All’apparenza un uomo qualunque, nessun segno particolare. Si chiama Lorenzo Perrone ed è stato inviato al campo di lavoro di Monowitz – collegato ad Auschwitz – dalla ditta piemontese Boetti, che aveva accettato l’incarico di svolgere alcuni lavori necessari per il suo allargamento. È l’estate del 1944, di mestiere fa il muratore. Avvicinato da un detenuto, scopre le terribili condizioni a cui i nazisti sottopongono i deportati e decide di impegnarsi a salvarlo, con quel poco che può: ruba del cibo, un maglione caldo, intrattiene la corrispondenza con la sua famiglia, addirittura riesce a consegnare un pacco contenente cioccolata, latte in polvere e biscotti. Lo fa senza chiedere nulla in cambio, a differenza della maggior parte delle figure che abitavano il lager, come verrà raccontato in seguito. Anni dopo, quando il lager verrà chiuso, quello stesso detenuto scriverà: “Io credo che proprio a Lorenzo debbo di essere vivo oggi; e non tanto per il suo aiuto materiale, quanto per avermi costantemente rammentato che ancora esisteva un mondo giusto al di fuori del nostro”. Quel detenuto era Primo Levi.
Torinese di nascita ed ebreo di origine, Levi si diploma al liceo classico e si iscrive alla facoltà di Chimica nel 1937, l’anno precedente alle leggi razziali che impediranno l’accesso agli studi universitari ai cittadini di origine ebraica, pur concedendo di terminarli a chi li avesse già intrapresi. Trasferitosi a Milano dopo aver trovato lavoro presso una azienda di medicinali, nel 1942 inizia i suoi primi esperimenti letterari ed entra in contatto con ambienti antifascisti, finendo per entrare a far parte del Partito d’Azione clandestino. L’inverno successivo, dopo essersi unito a un gruppo partigiano, viene arrestato dalla milizia fascista e trasferito prima nel Campo di Fossoli e poi stipato insieme a tanti altri su un treno merci diretto al campo di sterminio di Auschwitz. Interrogato, per evitare di essere fucilato sul posto, preferirà dichiararsi ebreo piuttosto che partigiano.
La sopravvivenza di Levi sarà il risultato di una serie di incontri e avvenimenti fortuiti – e non Provvidenziali – come li definirà lui stesso nel suo libro I sommersi e i salvati e ribadirà intervistato da Enzo Biagi. Prima di tutto, la sua conoscenza del tedesco, anche se a livello elementare, e della chimica lo rendono un prigioniero utile; per questo viene reclutato per lavorare alla Buna, una fabbrica legata al conglomerato chimico I.G. Farben, il quale trae vantaggio dal costo nullo della manodopera del campo e dalle vicine miniere di carbone. In secondo luogo, saranno l’incontro con Perrone e l’ammirazione per il compagno Chaijm e il partigiano Mendel, entrambi orologiai dall’intelligenza pratica e concreta, a ispirarlo, aiutandolo a resistere all’impulso di abbandonarsi all’inerzia e all’incuria, come accadeva a molti detenuti. Alla loro idea positiva del lavoro si contrapponeva quella disumanizzante del lager, parodia grottesca dell’usuale modo di concepire il termine e beffarda variante della scritta che campeggiava sull’ingresso di Auschwitz: Arbeit macht frei, il lavoro rende liberi. Infine, Levi si ammala di scarlattina e viene ricoverato in infermeria. Riuscirà così a evitare per puro caso la marcia della morte, una lunga e stremante camminata verso i campi più a Nord a cui vengono costretti i prigionieri per sfuggire all’avanzata inesorabile delle forze sovietiche ed evitare che essi rendano noti gli orrori nazisti.
Sopravvissuto al lager, Primo Levi attraversa Polonia, Bielorussia, Ucraina, Ungheria, Romania, Germania e Austria prima di riuscire a far finalmente ritorno in Italia, nell’ottobre 1945. Lungo il viaggio, si rende conto che quella che sta vivendo è solo una tregua dalla sofferenza, a tratti interrotta dalla vergogna di essere sopravvissuto. I deportati, per riuscire a fare rientro a casa, devono percorrere migliaia di chilometri senza soldi, senza poter parlare una lingua comprensibile – imparata in maniera basilare di volta in volta, nelle soste nei territori attraversati – senza documenti con cui poter attraversare le frontiere, esposti all’intenso freddo dei mezzi di locomozione di fortuna. A sostenerli in questo ritorno disperato, il sogno di recuperare al più presto una dimensione umana, anche se nessuno ha la certezza di ritrovare la propria casa.
