Ogni anno tra i lettori forti, gli addetti ai lavori e gli scrittori velleitari, si assiste a due momenti di improvviso fermento che danno una scossa sia a chi lavora dietro le quinte ed è sempre più frustrato, sia a chi spera prima o poi di entrare in quell’élite letteraria a cui mette compulsivamente like sui social. Questi due momenti precedono il premio Strega e ovviamente il Nobel per la letteratura. Tutti entrano in fibrillazione, si creano schieramenti, ho visto amicizie interrompersi a causa di commenti forzatamente sagaci rispetto al valore artistico di Murakami (che tra le discussioni a tema letterario sembra aver preso il posto di Alessandro Baricco), tra chi ha amato i suoi libri e lo considera un grande scrittore e chi ha amato i suoi libri ma si vergogna di ammetterlo in pubblico e si autopunisce criticandolo.
Come tutti i premi anche il Nobel è un premio politico, e ogni sua scelta trasmette un messaggio più o meno implicito, discutibile o meno, che crea dibattito. Spesso il dibattito, nell’ambito umanistico, tutto concentrato sull’espressione della propria individualità, ancora intesa come work of art, si riduce a un prosastico “avrei preferito quell’altro”. Ma tralasciando il toto Nobel, com’è stato fatto notare da diversi intellettuali, come Alexandra Pascalidou, la discussione dovrebbe fondarsi su dettagli socio-politici molto più rilevanti, come ad esempio il fatto che solo 15 donne su 116 abbiano ricevuto il premio, e che comunque tra questi la maggior parte sia anglofona (22 tra gli americani o appartenenti al Regno Unito), o tuttalpiù francese (15), da lì si passa a 8 tedeschi, 8 svedesi e fino a scendere fino all’unità e ai non pervenuti.
Solo qualche anno fa un dibattito del genere sarebbe stato impossibile: quando si provava a muovere qualche obiezione, il discorso puntualmente subiva un secco tentativo di interruzione attraverso la formula: “L’arte non ha a che fare col genere, le quote rosa non sono una soluzione”, e ciò avveniva anche da parte di molte donne – che percepivano ancora il vedersi relegate a questa categoria come un minus. Ma se è vero che il genio e la qualità artistica non dipendono certo dal genere, il loro giudizio apparentemente sì, e ancor più l’assegnazione di un premio tanto prestigioso. Sarebbe ingenuo credere che davvero il Nobel venga assegnato su suggerimento dello spirito – o del fantasma – della letteratura. Gli artisti possono essere naïfs, non certo i giurati di un premio o i critici. Quindi, finalmente, dopo l’onda d’urto mediatica del #metoo, e di molti altri movimenti e dibattiti che sono seguiti – o che finalmente sono emersi con il peso che si meritavano nel discorso pubblico mainstream – si è parlato di queste disparità. Qualche anno fa, anche a una considerazione oggettiva di questo tipo, qualcuno avrebbe detto: evidentemente è perché c’erano più uomini meritevoli.
Obiezioni del genere dovrebbero insospettire, ma a forza di sentirsele ripetere, anche da persone stimate, è facile che anche solo una piccola parte di noi – maschi o femmine – inizi a crederci, o quanto meno ad accettare la cosa come un’argomentazione reale. Peccato che non sia così. Le donne infatti, a causa del rigido ruolo che la società imponeva – e per certi versi ancora impone loro, anche se in modo più subdolo – hanno sempre fatto molta più fatica a esprimersi nel mondo artistico, e anche quando riuscivano a farlo non sempre raggiungevano una fama riconosciuta e spesso comunque dopo pochi anni dalla loro morte, venivano dimenticate. Le donne ostinate, testarde, volenterose, forti che sono riuscite a vincere la cortina del ruolo sociale di mogli e madri, dipendenti dalla famiglia o dal marito, sono sempre state bollate come tipe strambe o comunque il sistema, ormai per costituzione patriarcale, ha provveduto a operare una minuziosa quanto silenziosa damnatio memoriae. In questo modo le nuove generazioni sono arrivate alla l’alba degli anni zero – finalmente nel corso degli ultimi anni le cose stanno cambiando – con un bagaglio di riferimenti intellettuali pressoché esclusivamente maschile. Questo ha portato a un drammatico impoverimento della pluralità della narrazione dell’esperienza umana, e a un uniformarsi delle coscienze, e a un’esclusione di chi in quell’unico tipo di visione non si riconosceva, e magari cercava di farlo sacrificando la sua sensibilità più intima.
