Una città del mondo occidentale viene colpita da una malattia che attacca in maniera subdola l’apparato respiratorio. Non si conosce una cura e a farne le spese sono soprattutto le fasce più deboli della popolazione, che in molti casi vanno incontro alla morte. Non si tratta di una profezia di Nostradamus, né tantomeno di uno dei tanti episodi premonitori dei Simpson, stiamo parlando della trama di Nemesi, l’ultimo libro di Philip Roth tradotto in italiano da Norman Gobetti e scritto nel 2010, prima che lo scrittore statunitense riponesse la sua Olivetti Lettera 32 e si ritirasse dal mondo della letteratura.
La malattia di cui parla l’autore di Pastorale americana, venuto a mancare nel 2018, è la poliomielite, che colpì duramente gli Stati Uniti durante la seconda guerra mondiale e negli anni immediatamente successivi. Proprio a Newark, la città natale di Roth, in New Jersey, fu registrato un gran numero di vittime. I parallelismi sociali con la situazione che stiamo vivendo nel 2020 a causa dell’epidemia di COVID-19 sono numerosissimi. Eppure questo non è l’unico motivo per cui leggere, o rileggere, Nemesi. Come molti scrittori prima di lui, Roth utilizza il tema della malattia, sia come motore della storia che come pretesto per raccontare il proprio tempo, le psicosi collettive e le loro ripercussioni. Eppure, ci sono alcune differenze sostanziali rispetto ai suoi predecessori, le quali rendono la storia di Bucky Cantor, protagonista del libro, molto più vicina alla nostra.
La vicenda è ambientata in un’apparentemente anonima città della costa orientale degli Stati Uniti. Una Newark equatoriale, dove il caldo torrido è l’unico motivo di preoccupazione dei bambini del campo estivo del quartiere di Weequahic. Il centro è gestito da Bucky Cantor, giovane animatore, tormentato dal rimpianto di non aver potuto partecipare alla guerra come i suoi fratelli a causa di problemi alla vista. Ad azionare il meccanismo narrativo della storia è un gruppo di ragazzini italiani, tra i tanti immigrati arrivati negli Stati Uniti insieme ai loro genitori prima che iniziasse la guerra, il quale minaccia di contagiare tutto il vicinato con la polio. Il nostro Mr. Cantor riesce ad allontanarli, ma, nonostante non ci siano prove che a portare la malattia siano stati effettivamente loro, gli italiani vengono immediatamente additati come i principali responsabili dell’epidemia. Da qui, parte una spirale di odio razziale, caccia all’untore e paranoie.
Uno dei momenti più struggenti del romanzo è quando a essere accusato di aver portato la polio nel campo sportivo della città è un ragazzo disabile (in quanto la polio colpisce i neuroni motori del midollo spinale e porta alla paralisi), che finisce per essere emarginato e respinto dai suoi stessi compagni. A fare da contraltare all’irrazionalità dei bambini, spesso conseguenza dei discorsi che sentono dai genitori, c’è la saggezza del futuro suocero di Mr. Cantor, che è un medico. È lui a tranquillizzare Bucky sulla reale situazione e a convincerlo a raggiungere la ragazza di cui è innamorato, lontano dai problemi e soprattutto lontano dalla polio. Ma questo non eviterà al protagonista di portarsi dietro lo spettro dei problemi irrisolti.
Come la COVID-19, anche la polio (ancora presente in diverse parti del mondo) può arrivare a portare alla morte per soffocamento, colpisce una particolare fascia della popolazione (in questo caso i bambini), ed è spesso veicolata da portatori sani. Le vittime in molti casi rimangono sulla sedia a rotelle, tetraplegiche o, ai tempi, costrette in un polmone d’acciaio (l’antenato dei moderni ventilatori meccanici). All’epoca non si conoscevano le modalità di trasmissione della malattia e un vaccino efficace sarebbe stato scoperto soltanto dieci anni dopo. Eppure, nonostante Nemesi abbia nelle sue stesse premesse l’idea della malattia – essa è di volta in volta sfondo, protagonista, fantasma, ricordo – il vero oggetto del libro è il regolamento di conti del protagonista con se stesso, con il proprio passato e con la società in cui è immerso. Ogni pagina, come vuole molta della narrativa classica americana, è intrisa di un senso di colpa inspiegabile fino all’ultimo capitolo, come se il protagonista, con ogni suo gesto, stesse tradendo i propri affetti, la propria identità, la propria patria.
Dal punto di vista letterario, la malattia è sempre stata uno straordinario motore narrativo e fonte di ispirazione. Fin dall’antichità è stata usata come pretesto per raccontare ed esplorare i meccanismi psicologici individuali e sociali. L’elenco degli autori che hanno raccontato le conseguenze fisiche, morali, psicologiche e sociali della patologia è sterminato. Se per il portoghese José Saramago la misteriosa cecità che colpisce i personaggi dell’omonimo libro è un modo per raccontare l’indifferenza umana di fronte al prossimo, per Philip Roth la decadenza del corpo è un modo per indagare aspetti come la sensazione di impotenza di fronte al male, il senso di colpa e i meccanismi di paranoia collettiva, in un dialogo continuo tra la dimensione individuale dell’essere umano e quella collettiva della società. Il libro di Roth rappresenta uno strumento per leggere il presente con occhi diversi; senza fornire risposte facili o retoriche, Nemesi è un libro attuale, struggente, spietato.
Come Bucky Cantor, anche la società odierna deve fare i conti con se stessa. La COVID-19 ci ha messo di fronte a una realtà che speravamo, irrazionalmente, dato che tutto suggeriva il contrario, di evitare. La pandemia ha sollevato da sotto il tappeto tutte le incongruenze e le ingiustizie che ci portavamo dietro, illudendoci di poterle nascondere per un tempo indefinito. È vero, quando si manifesta un qualsiasi tipo di crisi, emerge anche il buono che c’è nel mondo, ma il costo da pagare è alto. A fare i conti con la propria nemesi sono adesso il liberismo e la globalizzazione. Ma, per ora, proprio come per Bucky Cantor, per fare pace con noi stessi, dobbiamo solo contare i danni e trovare la forza e il coraggio per voltare pagina.