Ribellarsi al ruolo della “brava bambina” è salutare, come Pippi Calzelunghe - THE VISION

Negli anni Novanta, quando la guardavo dal divano del salotto, la serie tv di Pippi Calzelunghe era uscita da quasi trent’anni e continuava ad avere successo. Nei nostri giochi pomeridiani, mia sorella, che era la maggiore e quindi aveva diritto decisionale, era Pippi, l’eroina anticonvenzionale dai denti storti e le trecce rosse. Io, che dovevo adeguarmi, ero Annika, l’amica e vicina di casa fifona, nella quale a malincuore mi rispecchiavo abbastanza, con il suo caschetto castano e il timore reverenziale delle regole. Pippi Calzelunghe però era, per me e mia sorella, prima di tutto un libro, che di recente mi sono ritrovata a sfogliare nella sua prima edizione italiana di Vallecchi: un tomo da 300 pagine, con le inconfondibili illustrazioni in rosso, bianco e nero di Ingrid Vang Nyman e una certa quota di espressioni che recentemente hanno fatto alzare alcuni sopraccigli perché considerate razziste, e che oggi aprono diverse questioni sul tema della riedizione dei classici. Ma, al di là del tempo che si è inevitabilmente depositato sulle parole di Astrid Lindgren, l’autrice svedese più tradotta al mondo, con circa 170 milioni di copie vendute, con la sua Pippi Calzelunghe ci ha regalato un personaggio che ha stravolto l’immaginario letterario dell’infanzia, capace di presentare insegnamenti validi ancora oggi, incoraggiando piccoli lettori e soprattutto lettrici a coltivare la loro indipendenza.

Uscito in Svezia nel 1945 e arrivato in Italia nel 1958, prima che Gianni Rodari si dedicasse alla letteratura per bambini e che Bianca Pitzorno iniziasse a scrivere, l’ispirazione per il libro arrivò a Lindgren che, non sorprende, fu anche attivista per la libertà d’espressione, contro le punizioni corporali e per il benessere animale, critica con gli allevamenti intensivi da alcune teorie degli anni Trenta del pedagogista scozzese Alexander Sutherland Neill, promotore della libertà, convinto che i bambini non abbiano bisogno di insegnamenti, ma di amore, comprensione e spazio per la creatività. Ma l’autrice ideò Pippi soprattutto come espressione del bisogno che aveva lei da piccola di incontrare una persona di potere, ma che non ne abusasse; infatti, Pippi è la bambina più forte del mondo – nella sua forza sovrumana e nel suo lato selvatico c’è un po’ di Tarzan, altra fonte d’ispirazione con Alice nel Paese delle Meraviglie – ma risolve le situazioni con i mezzi della non-violenza e dell’ironia, è generosa e gentile e si mostra in modo onesto, senza fingere di essere qualcosa che non è. Alcune di queste sono qualità proprie dell’infanzia, ma che spesso crescendo perdiamo e che Lindgren ci invita a coltivare, nel nome della libertà, dell’avventura e del gioco, di cui, sotto qualche forma, abbiamo sempre bisogno nella vita, anche da adulti.

Quando uscì il libro, i bisogni dei bambini erano piegati alle necessità di un mondo disegnato per gli adulti, che spesso, per affermare la propria autorità e inculcare le “buone maniere”, ricorrevano anche alle botte. Pippi, invece, a circa nove anni vive da sola – la madre è morta, il padre è un pirata sparito in qualche viaggio per il mondo – con una scimmietta e un cavallo, non va a scuola, vive grazie a un forziere di dobloni d’oro, si gode la vita improvvisando ogni giornata e si prende gioco degli adulti, soprattutto quando sono impostati e autoritari, e delle regole insensate del loro mondo; ogni giorno trascina i suoi amici Tommy e Annika in qualche avventura, facendoli uscire dalla loro vita pettinata di bravi bambini. Per questo i più conservatori videro nella ragazzina dai capelli rossi piena di lentiggini – di cui va fiera, quasi un messaggio di body positivity in un’epoca in cui le lentiggini erano un difetto da nascondere con il trucco – un via spianata verso il degrado sociale.

Astrid Lindgren era stata vittima del conformismo benpensante e sapeva quanti danni possono fare le regole sociali – soprattutto quelle non scritte – fin da quando, giovanissima, rimasta incinta del suo capo, aveva dovuto trasferirsi dalla tranquilla Vimmersby a Stoccolma, per dare meno nell’occhio come ragazza madre, e aveva poi preso la difficile decisione di dare in affido il figlio Lars perché, sola, non poteva prendersene cura mentre era al lavoro; lo riprese con sé quattro anni dopo, una volta stabilizzatasi economicamente. Si sposò, ebbe la figlia Karin e diventò per caso una scrittrice, mettendo per iscritto – convalescente da una distorsione alla caviglia – le storie raccontate a Karin la sera per farla addormentare. Con quello che sarebbe diventato il primo capitolo di Pippi Calzelunghe, nel 1945 vinse un concorso per racconti indetto dalla casa editrice Rabén & Sjögren.