Il 2019 era quindi un anno importante per l’Accademia svedese per ridisegnare la propria immagine agli occhi della comunità internazionale, dopo gli scandali sessuali e finanziari che l’hanno vista coinvolta lo scorso anno: diversi membri hanno rassegnato le dimissioni e Jean-Claude Arnault è stato condannato a due anni di carcere per stupro. La dimostrazione del fatto che la commissione – come spesso accade nelle strutture di potere – non fosse quel che si può definire moralmente ed eticamente integerrima fa cadere quindi diverse argomentazioni rispetto alla giusta assegnazione dei premi. Un’altra cosa assurda è che per molti, il fatto che negli ultimi tempi alcune donne abbiano vinto basta a dare un senso di parità nella percezione pubblica, anche se in realtà la proporzione è una donna a due-uomini-e-un-po’. Di queste 14 donne laureate, 9 hanno ricevuto il premio a partire dall’inizio degli anni Novanta. Prima tutti uomini, a parte nel 1909 la svedese Selma Lagerlöf; nel 1938 l’americana Pearl S. Buck, figlia di missionari presbiteriani dedicati alla conversione dei contadini cinesi; nel 1926 Grazia Deledda; nel 1945 la poetessa femminista cilena Gabriela Mistral; e nel 1966 la poetessa Nelly Sachs, ebrea tedesca rifugiatasi in Svezia grazie all’aiuto dell’amica Lagerlöf poco prima di essere deportata. Poi, dal ‘66 al ‘91 non resta che uno stuolo di grandi uomini. Viene da chiedersi cosa sia successo alle donne in quei decenni, forse avevano di meglio da fare, cose più utili per la società, forse non potevano permettersi di passare il loro tempo pensando e scrivendo, sottraendolo ai loro “doveri”, ad attività ritenute più importanti o più nobili o semplicemente più adatte a loro, come ad esempio tenere la casa pulita, cucinare e occuparsi dei figli. Al massimo potevano lavorare e portare a casa dei soldi, spesso amministrati dal marito perché si sa le donne hanno le mani bucate, ma non certo dedicarsi alla loro arte. Sembra che il boom economico abbia portato certamente a uno sviluppo della qualità della vita, ma non certo a un’evoluzione della mentalità patriarcale.
L’Accademia sembra aver capito di dover sfruttare quest’occasione sfortunata per rimettersi in discussione e aprirsi a un orizzonte più ampio oltre che alle tematiche portate avanti dal femminismo, che nel corso degli ultimi anni si stanno imponendo in modo sempre più endemico a livello culturale e mediatico. Non si può più far finta che il resto del mondo non esista. Così Anders Olsson, parte della Commissione del Nobel per la letteratura (che si occupa di selezionare le nomination da presentare all’Accademia, composta da 18 membri), poco prima dell’assegnazione del premio ha dichiarato che era giunto il momento di “ampliare le prospettive” e quindi di muoversi verso una visione più inclusiva sia dal punto di vista del genere che delle minoranze. Molte critiche sono nate anche dal fatto che gli ultimi due Nobel sono stati assegnati a due maschi anglofoni, Bob Dylan e Ishiguro Kazuo. Il Nobel della letteratura tra Regno Unito e Usa, infatti, è stato vinto da 22 anglofoni, da 15 francesi, per poi passare a 8 tedeschi e 8 svedesi e da lì a scendere. È giusto che chi affida questo premio si interroghi sulla propria identità, sui propri valori e sul background in cui affondano le radici del proprio pensiero: dato che tutti i nostri comportamenti e certezze sono affette da pregiudizi – e da essi spesso si generano – non si può pensare di esserne immuni. Così sembra che l’Accademia svedese si sia accorta all’improvviso dell’esistenza di un sacco di brave scrittrici, e che limitarsi a ignorarle non possa più essere accettabile. Se entrambi i premi fossero stati assegnati a due uomini si sarebbe probabilmente scatenato un piccolo inferno. Il Nobel del 2018, in sospeso, è stato dunque assegnato a Olga Tokarczuk, scrittrice polacca femminista già vincitrice del Man Booker Prize con I vagabondi. La sua è una narrazione tutt’altro che uniformata alla norma – ovvero a quelle regole di scrittura tanto incensate da una certa letteratura americana in voga, che si sono imposte come piccoli dogmi infrangibili livellando, con risultati non sempre felici, la produzione letteraria di diversi Paesi, come se quello fosse diventato l’unico modo accettato per raccontare qualsiasi cosa. Questa scelta sembra dimostrare che questo rinnovamento non riguardi semplicemente il racconto mediatico della propria identità, ma si muova in una direzione molto più profonda. Almeno è quello che ci auguriamo.