Il ricordo dell’esperienza subita lo tormenterà senza tregua, mescolandosi alla vergogna di non essere riuscito a far valere la propria volontà davanti ai soprusi nazisti, e al senso di colpa tipico del sopravvissuto. Così inizierà a scrivere, perché testimoniare è un modo per tutelare ciò che rimane della propria dignità, oltre che un dovere nei confronti dei posteri. Spinto dal tentativo di riflettere sull’origine della violenza di massa – fondata sulla cieca ubbidienza alle autorità e sull’ambiguità dell’animo umano – Primo Levi descrive quanto ha attentamente osservato e analizzato: la relazione tra l’essere più debole e il più potente, il quale fa della propria volontà la legge universale. Nasce così il suo primo e più famoso libro, Se questo è un uomo; dapprima rifiutato da vari editori, viene pubblicato nel 1947 da una piccola casa editrice e, solo dieci anni più tardi, sarà riproposto da Enaudi, che inizialmente lo aveva respinto.
Proprio sulla vicenda di questo rifiuto si apre, nel 1987, un caso pubblico quando Riccardo Chiaberge, l’attuale direttore scientifico dell’enciclopedia Treccani, in un articolo pubblicato sul supplemento culturale del Corriere della Sera (di cui al tempo era caporedattore), accusa Natalia Ginzburg – storica collaboratrice di Einaudi – di essere la coresponsabile del rifiuto insieme a Cesare Pavese, il quale avrebbe obiettato che erano già usciti troppi libri sui campi di concentramento. Ginzburg confuterà le accuse in una lettera aperta inviata al giornalista, imputando la colpa al solo Pavese. Secondo quanto scrive Chiaberge nella lettera invece, sarebbe lo stesso Giulio Einaudi, in un’intervista tv, a confermare la sua versione dei fatti. “Il ricordo del nazismo, della shoah, delle persecuzioni era troppo bruciante e Natalia aveva perso il marito pochi mesi prima,” dichiarerà l’editore. Leone Ginzburg – socio fondatore – era infatti morto nel gennaio 1944, ucciso dalle torture subite dai nazifascisti, ed Einaudi non aveva avuto il coraggio di opporsi al giudizio della vedova. Chiaramente è impossibile oggi ricostruire come andò veramente la vicenda.
Per quanto riguarda lo stile di scrittura, già dal suo esordio, si mostra scarno ed essenziale, condizionato dal lavoro di chimico che in quegli anni aveva continuato a portare avanti e dalla volontà di tenere a bada il dolore e il risentimento per dare voce a un potente racconto privo di giudizio. Il titolo della celebre opera rappresenta la domanda a lui più cara, una riflessione sulla dignità umana e sulla sua mancanza, su come fosse stata possibile l’esistenza dei lager e sulla corruttibilità d’animo dell’individuo ordinario. Una ricerca angosciante che tornerà spesso nelle sue opere, giustificata dalla speranza che l’autore nutre nei confronto della memoria, che porta conoscenza e saggezza e ci permette di imparare dalla Storia senza lasciarci ingannare dalla facilità con cui i ricordi si degradano e il passato viene distorto per essere sopportato più facilmente.
Quattordici anni dopo Se questo è un uomo, Levi inizia a lavorare al romanzo che racconta il viaggio di ritorno da Auschwitz, La tregua. Poi si lascia ispirare dalla natura e dall’influenza della scienza e della tecnica sulla vita quotidiana, producendo prima Il sistema periodico (una raccolta di racconti autobiografici e di fantascienza) e dopo La chiave a stella. Quest’ultimo testo omaggia la libertà dell’uomo moderno, precaria ma capace di adattarsi ai tempi, che va curata e coltivata: è il lavoro a definire il ruolo primario dell’uomo nella società. Avere un incarico lavorativo non significa solo ricevere uno stipendio e avere la possibilità di condurre una vita decorosa, ma anche rivestire un ruolo che garantisca a tutti gli effetti un posto integrato nella società. Il lavoro contribuisce alla formazione del carattere, aumenta la fiducia in sé stessi quando si raggiungono determinati obiettivi e stimola la spinta all’indipendenza e all’autonomia. Scoprire l’opera di Levi significa anche tornare a interrogarci su cosa diventino il lavoro, quando viene spogliato di ogni dignità umana, e la vita, se non viene riempita da un lavoro dignitoso, non alienante.
La lezione di Primo Levi va oltre e ci allarma sulla tendenza mai sopita di voltarsi dall’altra parte e far finta di nulla quando i nostri vicini, i nostri amici o anche solo gli sconosciuti che incrociamo compiono gesti di violenza e diffondono l’odio verso il prossimo con azioni e parole.