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Il testo può essere considerato rivoluzionario: la storia della letteratura per l’infanzia – genere letterario codificato con intenti pedagogici e, quindi, specchio del contesto politico e sociale dell’epoca e soprattutto dei suoi valori – è costellata di avventure che sono appannaggio esclusivo di protagonisti maschi, dai Tre moschettieri alle Avventure di Tom Sawyer, da Stevenson a Kipling, da London a Dickens, passando per l’italiano Salgari. I personaggi femminili di carattere, in realtà, non mancano: basti pensare alle Piccole donne di Louisa May Alcott, che però trascorrono una vita piuttosto ritirata, le loro vicende si svolgono nell’ambiente domestico e si rivolgono a un pubblico quasi esclusivamente femminile.

Ci sarebbe un’ampia parentesi da aprire sul perché i maschi snobbino i libri scritti da donne e con protagoniste femminili, ma è indubbio che Astrid Lindgren sia stata tra le prime autrici ad avere successo con una protagonista femminile fuori dagli schemi, in grado di scardinare un immaginario convenzionale e di parlare anche ai lettori maschi. Ma la rivoluzione più grande l’ha fatta per le lettrici, che hanno scoperto con lei che l’indipendenza, l’esuberanza e l’amore per l’avventura sono anche “cose da femmine”. E se oggi la “ragazza stramba” è diventata quasi solo un altro luogo comune, il suo portato è stato importante e può essere fatto risalire proprio a Pippi Calzelunghe.

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In questo senso, il romanzo è un esempio di quello che la letteratura dovrebbe fare: incoraggiare a pensare con la propria testa e mettere in dubbio i sistemi predefiniti. Lindgren, convinta che nell’educazione dei bambini le regole possano essere persino controproducenti – e che dando amore a sufficienza, prima o poi arrivi anche il buonsenso che si pensa di poter instillare con la coercizione – scrisse sul quotidiano svedese Svenska Dagbladet nel 1970: “Non ho messaggi da lasciare. Ma vorrei diffondere una generale tolleranza verso la follia umana”.  E proprio di un po’ di sana follia – nel senso di ribellione e avventuroso divertimento, apparentemente fine a se stesso, perché non volto a qualche risultato come oggi ogni attività sembra dover essere per forza, ma che in realtà porta sempre qualche scoperta, del mondo e di sé – è portatrice Pippi Calzelunghe.

Ecco perché abbiamo ancora bisogno di lei: ne hanno bisogno i bambini, liberati – almeno in Europa – dalle punizioni corporali e dalla severità eccessiva, ma schiacciati da troppi obblighi e aspettative, trasmesse loro da genitori talvolta anche troppo investiti del proprio ruolo, che reagiscono in questo modo disfunzionale alla competitività, fomentata da diversi media, di una società che ci spinge all’iper-produttività e a primeggiare. Così, in buona fede, spesso finiamo per riversare speranze e attese sui nostri figli, caricandoli di attività in cui sono spinti a performare – dagli sport alle lingue straniere agli altri innumerevoli corsi pomeridiani per stimolare questo e quello – e rischiano di risultarne esausti, caricati da nuovi doveri e privati della noia, che è spazio per la creatività, che ha bisogno di tempo ed esercizio per esprimersi. 

Questa condizione è ulteriormente rafforzata dalla scuola, fatta di ore troppo lunghe immobilizzate ai banchi e metodi di insegnamento obsoleti, ormai scollati dalla realtà della vita dei ragazzi: si veda, per esempio, il divieto di cellulare a scuola, anche per scopi didattici. Oltre a privarli di spazio e tempo da riempire come vogliono – e, quindi, della possibilità di scoprire quello che davvero gli piace e, quindi, se stessi – questo stile di vita, assieme a genitori iperprotettivi, paradossalmente deresponsabilizza i bambini e, quindi, infantilizza gli adolescenti; questi, non a caso, oggi sentono meno l’istinto a trasgredire – come rilevano diverse ricerche sui comportamenti trasgressivi e in particolare il lavoro della psicologa americana Jean Twenge – e a coltivare quella sana ribellione che è un passaggio verso l’età adulta, un mezzo per trovare e costruire la propria identità. Sono molti i genitori che tendono a controllare ogni passo dei figli, senza lasciarli liberi di sbagliare: il loro coinvolgimento può essere persino eccessivo, da un lato spingendoli a trascurare i loro bisogni, dall’altro creando una generazione di giovani incapaci di affrontare la vita vera, che non è un universo fatato di principi che ci salveranno con un bacio, ma un mondo spesso difficile, con ostacoli e paure da affrontare, muri da scavalcare e trappole da cui sapersi liberare. Per questo le avventure di Pippi Calzelunghe meritano di continuare a essere lette. 

Sono passati più di vent’anni da quando il personaggio di Pippi è entrato nella mia vita. E io, da bambina diligente qual ero, intimorita dall’autorità e troppo responsabile per la mia età, sono arrivata ai trent’anni sentendomi impreparata a essere adulta, ma ho imparato che ribellarsi al ruolo della “brava bambina” può essere salutare e che ci sono libri che dopo settant’anni continuano a essere attuali e necessari, capaci ancora di lanciare un messaggio alle bambine di oggi: in un mondo di regole e pressioni che vi giudicherà sempre sbagliate, soprattutto se femmine – per le vostre parole, i vostri vestiti, la vostra postura, il vostro aspetto – non vergognatevi di essere Annika, ma siate più Pippi.

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