesse, nel medio termine rimarrebbero materia per gli specialisti. La stessa cosa succederebbe per I promessi sposi, che tra questi è anche uno dei meno facili da leggere. La prosa di Manzoni è quanto di più diverso si possa immaginare da quella svelta e spesso cinematografica che siamo abituati a trovare nei best seller di oggi, anche quelli con pretese letterarie: è tornita, abbondante, si dipana come la lezione di un professore di Storia a cui nessuno abbia imposto limiti di tempo. È uno stile quasi miracoloso per gli anni in cui Manzoni lo produsse, e che per molto tempo fu uno standard ineguagliato, ma oggi ha bisogno del filtro scolastico per essere compreso e apprezzato: molti testi postmoderni che fondano il proprio successo di nicchia sul fatto di essere quasi impossibili da leggere (penso a Infinite Jest di David Foster Wallace o a L’arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon) sono per certi versi più facili da leggere con comodo persino sotto l’ombrellone.
Un altro aspetto che ci allontana ineluttabilmente da Manzoni è proprio quello che più contribuì a renderlo una lettura obbligatoria per così tanto tempo: il cattolicesimo. Perché per quanto sia tragico e decadente il mondo descritto dall’autore, non può che urtare la nostra sensibilità postmoderna il fatto che ci abbia messo la soluzione davanti al naso: la divina provvidenza. Ovviamente le cose sono molto più complesse di così, e anche il cattolicesimo di Manzoni, a conoscerlo, è un sentimento religioso molto sui generis: in un Paese dove tutti nascono cattolici e smettono di crederci dopo aver preso i sacramenti, Manzoni fece il percorso contrario, convertendosi in età adulta, e rimanendo molto vicino a una corrente abbastanza esotica per la sensibilità italiana, il giansenismo.
La fede di Manzoni non gli impedì però di muovere critiche severe al clero, anzi: due dei personaggi meglio definiti dall’autore, con precisione spietata, sono com’è noto due figure di religiosi: Don Abbondio e Gertrude. Per quanto si avvicini a loro, per quanto ne descriva i moti più reconditi, Manzoni non sospende mai un fermo giudizio morale nei loro confronti: per quanto riconosca e spieghi costantemente che il loro carattere e le loro mancanze sono il risultato delle pressioni sociali subite fin dalla nascita, Manzoni non smette mai di affermare che a queste pressioni, in qualsiasi momento, il timido prete e la monaca reclusa avrebbero potuto e dovuto ribellarsi. Non si tratta dunque del cattolicesimo bonario delle nostre sacrestie, come si vede. Da integralista del libero arbitrio, infatti, Manzoni non può perdonare Gertrude: è “sventurata”, è vero, ma nessuno la obbligava a comportarsi in quella maniera.
Mentre in Italia è passato molto spesso per cattolicesimo un dispositivo morale che ci allontana dalle nostre responsabilità individuali, Manzoni non ha pudore a rimettercele costantemente davanti agli occhi, con quell’insistenza che passa per paternalismo (e in un certo senso lo è davvero): siamo noi che scriviamo troppe leggi invece di preoccuparci di farle rispettare, siamo noi che di fronte a una minaccia più o meno vaga ci inchiniamo come Don Abbondio davanti ai bravi “troppo giusti, troppo ragionevoli”. Siamo noi che malgrado ogni tentativo di contenerci, di fronte alle provocazioni di un interlocutore nemmeno troppo astuto cominciamo a vedere rosso e ci facciamo governare dall’ira, come Fra Cristoforo davanti a Don Rodrigo. Siamo noi che di fronte a una difficoltà, invece di lottare per ciò che abbiamo di più caro, decidiamo di rinunciarci come se Dio ce lo chiedesse, come Lucia nella sua notte più terribile. Siamo noi i personaggi de I promessi sposi, e questo ci fa arrabbiare perché il resto d’Europa vive in un romanzo più recente.