Nel saggio I sommersi e i salvati, infatti, Levi abbandonerà il rapporto uomo-tecnologia per tornare a scrivere, per l’ultima volta, dell’Olocausto, delineando la “zona grigia”, il tratto indistinto tra gli aguzzini e le vittime, quell’ampio mondo composto appunto da “persone grigie, ambigue, pronte al compromesso”, rapide nel voler conquistare i piccoli vantaggi derivanti dal frequentare chi detiene il potere, nei lager e fuori. Ignorare l’ingiustizia a cui assistiamo è sempre l’errore più grave. È ancora più drammatico se a restare immobile – e talvolta addirittura ad aizzare e a strumentalizzare anzi quell’odio – è la classe politica alla guida del Paese, allora come oggi.
Inizialmente respinto persino dall’editore militante Gallimard perché “non piaceva”, I sommersi e i salvati vedrà la luce solo dopo la morte di Levi, nel 1986. Nel testo emerge, spiegato con estrema lucidità, il senso di colpa del sopravvissuto. Mai davvero libero, è obbligato per dovere civile a testimoniare e dar voce a tutti i “sommersi”: coloro che hanno conosciuto la vita nel suo punto più basso e che hanno perduto da mesi la capacità di lottare, di osservare, di esprimersi.
Nella zona grigia rientrano invece la grande maggioranza dei salvati. Al suo interno ci sono i prigionieri fintamente elevati “ad alti ranghi”, a cui i nazisti affidano posizioni di controllo fittizie al solo scopo di aizzarli e metterli contro gli altri detenuti. L’obiettivo è di traslare sulle vittime il senso della colpa, così che, nel privarle della propria umanità e ridurle a bestie, non restasse loro nemmeno la speranza di essere innocenti, diversi dai propri carnefici. Il lager diventa così lo scenario di una guerra di tutti contro tutti, in cui volentieri o meno si scende a patti col potere e ci si dimentica la fragilità propria dell’essere umano. “Nel ghetto ci siamo tutti, il ghetto è cintato e fuori dal recinto stanno i signori della morte”. Nella zona grigia, secondo Levi, rientrano anche molti degli intellettuali italiani, accusati da Pierluigi Battista sul Corriere della Sera di non essersi opposti, non aver reagito, parlato: “Il silenzio imbarazzato o accondiscendente nei confronti delle leggi razziali coinvolse cattolici e laici, conservatori e progressisti. Gli ebrei vennero lasciati soli,” scrive Battista.
I sommersi e i salvati si affianca a La banalità del male, il saggio che Hannah Arendt pubblica nel 1963. Secondo l’autrice, quando mancano la memoria degli errori passati e non si ritorna sui propri pensieri e sulle proprie azioni – facendo venir meno, quindi, un dialogo con se stessi – è impossibile avere la forza per non cedere a comportamenti passivi. Agendo secondo una cieca obbedienza, il cittadino comune applica le regole imposte dall’alto senza metterne in discussione il contenuto, diventando così schiavo dell’influenza del sistema e dimenticando la legge morale che dovrebbe guidarlo dall’interno. Coloro che si ribellano a questo meccanismo, nonostante le possibili ripercussioni, lo fanno domandandosi fino a che punto sarebbero capaci di vivere in pace con loro stessi dopo aver commesso certe azioni.
La zona grigia comprende infatti anche gli indifferenti, la parte di opinione pubblica che oggi è la più vasta, quella che non ha tempo, voglia o strumenti per soffermarsi a capire. “Mi fa paura quella parola che mi faceva paura anche allora e che ho voluto fortissimamente scritta a caratteri cubitali al binario 21 del Memoriale della Shoah a Milano: indifferenza. L’indifferenza è stata colpevole allora perché non ci si può difendere da chi volta la faccia dall’altra parte ed è lo stesso pericolo che c’è anche oggi,” ha commentato Liliana Segre, sopravvissuta alla Shoa e nominata Senatrice a vita, in riferimento alla situazione politica e sociale in Italia oggi.
Oggi più che mai, al riemergere di estremismi e razzismo, ricordare e mantenere viva la memoria è un atto di civiltà. Se è vero che al mondo “esistono persone grigie, ambigue, pronte al compromesso” o semplicemente sempre più indifferenti, restare fuori dalla zona grigia non significa solo evitare di fare direttamente del male gli altri, ma assumersi anche la responsabilità di manifestare i propri ideali e impedire che altri lo facciano, liberandosi del ruolo di carnefici passivi, colpevoli tanto quanto gli altri.
Questo articolo è stato pubblicato per la prima volta il 26 novembre 2018.